Luigi Mengoni
Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c1
Il tramonto del modello della libera concorrenza ha messo in crisi la concezione del diritto privato come sistema
{p. 16}di diritti soggettivi destinati a delimitare e a proteggere le sfere individuali di libertà e di signoria, entro le quali la volontà privata deve esprimere la qualità di essere legge a se stessa: ossia la concezione di un diritto politicamente neutrale per una società apolitica che domanda allo Stato soltanto la garanzia dei presupposti formali necessari perché le scelte individuali possano comporsi in equilibri spontanei regolati dalla mano invisibile delle leggi naturali dell’economia. Nella società industriale di produzione di massa il progresso tecnologico incessante e la crescente concentrazione economica imprimono allo sviluppo sociale il carattere di un processo continuo di disintegrazione e reintegrazione delle strutture sociali, che sfugge ad ogni nozione di equilibrio spontaneo e di autointegrazione dell’ordinamento giuridico mediante pure operazioni di riproduzione sillogistica di principi formalizzati in un sistema chiuso di concetti. Il formalismo concettuale finisce allora col nascondere i problemi posti dal divario che continuamente si rinnova tra norma e realtà; e può occultare anche fenomeni di perversione del diritto privato nel senso di una utilizzazione dei suoi istituti – quali l’associazione, la società, certi tipi di contratto di scambio – per la costituzione di organizzazioni regolatrici del mercato investite di fatto di poteri di eteronomia, ma formalmente legittimate dal principio dell’autonomia privata [20]
.
Le nuove correnti metodologiche, che si delineano in Francia alla fine del secolo scorso, segnando il declino della scuola dell’esegesi, e in Germania nel primo decennio di questo secolo, segnando il declino della giurisprudenza concettualistica, muovono da una concezione volontaristica che vede nel diritto il prodotto di una decisione politica [21]
e perciò un mezzo di conformazione dei rapporti sociali in funzione di scelte orientate secondo un {p. 17}certo ordine di valori razionalizzati in fini in senso lato politici. Il diritto è concepito come parte costitutiva della realtà sociale strettamente legata da un rapporto di interdipendenza con le altri parti, cioè con la sfera dell’economia, la sfera del costume ecc., e bisognosa di continuo adattamento alle modificazioni che il corso della storia produce, con ritmo sempre più accelerato, in tali sfere [22]
. Da questo punto di vista si afferma che l’interpretazione giuridica non è semplicemente attività ricognitiva di un diritto preesistente, già interamente posto e immune da lacune, ma è anche partecipazione alla formazione ulteriore del diritto, e in questo senso implica una funzione politica.
L’irruzione della «giurisprudenza degli interessi» nella dottrina e nella prassi giudiziaria della Germania del primo dopoguerra ha modificato radicalmente il rapporto tra interpretazione e politica del diritto, precedentemente ritenute rigidamente antitetiche, e quindi il rapporto tra il giudice e la legge [23]
. La scienza giuridica viene definita «ricerca di valori», cioè analisi dei punti di vista politici sottostanti al diritto positivo e degli interessi che, alla stregua di questi punti di vista, sono stati qualificati dal legislatore prevalenti o subordinati. La decisione del caso concreto deve allora essere trovata dal giudice mediante una valutazione degli interessi in gioco conforme ai giudizi di valore contenuti nella legge, oppure sviluppando autonomamente tali giudizi allorché la valutazione riveli una lacuna nella legge.
Non è qui la sede per un’esposizione nemmeno sommaria della giurisprudenza degli interessi o, secondo la versione più recente, «giurisprudenza valutativa» [24]
. Per {p. 18}conferire maggiore concretezza al discorso conviene piuttosto accennare agli sviluppi che la rivoluzione metodologica da essa prodotta ha ricevuto nella prassi giudiziale germanica del primo dopoguerra. Fra la teoria e la prassi è stata notata questa differenza [25]
. Mentre la teoria vincola il giudice ai giudizi di valore del legislatore storico [26]
, che devono essere scoperti al di là del testo, e nel caso in cui sia accertata una lacuna gli affida il compito di uno sviluppo assiologico del comando secondo i principi valutativi contenuti nella legge [27]
, la giurisprudenza compie invece alcune operazioni di politica del diritto ispirate a criteri di valutazione extralegislativi, ma preoccupandosi di giustificarle in base a un testo legale. La base fu trovata nelle clausole generali del codice civile, e specialmente nella clausola della buona fede. La profonda modificazione delle condizioni sociali di esistenza, determinata soprattutto dalla gravissima svalutazione della moneta, indusse la giurisprudenza a utilizzare il § 242 come criterio di accertamento di una lacuna, tale da paralizzare l’applicabilità nella nuova situazione del principio nominalistico, e insieme come norma attributiva al giudice di un potere di correzione dei contratti mediante l’imposizione di coefficienti di rivalutazione del prezzo pattuito dalle parti [28]
. In tal modo però fu profondamente mutato il significato originario della clausola della buona fede.
