Luigi Mengoni
Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c1
Infine, mentre in Germania, terminata la breve stagione weimariana, il metodo della giurisprudenza degli interessi, e specialmente la teoria delle clausole generali come strumenti di creazione giudiziale di nuovo diritto
{p. 21}destinato a riempire le lacune legislative, erano utilizzati per immettere nel diritto civile i contenuti dell’ideologia nazional-socialista [34]
, invece in Italia il metodo del formalismo concettuale fu favorito dal nazionalismo fascista, sia per il prestigio che ad esso derivava dal legame con la tradizione del diritto romano, sia perché il rigoroso positivismo legislativo ad esso sottostante corrispondeva all’esaltazione del concetto idealistico di Stato, caratteristico della passata dittatura. Ma proprio il metodo positivistico riuscì, in quel periodo, a preservare il nostro diritto civile da intrusioni ideologiche contrarie ai valori tradizionali di cui era custode il ceto dei giuristi [35]
.

4. La crisi del metodo giuridico nel contesto della nuova società pluralistica.

Si è detto che la catastrofe dell’ultima guerra mondiale ha risvegliato i giuristi italiani dal sonno dogmatico [36]
. Ciò è vero soltanto sul piano della filosofia del diritto e, tutt’al più, della teoria generale del diritto e dello Stato. Il ripudio del positivismo giuridico fu il risultato di un esame di coscienza con lo sguardo rivolto al passato, alle rovine materiali e morali lasciate dallo Stato totalitario. Esso non fu accompagnato da una riflessione metodologica volta a definire un nuovo modo di intendere il compito della giurisprudenza di fronte allo sviluppo sociale e i corrispondenti modelli operativi.
I fermenti dottrinali che hanno portato all’attuale disputa sul metodo, incentrata sul problema dei rapporti tra interpretazione e politica del diritto, si sono manifestati alla fine degli anni Cinquanta, quando ormai la crescita di un sistema industriale complesso aveva dato {p. 22}origine nella sfera sociale a una nuova struttura pluralistica, nella quale è immanente un nuovo concetto di politica come conflitto permanente tra gruppi organizzati di interessi.
Il modello di società pluralistica qualificata dal conflitto come forma tipica di coesistenza dei gruppi sociali assegna allo Stato fondamentalmente due compiti: da un lato (come Stato-ordinamento) il compito di stabilire norme e procedure per regolare il conflitto e per controllare l’esercizio del potere sociale dei gruppi, al fine di garantire le libertà individuali; dall’altro (come Stato-governo), il compito di un intervento diretto nella sfera economico-sociale sia con funzioni di mediazione del conflitto, sia con funzioni di propulsione e di coordinamento della politica dei gruppi in direzione di obiettivi di interesse generale. Ma il modello funziona assai imperfettamente. Da un lato i nuovi interessi e valori, che la società pluralistica continuamente produce, solo parzialmente ottengono soddisfazione con gli strumenti del conflitto sociale, sia perché solo in parte riescono a integrarsi nella rappresentanza politica dei gruppi organizzati, sia perché non tutti sono interessi negoziabili. D’altro lato lo Stato non è in grado di adempiere in misura soddisfacente i compiti assegnatigli dal modello, sia per la lentezza e le disfunzioni dei suoi apparati, legislativo e burocratico, sia perché a sua volta condizionato dalle pressioni provenienti dai gruppi di interesse. Manca, infine, o non si è ancora pienamente realizzata la condizione minima necessaria affinché una società pluralistica possa passabilmente funzionare, cioè il consenso di tutte le forze sociali su alcuni valori di fondo (la questione dei limiti del pluralismo è decisiva), e innanzitutto l’accettazione senza riserve appunto del metodo del pluralismo democratico. Esso implica da parte dei gruppi antagonisti il mutuo riconoscimento della reciproca legittimità, e quindi la disponibilità al compromesso in termini compatibili col sistema economico-produttivo, il quale, sebbene con i limiti e i controlli previsti dalla Costituzione, rimane pur sempre un sistema di economia di mercato.{p. 23}
