Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c1
Questi mezzi sono dati dagli strumenti concettuali-conoscitivi della dogmatica giuridica. L’applicazione del diritto concretizza un universale, mentre la topica, in quanto è e rimane legata al problema, e quindi mira ad affermare il primato dell’individuale nella realtà del diritto, «non è costituita per cogliere l’universale»
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. Essa serve a mediare l’applicazione dell’universale alla situazione concreta, ma quest’opera di mediazione esige infine che il problema sia valutato in una prospettiva sistematica, così da rendere possibile all’interprete la «distanza critica»
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necessaria per sceverare le circostanze di fatto (e quindi i punti di vista) giuridicamente rilevanti (tipiche) da quelle irrilevanti. Il pensiero problematico muove dalle aporie del caso, formulandolo nei termini di una ricerca dialettica: scopre i punti di vista fecondi per la discussione, ne svolge i rispettivi argomenti comparandoli e soppesandoli, e conclude con un giudizio di preferenza o di rifiuto di una o dell’altra delle soluzioni possibili. Un giudizio di questo tipo («a è migliore di b»), salvo che la formazione della regola da valere nel caso concreto sia delegata al giudice da una «clausola generale»
[114]
, è normativamente vincolante solo se conforme {p. 50}a una valutazione prestabilita dal diritto positivo, e ai fini di tale verifica deve essere trasformato in una proposizione descrittiva idonea a collegare le circostanze di fatto agli elementi di una fattispecie normativa astratta: idonea, cioè, a fornire il termine medio di un’argomentazione in forma dimostrativa. Le valutazioni normative, infatti, si esprimono mediante concetti descrittivi di fatti e di conseguenze giuridiche, che è compito della dogmatica analizzare e ordinare secondo le loro connessioni logiche
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9. Interazione tra pensiero problematico e pensiero sistematico.
Tuttavia, una volta riconosciuta la non omogeneità del metodo giuridico, che non può essere né esclusivamente topico, né esclusivamente logico-sistematico, e riconosciuta alla dogmatica la sua indeclinabile funzione informativo-critica delle possibilità di soluzione ¶{p. 52}coerenti col sistema del diritto positivo, il rapporto tra le due forme di pensiero non è ancora sufficientemente definito. Anzi il discorso fin qui condotto potrebbe suggerire l’idea, del tutto inadeguata, che esse si giustappongano in un rapporto di successione analogo alla ripartizione dell’antica dialettica nella «via inventionis» (topica) e nella «via iudicii vel resolutionis» (critica)
[116]
. Questo schema non è adatto a rappresentare il modo di integrazione delle due «vie» (o metodi) nel ragionamento giuridico. Esso è legato all’uso retorico della topica antica, le cui argomentazioni procedevano (sul modulo del sic et non) senza controllo delle premesse (opinioni) da cui di¶{p. 53}pendevano; la verifica delle premesse mediante il giudizio critico, in funzione di una scelta tra le varie possibilità in discussione, sopravveniva (eventualmente) in un secondo tempo. La topica moderna, invece, separata dalla tradizione retorica e integrata nell’ermeneutica, fa appello alla riflessione coinvolgendo permanentemente nel suo itinerario (che non è quello lineare della logica analitica) la critica del giudizio. I suoi risultati sono giudizi riflessi, non semplici deduzioni dai giudizi irriflessi del senso comune. Interpretare e riflettere sono infatti un solo e medesimo atto. La dogmatica giuridica assoggetta i risultati del pensiero problematico a una verifica ulteriore dal punto di vista della razionalità del sistema normativo, il quale «ha le sue ragioni» (anche, ma non solo, artificial reasons), che non necessariamente coincidono con quelle fatte valere da punti di vista extrasistematici pur se fondate «sull’opinione o di tutti o della grande maggioranza o dei sapienti».