Secondo l’idea del legislatore le clausole generali sono una particolare tecnica di conformazione della fattispecie legale, opposta al metodo casistico [29]
. La clausola della
buona fede è pur sempre una norma materiale, costituita da una fattispecie e da un comando, solo che la fattispecie normativa non descrive un singolo caso o un gruppo di casi, bensì descrive una generalità di casi mediante un concetto per la cui determinazione il giudice è rinviato volta a volta a modelli di comportamento e a stregue di valutazione obiettivamente vigenti nell’ambiente sociale in cui opera. Innegabilmente questa tecnica legislativa lascia al giudice un margine maggiore di discrezionalità, e così ammette un certo spazio di oscillazione della decisione: ma, secondo l’idea originaria, si tratta di una discrezionalità di fatto, non di un potere discrezionale formale [30]
. Invece la giurisprudenza tedesca ha finito con l’attribuire alla clausola della buona fede non il significato di norma che indica al giudice una misura per la decisione secondo legge di una generalità di casi, bensì il significato di norma che fornisce al giudice un mezzo per scoprire una lacuna nella legge e in pari tempo lo autorizza a colmarla con una decisione attinta a giudizi di valore extrapositivi [31]
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3. La dottrina italiana nel periodo tra le due guerre.

Nella dottrina italiana del periodo fra le due guerre, pur fortemente tributaria della dottrina tedesca, la rivoluzione nell’applicazione del diritto prodotta in Germania dalla giurisprudenza degli interessi passò quasi inosservata, così come fu scarsamente avvertita l’influenza esercitata in Francia dall’indirizzo sociologico di François Geny. In questo periodo essa continuò, portandolo a livelli di alta perfezione, il metodo appreso alla fine del secolo scorso dalla pandettistica tedesca, da noi designato col nome di metodo tecnico-giuridico.
Tuttavia il nuovo metodo non fu appoggiato esclusivamente alla teoria dell’interpretazione di Windscheid. Una larga parte di civilisti accolse la teoria ermeneutica {p. 20}oggettiva [32]
, aperta alla valutazione degli scopi oggettivi del diritto, che si ritenevano apprensibili grazie alla razionalità intrinseca dell’ordinamento, onde la loro considerazione non appariva incompatibile col metodo logico-formale [33]
. L’adattamento dei concetti giuridici agli scopi obiettivi della norma consentì alcune operazioni di razionalizzazione dell’apparato concettuale, sollecitate da esigenze di politica del diritto. Si pensi allo spostamento del concetto di negozio giuridico dal c.d. dogma della volontà alla teoria della dichiarazione, in risposta ai bisogni di maggiore tutela dell’affidamento nella circolazione dei beni. Questa apertura all’interpretazione teleologica poteva apparire sufficiente in un paese in cui la grande guerra non aveva prodotto i drammatici sconvolgimenti economico-sociali sperimentati in Germania, dai quali erano emersi nuovi valori di giustizia sociale incorporati nel modello di democrazia pluralistica delineato nella Costituzione di Weimar. Un simile modello di sviluppo della società industriale era estraneo alla situazione economica, politica e culturale dell’Italia di quel tempo. Fino alla svolta della metà del secolo l’Italia è rimasta un paese prevalentemente agricolo con un’industria di tipo ottocentesco, tagliato fuori dalla seconda rivoluzione industriale e dalle modificazioni culturali che essa comporta, e in cui il collegamento della scienza del diritto con la sociologia giuridica, caratteristico dei nuovi orientamenti metodologici in Germania e in Francia, era ostacolato dalla filosofia neoidealistica allora dominante.
