Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c8
Anche il criterio minimo di coordinamento tra i due piani della contrattazione collettiva, rappresentato dall’«obbligo di pace relativo», è stato eliminato nel nuovo sistema contrattuale imposto dai mutati rapporti di forza in Italia. Il contratto collettivo non è più un contratto nel senso proprio di questo termine, ma si riduce a un semplice «constat» col quale le parti si danno atto che la vertenza in corso è chiusa sulla base di equilibri concordemente riconosciuti come linee di assetto delle relazioni industriali dalle quali non si tornerà più indietro, ma rispetto alle quali il sindacato non garantisce che non saranno in futuro, pur durante la vigenza del contratto, sollevate ulteriori pretese di spostamento in avanti, eventualmente sostenute da misure di lotta. È un’attitudine diversa dalla concezione del contratto collettivo, caratteristica del sistema inglese, come contratto non legalmente sanzionato per nessuna delle parti, ma impegnativo per {p. 238}entrambe nell’ordinamento extrastatuale delle relazioni industriali fondato sull’autonomia collettiva
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. Poiché nel diritto italiano le condizioni di trattamento dei lavoratori, fissate nel contratto collettivo, sono sanzionate dallo Stato con una norma di inserzione automatica nei contratti individuali di lavoro, e inoltre è illegittima la serrata come mezzo per ottenere una modificazione di tali condizioni, l’immagine del contratto collettivo costruita dai sindacalisti italiani si risolve nella pretesa che esso sia solo unilateralmente vincolante, cioè produttivo di obbligazioni «giustiziabili» soltanto per i datori di lavoro: una pretesa che, comunque la si giudichi da altri punti di vista, è certamente incompatibile con i principi del diritto civile, secondo i quali il contratto unilateralmente vincolante o è un atto di liberalità oppure non può ottenere la sanzione giuridica se non in quanto l’obbligazione assunta da una parte sia giustificata da una «causa data», cioè da una prestazione già eseguita dall’altra parte
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Con ciò non si intende affermare che il rifiuto dell’obbligo di pace (relativo), da cui è caratterizzata l’attuale politica contrattuale dei sindacati italiani, sia affatto arbitrario e privo di fondamento razionale. L’obbligo di pace – si obietta – fornisce una copertura formale, sottraendole al controllo sindacale, ad alterazioni sostanziali degli equilibri contrattuali che possono prodursi, in sede di applicazione del contratto collettivo, a causa della stretta dipendenza delle condizioni di lavoro dall’organizzazione del lavoro unilateralmente determinata dal potere direttivo dell’imprenditore. Sotto questo profilo, la distinzione tradizionale fra controversie giuridiche e controversie economiche di lavoro non offre uno strumento teorico adeguato alla valutazione delle controversie che possono sorgere dopo la stipulazione del contratto collettivo. Simili obiezioni, però, presuppongono un modello statico di contrattazione collettiva, intesa esclusivamente come contrattazione di mercato, e quindi una concezione rigida dell’obbligo di pace come obbligo delle parti contraenti di ritirarsi dalla scena, la loro funzione essendosi esaurita nel momento della stipulazione del contratto. Questo modello, risalente ai tempi dei coniugi Webb
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, non è aggiornato nemmeno con la teoria civilistica, la quale riconosce pacificamente nei contratti di scambio ad esecuzione continuata o differita il limite di impegnatività costituito dalla clausola rebus sic stantibus. Ma il sistema inglese e, nel continente, anche il sistema belga indicano l’esistenza di un altro metodo, «dinamico» o «istituzionale»