Una delle ragioni essenziali della regola del diritto, posta nella forma della legge generale, è la razionalizzazione dell’amministrazione della giustizia, che viene vincolata a criteri di valutazione tipici, conoscibili in anticipo da parte dei consociati, in guisa da attuare il principio dell’uguaglianza di trattamento di casi oggettivamente uguali e, con esso, l’esigenza di certezza dell’applicazione del diritto o almeno, in una società complessa e in costante movimento come la nostra, di un grado tollerabile di incertezza
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. Assicurare questa esigenza, mediante un apparato concettuale che diriga uniformemente l’interpretazione della legge per ogni costellazione di casi aventi la medesima struttura tipica, è il compito della dogmatica giuridica. Essa impedisce che il pensiero problematico, sollecitato dalla politica del diritto, rimetta continuamente in discussione significati normativi già compresi in relazione a casi precedenti, punti di vista già consolidati nell’esperienza giuridica, e a tale scopo li trasforma in concetti descrittivi o ordinatori, assiologicamente neutrali, ¶{p. 54}attraverso i quali il significato normativo dei fatti è colto nella totalità dell’esperienza giuridica, sì da garantirne la non contraddittorietà
[118]
. Riconoscere che l’interpretazione non è soltanto riproduttiva, ma integrativa del senso della legge, il quale non si manifesta compiutamente se non nell’applicazione, non implica che la misura della legge «per essere compresa in modo adeguato, deve essere compresa in ogni momento, ossia in ogni situazione concreta, ¶{p. 55}in maniera nuova e diversa»
[119]
. Se una simile direttiva dovesse affermarsi nell’ermeneutica giuridica, secondo la tendenza individualizzante della politica del diritto, l’idea dell’«un peso, una misura», elemento fondamentale della giustizia, «diventerebbe una pura illusione»
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, e sarebbe interamente perduto il valore della certezza del diritto. Quando un’espressione della legge è suscettibile di più significati
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, dall’angolo di visuale della topica essi sono equivalenti
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perché tutti forniscono un progetto di interpretazione fornito di senso. Nel momento della riflessione critica la topica tenderà a scegliere il significato giudicato più conveniente alla soluzione del problema, senza preoccuparsi (e del resto non essendo in grado) di accertare se il significato preferito sia coerente con l’ordine in cui il testo è inserito, e quindi idoneo a stabilizzarsi in vista dell’applicazione a casi futuri. L’esigenza di razionalità sistematica dei risultati dell’interpretazione per assicurarne la stabilità, senza la quale non è possibile il controllo dell’applicazione del diritto
[123]
, è fatta valere, in funzione di limite della topica, dal pensiero dogmatico.
Ma, a sua volta, il pensiero problematico corregge la tendenza universalistica della dogmatica giuridica, che può tradursi in forme di irrigidimento concettuale del sistema oltre i limiti al di là dei quali la struttura del nuovo caso è in realtà così modificata da legittimare l’istanza (topica) di una comprensione nuova e diversa della legge. I due metodi non si abbinano in un «ordo successivus», ma si integrano in un rapporto di interdi
¶{p. 56}pendenza o interazione
[124]
. I concetti dogmatici, in cui si sono originariamente fissati significati normativi compresi in un determinato momento storico e con riferimento a un certo ordine di problemi, si convertono poi nel nucleo specificamente giuridico della precomprensione dirigendo gli esiti del processo ermeneutico verso quei medesimi significati e l’estensione di essi a nuovi casi attraverso concatenazioni logico-deduttive. La dogmatica non è in grado di produrre nuovo sapere, di sviluppare autonomamente (per mezzo di semplici trasformazioni logiche) nuove possibilità di soluzione immanenti al sistema normativo; tende piuttosto a sostituire al sistema normativo il proprio sistema di concetti, e quindi a modellare la realtà giuridica, immersa nel movimento della storia, sul «già conosciuto». Il sapere topico, invece, «adolescit et incrementa sumit cum ipsis inventis»
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: indagando scopre nuovi punti di vista socialmente rilevanti, dai quali elabora ipotesi di soluzione diverse contrapponendole criticamente alle anticipazioni di senso della costruzione dogmatica
[126]
. Questi nuovi progetti di soluzione, proposti {p. 57}dall’arte inventiva del pensiero problematico, dovranno poi essere assoggettati alla riflessione del pensiero sistematico; ma a una riflessione fatta consapevole del problema e disposta ad abbandonare moduli teorici già acquisiti per percorrere nuove linee di concettualizzazione adatte a integrare coerentemente nel sistema premesse di decisione socialmente più adeguate. Fra gli esempi di maggiore attualità, che dimostrano il concorso e l’influenza reciproca delle due forme di pensiero, si può citare il tema della responsabilità del produttore. L’ipotesi di soluzione in termini di responsabilità del produttore, contrattuale o extracontrattuale, oltre i limiti delle norme generali legate al presupposto della colpa, argomentata dai punti di vista extrasistematici di una moderna politica di tutela dei consumatori in una società di produzione di massa, deve trovare un punto di inserzione dogmatica nel sistema, e quindi è subordinata al controllo del metodo sistematico. Ma, a sua volta, essa preme sul sistema per aprirlo al problema mediante opportune correzioni o modificazioni delle sue strutture dogmatiche; domanda al giurista una più sciolta fantasia dogmatica
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Note
[112] Aristotele, Confutazioni sofistiche, cap., XI, 172a, 10-15 (trad. di G. Colli).