Per queste ragioni, esposte in modo sommario e incompleto, le tensioni sociali generate dal dinamismo della struttura pluralistica, nella misura in cui non sono assorbite mediante strumenti politici produttivi di nuovo diritto – legislazione o contrattazione collettiva –, si trasformano in domande di giustizia indirizzate agli organi del potere giudiziario, cioè agli organi di applicazione del diritto esistente. Il giudice viene chiamato a compiti quali ad esempio:
  • compiti di supplenza del potere legislativo o di concretizzazione di direttive generiche del legislatore in ordine al regolamento del conflitto collettivo e dei modi di esercizio dei poteri e dei contropoteri in esso coinvolti. Si pensi ai problemi che la giurisprudenza deve risolvere circa i limiti di esercizio del diritto di sciopero e i limiti correlativi di legittimità della serrata difensiva;
  • compiti di differenziazione o di rielaborazione di istituti giuridici, quali il contratto e la responsabilità civile, in funzione delle esigenze del conflitto collettivo o delle esigenze di tutela della collettività connesse alla produzione di massa e al sistema di distribuzione dei prodotti. Si pensi al problema dell’applicazione al contratto collettivo di lavoro della nozione civilistica di contratto e alla conseguente questione del «dovere di pace», oppure al problema della responsabilità del produttore per i danni derivati al consumatore dai vizi di un prodotto immesso al consumo attraverso una catena di intermediari;
  • compiti di tutela della funzione di certi istituti contro possibili distorsioni da parte di imprese dominanti, che di fatto li usano come strumenti di normazione nei confronti della collettività dei consumatori. Si pensi al problema delle condizioni generali di contratto [37]
    ;
  • più in generale, il compito di integrare nel sistema del diritto privato, rivedendone le strutture dogmatiche, {p. 24}i nuovi punti di vista e i nuovi valori costituzionali, mediando il principio individualistico, che sta all’origine del sistema, con i principi dello Stato solidaristico contemporaneo.
Compiti di questa portata implicano la richiesta di un impegno socio-politico dei giuristi, siano magistrati o ricercatori di modelli teorici di decisione, che non è nuova, posto che si iscrive in una linea di tendenza risalente alla fine del secolo scorso, ma oggi si ripropone in modo più massiccio e radicale. Tale richiesta non va intesa nel senso che l’interpretazione del diritto deve essere determinata dalle attese o pretese politiche della comunità, ma nel senso che, nei limiti compatibili col vincolo all’ordinamento giuridico vigente, il giurista deve dare una risposta, in termini comprensibili e razionalmente accettabili dall’ambiente sociale circostante, alle esigenze e ai problemi che hanno prodotto quelle aspettative. Deve, insomma, elaborare decisioni politicamente responsabili, orientate e giustificate in base alle loro conseguenze sociali.
Il problema di fondo è dunque quello del rapporto del giurista con la società. Ed è un problema essenzialmente metodologico, perché il ruolo della giurisprudenza di fronte allo sviluppo sociale non può essere correttamente definito se non mediante una riflessione sul metodo. Solo una riflessione di questo tipo può fornire un quadro di riferimento teorico che renda possibile il controllo della tendenza a impegnare i giuristi nella politica del diritto [38]
e la preservi da pretese degradanti di politicizzazione della giustizia al servizio di ideologie totalitarie o di interessi di gruppi o classi.{p. 25}

5. Il punto di partenza della riflessione: prerogativa, non monopolio, del legislatore nella formazione del diritto. Il momento valutativo nell’interpretazione giuridica.