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, il quale prolunga la funzione dei sindacati stipulanti in un’attività successiva di amministrazione congiunta del regolamento collettivo, nell’ambito di commissioni permanenti di conciliazione delle controversie relative all’interpretazione e all’applicazione del contratto: un metodo che, senza contraddire il carattere impegnativo del
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contratto, procura la disponibilità di standards flessibili di applicazione e istituzionalizza anche la possibilità di revisioni, negoziate dalle stesse parti, nel caso di sopravvenute modificazioni della situazione-base originaria. Non verso la diffusione di questo metodo, che pur aveva avuto sviluppi incoraggianti alla fine degli anni Cinquanta
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, è orientato il sistema contrattuale italiano. Nel momento storico attuale il movimento sindacale diffida degli organismi di conciliazione, né è disposto ad accettare periodi di riflessione o ad attendere i risultati di commissioni d’inchiesta prima di decidere il ricorso all’arma dello sciopero
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. La logica dell’organizzazione di classe, acuita dalle lotte del 1968-’70, ha sviluppato una struttura contrattuale estremamente mobile e precaria, che si esprime in una processualizzazione della contrattazione collettiva. Non solo la contrattazione formale, condotta dal sindacato, si svolge su piani diversi (nazionale e aziendale) non coordinati nemmeno dall’impegno minimo di non riproporre questioni già definite al livello superiore, ma essa si prolunga in una contrattazione continua informale ai livelli infra-aziendali di stabilimento o di singole linee di produzione, condotta dai delegati di reparto fuori dal quadro istituzionale delle competenze contrattuali, e utilizzata come forma conflittuale di controllo sull’organizzazione e i modi di impiego del lavoro. Un fenomeno analogo è descritto (e deplorato) dalla letteratura inglese in termini di «frammentazione» della contrattazione collettiva nello shopfloor bargaining dei gruppi di lavoro rappresentati dagli shop stewards
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. Ma in Inghilterra il fenomeno è imputabile alla rigida centralizzazione della contrattazione formale ai livelli superiori alle imprese: la mancanza di una contrattazione ufficiale d’impresa, diretta a fissare i salari effettivi, è supplita da accordi ¶{p. 241}non ufficiali di integrazione dei minimi salariali, frammentati fino ai singoli reparti produttivi, dove il management trova una controparte negli shop stewards. In Italia, invece, il fenomeno si è sviluppato malgrado l’ampio decentramento della contrattazione formale sul piano aziendale e la fissazione a questo livello, con la partecipazione dei consigli dei delegati, di standards salariali effettivi. L’attività contrattuale non ufficiale dei singoli delegati di reparto investe non solo e non tanto l’area salariale, quanto l’area del potere organizzativo dell’imprenditore, assoggettandolo a una forma di contestazione permanente. Ad ogni modo, o perché determina una crescita disordinata dei salari o perché rallenta l’incremento della produzione ostacolando le tecniche di piena utilizzazione degli impianti, la contrattazione di reparto contribuisce in entrambi i paesi ad alimentare i meccanismi dell’inflazione.