[113] Cfr. Luhmann, Rechtssystem, cit., p. 16.
[114] Ma anche in questo campo, indubbiamente il più aperto all’argomentazione topica, occorre stare attenti (e la cautela manca talvolta alla dottrina germanica quando ricorre al § 242 BGB). Non di rado un giudizio di valore formulato in base alla clausola della buona fede, e poi generalizzato a una serie di casi mediante la trasformazione in una nuova figura dogmatica, è legittimo solo in funzione di determinati presupposti sistematici che devono essere verificati sul piano dogmatico. Una dimostrazione di questo punto, con riferimento alla figura del «contratto con effetti di protezione per terzi», è fornita da Castronovo, Obblighi di protezione e tutela del terzo, in «Jus», 1976, pp. 123 ss.
[115] Un esempio illuminante sotto molti aspetti del discorso condotto nel testo si può trovare in Ehrlich, Die juristiche Logik2, Tübingen, 1925, pp. 245 ss., uno dei maggiori rappresentanti della Interessenjurisprudenz. Nel luogo citato è esaminato un problema di diritto tavolare allora (la la ed. è del 1917) molto dibattuto nella dottrina austriaca (più tardi, negli anni Cinquanta, ha formato materia di vivace disputa anche in Italia, in relazione al r.d. 28 marzo 1929, n. 499, che ha conservato nelle «nuove province» il sistema dei libri fondiari: la questione è stata definita da Cass., sez. un., 15 ottobre 1963, n. 2766. in Foro it., 1964, I, c. 298, e qui riferimenti alle vicende precedenti). Nel caso di successive alienazioni di un immobile da parte dello stesso proprietario iscritto, si domanda se il primo acquirente, che non ha curato la pubblicità del suo acquisto, debba sempre cedere al secondo acquirente che ha domandato l’iscrizione nel libro essendo a conoscenza della precedente alienazione, oppure, quando avesse già conseguito il possesso dell’immobile, possa allora respingere la rivendicazione con l’exceptio doli. La dottrina prevalente risolve il problema col metodo della costruzione dogmatica: da una serie di norme sparse nel codice austriaco (§§ 431, 440, 481) induce per astrazione il «principio dell’iscrizione» (Eintragungsprinzip) e poi deduce che, non avendo il primo avente causa perfezionato il suo acquisto con l’iscrizione e perciò non potendo vantare se non un diritto di credito, il secondo acquirente, che ha provveduto a iscrivere il suo diritto contro l’alienante, prevale in ogni caso indipendentemente dalla buona fede (si noti che nella legislazione italiana il principio dell’iscrizione è una proposizione normativa generale formulata nell’art. 2 del decreto cit., privo di riscontro in termini nella legislazione austriaca, onde già per questa ragione da noi la questione non sarebbe dovuta sorgere). Ehrlich mette in luce la scelta politica sottostante alla «costruzione» della dottrina dominante, cioè una scelta a favore dell’interesse di sicurezza del credito (agrario) ipotecario, e in opposizione a questo punto di vista richiama il topos dell’interesse di difesa della piccola proprietà contadina dagli speculatori che approfittano della mancata regolarizzazione tavolare per spogliare gli acquirenti già immessi nel possesso. Contro la soluzione prevalsa nella dottrina di lingua tedesca quest’altro punto di vista era sostenuto dai giuristi della Galizia e della Bukowina, territori caratterizzati dalla frammentazione della proprietà fondiaria in piccolissimi possessi (Zwergbesitze) e dalla scarsa «cosienza tavolare» dei contadini, che frequentemente non domandavano l’iscrizione dei loro acquisti o per inesperienza o perché, «terribilmente poveri», temevano le spese elevate di tale adempimento formale. «Isolato nella sua lontana Bukowina» (cfr. Lombardi, Saggio, cit., p. 232), il nostro a. mette dialetticamente a confronto le ragioni dei due punti di vista (per es.: se si accorda l’eccezione di dolo al possessore non iscritto si rende più difficile la concessione di mutui ipotecari agli agricoltori perché le banche non potrebbero più essere sicure delle risultanze del libro e dovrebbero correre il rischio di negligenze dei loro funzionari nell’indagine della situazione di fatto; risposta: i piccoli contadini non chiedono mai mutui ipotecari perché sanno che nel momento in cui accendono un’ipoteca sono già perduti), li soppesa e infine opta per la soluzione favorevole all’interesse «prevalente nella sua patria» (cioè porta a compimento un’anticipazione