Il punto di avvio della discussione raccoglie ormai un vasto consenso. Non è più accettato il postulato fondamentale del positivismo legislativo, che sta all’origine dell’orientamento metodologico tradizionale, ossia il postulato dell’appartenenza al legislatore di un monopolio nella formazione del diritto, onde la funzione dell’interprete, e in particolare del giudice, si ridurrebbe a un’attività di mera riproduzione dei comandi legali. Nella dottrina francese del secolo scorso questo postulato era legato all’ottimismo della codificazione, della quale si presupponeva la completezza e quindi la stabilità, assicurata dalla capacità di adattamento all’evolversi dei rapporti sociali grazie alla forza di espansione logica (per mezzo dell’analogia) dei suoi contenuti normativi. Nella dottrina pandettistica era legato all’ottimismo della scienza giuridica, che riteneva di potere assicurare la scientificità dell’applicazione del diritto con procedimenti di deduzione assiomatica da un sistema di concetti costruito sulla base delle norme positive secondo il modello delle scienze naturali, e capace di autointegrarsi mediante puri processi logici [39]
.
Al legislatore non spetta un monopolio, bensì una «prerogativa», una posizione di preminenza nella formazione del diritto [40]
. Con ciò si ammette che pure il giudice
{p. 26}partecipa alla formazione del diritto, ma in pari tempo si riconosce che il suo apporto creativo nei processi di concretizzazione del diritto non è libero, ma è sottomesso alla legge. Anche chi sostiene, e in una certa misura è vero, che l’argomentazione giuridica e l’argomentazione politica hanno una struttura analoga, deve sempre precisare che la prima si distingue essenzialmente dalla seconda in quanto normativamente orientata dal vincolo alla legge [41]
.
Note
[34] Cfr. Rüthers, Die unb. Ausl., cit., pp. 101 ss., che documenta copiosamente l’«uso alternativo» delle clausole generali del codice civile al servizio dell’ideologia nazista, e in particolare della politica razzista (spec. pp. 216 ss., 332 ss., 376 ss.); Ascarelli, Problemi giuridici, vol. I, Milano, 1959, pp. 143, 316; Neumann, Lo stato democratico e lo stato autoritario, Bologna, 1973, pp. 288 ss.
[35] Cfr. Nicolò, voce Codice civile, in Enc. dir., vol. VII, Milano, 1960, p. 246.
[36] Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Milano, 1965, p. 57.
[37] Cfr. Raiser, Rechtsschutz und Institutionenschutz im Privatrecht, in Summum ius summa iniuria, a cura di Esser, Tübingen, 1963, pp. 145 ss., spec. 162, nota 43.
[38] Questa esigenza è sottolineata da Luhmann, Rechtssystem und Rechtsdogmatik, Stuttgart, 1974, p. 29, il quale ammonisce (e l’ammonimento è tanto più significativo in quanto proviene da un sociologo) che il puro radicalismo (cioè l’iconoclastia antidogmatica) non può spacciarsi già per riflessione.
[39] La scuola esegetica francese ignora la nozione di sistema e intende l’applicazione del diritto come un’attività di interpretazione logico-grammaticale dei singoli testi legali secondo i moduli dell’ermeneutica storico-filologica. La Begriffsjurisprudenz, invece, assoggetta le norme positive a un’interpretazione concettuale che le riconduce e sottordina a un sistema di concetti scientifici via via più generali, costruito, a guisa di piramide logica, mediante successivi processi di astrazione dai concetti legali. Questo sistema di concetti guida l’applicazione del diritto, le cui decisioni concrete assumono la forma di deduzioni logico-sistematiche, così che «mediante la preminenza del concetto scompare formalmente la positività del diritto» (Sohm, Institutionen des rom. Pechts6, Leipzig, 1896, p. 21).
[40] Kriele, Theorie, cit., pp. 60, 160; Hommes, Kecbt und Ideologie, in Festschr. f. Wolf, Frankfurt a.M. 1972, pp. 103 s.
[41] Kriele, Theorie, cit., pp. 195, 198; Ross, Diritto e giustizia, Torino, 1965, pp. 138, 313; Lombardi, Saggio, cit., p. 502.