9. La protezione dei lavoratori investiti di funzioni di rappresentanza sindacale nelle imprese.
I lavoratori che assumono compiti di rappresentanza sindacale interni all’impresa sono esposti più degli altri al rischio di licenziamenti o trasferimenti di rappresaglia o di altri provvedimenti discriminatori da parte del datore di lavoro. Non sempre, tuttavia, sono previste in loro favore forme speciali di protezione, integrative della tutela generale dei lavoratori contro i licenziamenti e i trasferimenti ingiustificati, e in particolare (con sanzioni più gravi) contro gli atti discriminatori motivati dalla loro affiliazione o attività sindacale. Le ragioni della mancanza di una protezione privilegiata sono di vario genere: per es. in Jugoslavia vanno cercate nel sistema di autogestione operaia delle imprese; in Olanda nella gradualità della nuova disciplina collettiva delle cellule sindacali d’impresa, la quale non è ancora giunta ad ammettere in loro favore forme di tutela analoghe a quelle previste dalla legge per i membri dei consigli di impresa; in Gran Bretagna nel principio tradizionale (salva la parentesi della legge Carr) di non interfe¶{p. 242}renza della legge statale nell’organizzazione sindacale
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Le forme speciali di tutela previste da altri ordinamenti hanno varia natura e gradi diversi di intensità. Frequentemente hanno natura stragiudiziale, e consistono nell’assoggettamento, a pena di nullità, del licenziamento e/o del trasferimento ad altra unità produttiva all’autorizzazione di un organo dello Stato o dell’associazione territoriale alla quale si riferiscono le funzioni di rappresentanza sindacale esercitate dal lavoratore nell’unità produttiva. In Francia il licenziamento dei delegati sindacali nelle imprese (analogamente al licenziamento dei delegati eletti dal personale) è subordinato all’autorizzazione dell’ispettorato del lavoro
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. In Turchia è assoggettato ad una procedura amministrativa di conciliazione e di arbitrato, ma i contratti collettivi richiedono anche l’autorizzazione del sindacato. Nell’Unione Sovietica il licenziamento del presidente e dei membri del comitato sindacale d’impresa non è ammesso senza una doppia autorizzazione sindacale: in primo luogo, l’autorizzazione dello stesso comitato (richiesta per il licenziamento di qualunque prestatore di lavoro), e in seconda istanza l’autorizzazione dell’organizzazione sindacale superiore (una sorta di «doppia conforme»). Una tutela preventiva, nella forma del nulla osta dell’associazione sindacale di appartenenza, è prevista dalla legge italiana soltanto per il trasferimento dall’unità produttiva dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali (e dei membri di commissioni interne), mentre la ¶{p. 243}protezione speciale contro il licenziamento è successiva ed ha natura giurisdizionale: essa consiste nella possibilità di ottenere dal giudice, quando il licenziamento sia manifestamente ingiustificato, un ordine immediato di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, senza bisogno di attendere la sentenza dichiarativa di illegittimità del licenziamento.
Il grado di intensità della tutela è misurato dalla sanzione che colpisce gli atti discriminatori. La sanzione meno efficace è il risarcimento dei danni, tanto più quando, come in Gran Bretagna, è contenuto entro un limite massimo. La sanzione penale è certamente più dissuasiva, ma non troppo, soprattutto se ha natura semplicemente contravvenzionale o correzionale, qualora non sia accompagnata dalla sanzione civile di nullità dell’atto. Questa è in generale la posizione del diritto francese: il licenziamento discriminatorio, sebbene qualificato come illecito penale, non è nullo, ma produce soltanto l’obbligazione di risarcimento del danno. Se si tratta di licenziamento di un delegato sindacale (o eletto dal personale), soggetto al requisito speciale dell’autorizzazione dell’ispettorato del lavoro, la violazione di tale requisito è causa di nullità, e quindi comporta il potere del giudice di ordinare la reintegrazione del delegato nel posto di lavoro. Ma la regola generale torna a valere anche per i delegati nel caso che il licenziamento, regolarmente autorizzato dall’autorità amministrativa, sia dichiarato illegittimo dall’autorità giudiziaria, su domanda del lavoratore. Una disciplina analoga, ma estesa a tutti i lavoratori, è organizzata dalla legge olandese.
In Italia il licenziamento di ritorsione non è sanzionato penalmente (la sanzione penale colpisce solo gli atti discriminatori in sede di assunzione al lavoro, cioè gli atti di cui all’art. 1, lett. a) della convenzione n. 98 dell’OIL), ma è sempre nullo come tale, e comporta – del resto secondo una regola comune a tutti i casi di licenziamento ingiustificato – l’obbligo del datore di lavoro, reso esecutivo da un ordine del giudice, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Qualora sia li
¶{p. 244}cenziato senza giustificato motivo o senza giusta causa un lavoratore investito di funzioni di rappresentanza sindacale (o membro di commissione interna), il datore di lavoro, che non ottempera all’ordine del giudice, è obbligato a pagare per ogni giorno di ritardo, oltre alla retribuzione spettante al lavoratore in base al rapporto di lavoro, una somma di pari ammontare al Fondo pensioni, a titolo di pena pecuniaria (civile). Inoltre la legge italiana reprime con una pesante pena pecuniaria, irrogata dal giudice civile su domanda dei lavoratori discriminati (e devoluta sempre al detto Fondo), anche le discriminazioni attuate mediante la concessione di trattamenti collettivi di maggior favore ai lavoratori che non aderiscono a una associazione sindacale, non svolgono attività sindacale o non partecipano a scioperi.