della sua «precomprensione»). La protezione del credito ipotecario sta bene, ma non deve essere spinta al punto di «favorire lo speculatore fraudolento a danno dell’inesperto». Questo giudizio di preferenza implica che il caso deve essere sottratto al dominio del principio dell’iscrizione, il quale non distingue fra terzi di buona e terzi di mala fede, e assoggettato al principio della pubblica fede (Publizitätsprinzip), la cui tutela incontra un limite nella mala fede soggettiva del terzo. A tale scopo, per fondare la scelta nel sistema costituito, occorre trasformarla in un concetto dogmatico che qualifichi la posizione dell’acquirente-possessore (non iscritto) in termini (descrittivi) idonei a collegarla per analogia con la norma del § 1500 ABGB (da noi l’art. 5, ult. comma, del decreto cit.), dove è regolato, secondo il principio della pubblica fede e con riferimento all’ipotesi di usucapione extratavolare, il conflitto tra il possessore che ha acquistato extra tabulas un diritto reale sull’immobile e il terzo acquirente dal proprietario apparente. Con l’ausilio della tradizione del diritto germanico e del diritto comparato Ehrlich trova lo strumento di qualificazione nel concetto di «ius ad rem» (Recht zur Sache) accolto dal codice prussiano del 1794: torbida teorizzazione di una limitata tutela reale accordata al possessore con giusto titolo e di buona fede, non ancora formalmente investito della proprietà, contro i terzi acquirenti di mala fede, e operante processualmente con i mezzi dell’azione o dell’eccezione di dolo, ossia i mezzi caratteristici della tutela publiciana nel diritto romano (cfr. Dernburg, Lehrbuch des preuss. Privatrechts4, I, Halle, 1884, § 184). Ma questo concetto è utilizzato senza alcuna verifica di compatibilità col diritto positivo austriaco, così che l’applicazione analogica del § 1500, da esso propiziata, si rivela affatto arbitraria (e si constata ancora una volta che la «giurisprudenza degli interessi» può sollecitare dogmatizzazioni anche peggiori di quelle della Begriffsjurisprudenz). Anzitutto la genesi del codice del 1811 (criterio fondamentale per la giurisprudenza degli interessi della prima maniera, la quale assegna all’interprete il compito di analizzare e di sviluppare coerentemente le valutazioni del legislatore storico) insegna che la «dottrina prussiana del ius ad rem» è rimasta estranea alla codificazione austriaca (cfr. Brandt, Eigentumserwerb und Austauschgeschdft, Leipzig, 1940, p. 65, nota 12). In secondo luogo tale dottrina è inconciliabile con l’essenza del libro fondiario, tant’è che lo stesso legislatore prussiano, con la legge 5 maggio 1872 (§ 4), ha espressamente eliminato la tutela del ius ad rem dalla disciplina del commercio immobiliare. Concederla al possessore non iscritto significherebbe in sostanza conservare alla traditio una rilevanza di modo (extratavolare) di acquisto di posizioni munite di tutela reale, mentre il Grundbuchswesen esige che nella circolazione per atto tra vivi dei diritti reali l’iscrizione sia elemento indefettibile del modus adquirendi. Infine, sotto il profilo della politica legislativa, la ritrattazione del legislatore prussiano del 1872 è uno degli indici più significativi dell’incidenza prevalente che l’interesse di sicurezza del credito ipotecario (Realkredit) ha avuto sullo sviluppo della pubblicità immobiliare nel secolo scorso (cfr. Brandt, Eigentumserwerb, cit., p. 90). Da questo punto di vista la figura, dogmaticamente infelice, del ius ad rem (un ibrido di diritto obbligatorio e di diritto reale) era ritenuta una «Tyrannri der Billigkeit» (ibidem, p. 104, nota 17). Meno rigorosa della legge germanica, la legge austriaca 25 luglio 1871 sui libri fondiari ha mantenuto il temperamento del codice civile, che ammette l’usucapione extratavolare in favore del possessore non iscritto. Ma la norma del § 1500 non tollera applicazioni analogiche al campo degli acquisti negoziali accompagnati dalla consegna dell’immobile: riferita al caso discusso da Ehrlich, essa non può avere altro significato se non che il primo acquirente dell’immobile, non figurante nel libro, può difendersi con l’eccezione di dolo contro il successivo avente causa solo se, al momento della domanda di iscrizione presentata da quest’ultimo, aveva già maturato il periodo di possesso necessario per l’acquisto originario del diritto mediante usucapione.
[116] Questa sembra la concezione di Kriele, Theorie, cit., p. 148.
[117] Cfr. Luhmann, Rechtssystem, cit., pp. 16 s.
[118] Un esempio di decisione fondata topicamente (con argomenti di cui non occorre qui ripetere la critica), ma difficilmente integrabile nel sistema del diritto privato (cioè non dogmatizzabile) e quindi, come l’esperienza ha rivelato, fonte di grave incertezza del diritto su un punto di grande importanza pratica, è la nota sentenza della Corte cost. 10 giugno 1966, n. 63, in tema di decorrenza della prescrizione del diritto alla retribuzione nel rapporto di lavoro subordinato. Certo, come osserva Spagnuolo-Vigorita (Atti del dibattito sulla prescrizione dei diritti dei lavoratori, organizzato dal Centro naz. studi di diritto del lavoro, Milano, 1976, pp. 13 ss.), è fuori discussione che gli artt. 2648 n. 4, 2955 n. 2 e 2956 n. 1 c.c. sono stati incondizionatamente dichiarati illegittimi, e così eliminati dall’ordinamento nella parte in cui, giusta la regola dell’art. 2935, «consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro». Ma ciò non significa che sia stata introdotta una nuova norma che sposta la decorrenza al momento della cessazione del rapporto. Alla Corte costituzionale non appartiene il potere di creare nuove norme. La sentenza ha soltanto creato una lacuna di previsione in ordine al dies a quo della prescrizione. E poiché la lacuna non può essere colmata né con procedimenti analogici, né con procedimenti di costruzione dogmatica, la Cassazione, del resto incoraggiata da successive pronunce della stessa Corte cost., ha finito col ritenere che il giudice ordinario sia autorizzato a riempirla volta per volta mediante valutazioni legate alle circostanze della situazione concreta e improntate allo stesso topos fondamentale della sentenza n. 63/1966 (timore di licenziamento). In questa giurisprudenza (tutt’altro che pacifica, anche se ora sancita dalla Sezioni unite) il dispositivo della pronuncia della Corte cost. si atteggia come una clausola generale che rimette all’apprezzamento del giudice, caso per caso, la determinazione del giorno di decorrenza del termine: il che, in una materia come la prescrizione, è una mostruosità. Ma non si può dire propriamente che questa giurisprudenza torna ad applicare l’art. 2935 disapplicando arbitrariamente una pronunzia di illegittimità della Corte cost. (così Spagnuolo-Vigorita, Atti cit., p. 20). L’art. 2935, non più operante come norma giuridica nelle ipotesi degli articoli citati, conserva il ruolo di un punto di vista topico, che suggerisce la soluzione suppletiva della lacuna normativa quando il rapporto sia soggetto a un regime di stabilità del posto di lavoro ritenuto tale da escludere remore alla libertà di volere del lavoratore provenienti dal timore di licenziamento. Oltre alle sentenze riprodotte in Atti, cit., pp. 51 ss., cfr. spec. Cass., sez un., 12 aprile 1976, n. 1268, in Foro it., 1976, I, c. 915; in dottrina cfr. da ultimo gli interventi critici di vari autori in «Riv. giur. lav.», 1976, II, pp. 265 ss.