Note
[23] Cfr. Kahn-Freund, op. cit., pp. 131, 134; e dello stesso autore, Intergroup conflicts and their settlement, nel volume collettaneo Collective Bargaining, a cura di Flanders, London, 1969, pp. 79 s.
[24] Non direi che la concezione del contratto collettivo come contratto giuridicamente vincolante per una sola parte (gli imprenditori) trovi un fondamento positivo, fuori dal diritto comune, nell’art. 40 Cost., che garantisce ai lavoratori il diritto di sciopero. Chiamare l’art. 40 a «presiedere alla costruzione del concetto di contratto collettivo» implica un’inversione di metodo. L’art. 40 non regola gli effetti del contratto collettivo, ma al contrario dipende dalla questione della presenza, tra questi effetti, del dovere di pace l’individuazione di un limite del diritto di sciopero. Del resto, nemmeno Giugni e Mancini, Movimento sindacale e contrattazione collettiva, in Atti, cit., (supra, nota 12), pp. 103 s., si fidano troppo di un simile argomento, e preferiscono impostare la loro tesi sul terreno dell’interpretazione della volontà delle parti. Ma daccapo: o si approda alla concezione del diritto inglese, secondo la quale il contratto collettivo è caratterizzato dalla volontà negativa di entrambe le parti di non impegnarsi giuridicamente, così che l’obbligo giuridico di pace non interviene in alcun modo a qualificare la sua funzione; oppure si finisce con l’accreditare una (a dir poco) singolare nozione di contratto collettivo, nel quale ima parte, mentre si attende e pretende che l’altra si impegni, rifiuta di impegnarsi a sua volta: insomma un contratto regolato per una parte (gli imprenditori) dal «diritto borghese» (cioè dal diritto dello Stato) ispirato al principio poeta sunt servando, per l’altra (il sindacato) dal «diritto rivoluzionario di classe», che considera quel principio una mistificazione.
[25] «Per i Webb il contratto collettivo era esattamente ciò che significano le parole: un equivalente collettivo e alternativo del contratto individuale»: così Flanders, in Collective Bargaining, cit., p. 13.
[26] Cfr. Kahn-Freund, Labour and the Law, pp. 56 s.
[27] Cfr. Giugni, I limiti legali dell’arbitrato nelle controversie di lavoro, in «Riv. dir. lav.», 1958, I, pp. 2 s.
[28] Come proponeva saggiamente Mancini, Libertà sindacale e contratto collettivo erga omnes, in «Riv. trim. dir. e proc. civ.», 1963, p. 595.
[29] Cfr. Kahn-Freund, op. ult. cit., pp. 74 s.
[30] Secondo la legge del 1971, la tutela delle nonne generali antidiscriminatorie era limitata ai lavoratori affiliati a una organizzazione sindacale registrata o comunque attivi per conto di essa. Raramente, perciò, avrebbe potuto essere invocata dagli shop stewards, dal momento che la maggioranza delle trade unions aveva boicottato la legge decidendo di non farsi registrare.
[31] In caso di rifiuto dell’autorizzazione amministrativa, il datore di lavoro era ammesso dalla giurisprudenza a domandare la risoluzione giudiziale del contratto di lavoro secondo le regole del codice civile. Questa giurisprudenza, che aveva sollevato vive proteste da parte dei sindacati, è stata abbandonata dalla Corte di cassazione con due sentenze del 21 giugno 1974, che segnano un rafforzamento ulteriore dell’autonomia del diritto del lavoro.