[119] Così invece, con specifico riferimento all’interpretazione della legge, Gadamer, Wahrheit u. Methode, cit., p. 292 (trad. it. cit., p. 360).
[121] Si pensi all’aggettivo «ingiusto» nell’art. 2043 c.c., o alla parola «mora» nell’art. 1224, comma 1°, o alla frase «la proprietà o altro diritto reale» nell’art. 619 c.p.c., o anche, più modestamente, al possibile vario significato della particella «o» (vell/aut) in molti testi (cfr. Ascarelli, Saggi giuridici, Milano, 1949, p. 72, nota 119), e via esemplificando.
[122] Cfr. Diederichsen, Topisches und systematisches Denken in der Jurisprudenz, in «N. Jur. Wochenschr.», 1966, p. 704.
[123] Cfr. Simitis, op. cit., p. 142.
[124] Cfr. Wieacker, Zur praktischen Leistung der Rechtsdogmatik, in Hermeneutik und Dialektik cit., vol. II, pp. 334 s., ma in una prospettiva limitata, che mette in evidenza soltanto la funzione critica della topica nei confronti dei risultati dell’interpretazione guidata da concetti dogmatid o delle ipotesi di soluzione elaborate con procedimenti di costruzione concettuale, denundandone (eventualmente) il contrasto con punti di vista, di equità, o di altro genere, ritenuti indiscutibili dal senso comune («fondati sull’opinione» nell’accezione aristotelica: quali ad es. l’inammissibilità del «venire contra factum proprium» o l’esigenza di tutela dell’affidamento ecc.). Ma la funzione critica della topica nei rapporti con la dogmatica si esercita soprattutto in un altro senso: precisamente nei confronti dei concetti dogmatici intesi come criteri discriminanti delle alternative di soluzione (ermeneuticamente elaborate) compatibili col sistema costituito. Muovendo da punti di vista non dogmatici (extrasistematici) la topica scopre sul piano ermeneutico nuove possibilità di soluzione che mettono in crisi le strutture dogmatiche sollecitandone la revisione in modo da disporre il sistema ad accogliere i nuovi punti di vista. In questa prospettiva più ampia Esser, Vorverständnis, cit., p. 155, vede nel pensiero topico «il passo necessario per la preparazione di una migliore dogmatizzazione e di una nuova intelligenza del sistema».
[125] Bacone, De dignitate et augmentis scientiarum, V, 3 (ed. cit., p. 636), parzialmente citato anche da Zippelius, Problemjurisprudenz, cit., p. 2332.
[126] Tuttavia l’esperienza insegna che la topica, anziché svolgere un ruolo critico, è servita tavolta per portare a compimento progetti interpretativi fondati su preconcetti dogmatici. Tale è l’intreccio tra i due modi di pensare. Un esempio è fornito dalla dottrina, sostenuta da una parte dei primi commentatori del nuovo codice civile, secondo cui in materia testamentaria l’errore ostativo sarebbe ancora causa di nullità della disposizione. Questa dottrina applicava lo schema valutativo regola-eccezione prima per spiegare in termini di norma eccezionale, fondata sulla ratio di tutela dell’affidamento, la nuova disciplina dei contratti che qualifica l’errore ostativo, non diversamente dall’errore-motivo, come causa di annullabilità del contratto, e successivamente per ribadire la regola dell’errore ostativo-causa di nullità nel testamento, sul riflesso che in questo campo domina l’esigenza di rispetto della volontà del disponente e non v’è alcun affidamento dei terzi da tutelare. La base dell’argomentazione era costituita dal concetto tradizionale (pandettistico) di negozio giuridico, legato al «dogma della volontà». La distanza critica necessaria per controllare una simile premessa può essere guadagnata solo con una nuova riflessione dogmatica sulla struttura dell’atto negoziale, più aderente ai dati positivi del codice 1942. Cfr. Pietrobon, L’errore nella dottrina del negozio giuridico, Padova, 1963, pp. 23 ss., 463, nota 7, 479, nota 27.
[127] Cfr. Kriele, Theorie, cit., p. 150: «La tesi del pensiero topico non si rivolta contro il sistema, ma contro il pregiudizio che il sistema possa essere completo e definitivo. Essa si batte per l’“apertura” del sistema mediante un’opera continua di correzione, ampliamento e modificazione».