Infine, mentre in Germania, terminata la breve stagione weimariana, il metodo della giurisprudenza degli interessi, e specialmente la teoria delle clausole generali come strumenti di creazione giudiziale di nuovo diritto
{p. 21}destinato a riempire le lacune legislative, erano utilizzati per immettere nel diritto civile i contenuti dell’ideologia nazional-socialista [34]
, invece in Italia il metodo del formalismo concettuale fu favorito dal nazionalismo fascista, sia per il prestigio che ad esso derivava dal legame con la tradizione del diritto romano, sia perché il rigoroso positivismo legislativo ad esso sottostante corrispondeva all’esaltazione del concetto idealistico di Stato, caratteristico della passata dittatura. Ma proprio il metodo positivistico riuscì, in quel periodo, a preservare il nostro diritto civile da intrusioni ideologiche contrarie ai valori tradizionali di cui era custode il ceto dei giuristi [35]
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Note
[20] Cfr. Biedenkopf, Über das Verhältnis wirtschaftlicher Macht zum Privatrecht, in Fest sehr. f. Böhm, Karlsruhe, 1965, pp. 114 s.
[21] Cfr. Stoll, Begriff und Konstruktion in der Lehre der Interessenjurisprudenz in Festgabe f. Heck, Riimelin, Schmidt, Tübingen, 1931, pp. 66 ss.
[22] Questa nuova concezione del diritto non più come sistema autonomo, ma come sottosistema della realtà sociale, la quale comprende altri sistemi normativi, è un prodotto della sociologia. Cfr. già V. Sdaloja, L’arbitrio del legislatore nella formazione del diritto positivo, in Studi giur., vol. III, Roma, 1933, p. 38.
[23] Cfr. Coing, Recbtspolitik und Recbtsauslegung, in Verhandlungen des 43. deutschen Juristentages (München, 1960), vol. II, Tübingen, 1962, B, p. 10.
[24] Cfr. Larenz, Methodenlehre, cit., pp. 128 ss.; Wieacker, Privatre chtgeschichte der Neuzeit2, Göttingen, 1967, pp. ss.; Ascarelli, Saggi di diritto commerciale, Milano, 1955, pp. 467 ss. Fondamentale per la storia di tutto il movimento: Lombardi, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1967, pp. 201 ss.
[25] Coing, Rechtspolitik, cit., p. 12.
[26] Stoll, op. cit., pp. 71 ss.
[27] Heck, Grundriss des Schuldrechts, Tübingen, 1929, pp. 473, 475, nota 1.
[28] Cfr. Rüthers, Die unbegrenzte Auslegung. Zum Wandel der Privatrechtsordnung im Nationalsozialismus, Frankfurt a.M., 1973, pp. 64 ss.
[29] In questo senso cfr. la definizione di Engisch, Introduzione al pensiero giuridico, Milano, 1970, p. 193.
[30] Cfr. Larenz, Geschäftsgrundlage und Vertragserfüllung?, München-Berlin, 1963, pp. 167 s.
[31] Cfr. Rüthers, Die unbegrenzte Auslegung, cit., pp. 48 ss.
[32] Fra i primi (in adesione a Kohler) gli stessi annotatori di Windscheid, i quali assegnano all’interpretazione il compito di «dare alla legge quella spiegazione, che meglio la pone in armonia con i bisogni sociali» (Fadda e Bensa, Note, cit., pp. 121 s.). Cfr. inoltre Coviello, Manuale di diritto civile italiano, Milano, 1915, pp. 63 ss.; Ferrara, Trattato di diritto civile italiano, vol. I, Roma, 1921, pp. 210 ss.; Filomusi Guelfi, Enciclopedia giuridica, Milano, 1910, p. 141, nota 2.
[33] Cfr. Larenz, Methodenlehre, cit., p. 37 (trad. it. cit., p. 44).
[34] Cfr. Rüthers, Die unb. Ausl., cit., pp. 101 ss., che documenta copiosamente l’«uso alternativo» delle clausole generali del codice civile al servizio dell’ideologia nazista, e in particolare della politica razzista (spec. pp. 216 ss., 332 ss., 376 ss.); Ascarelli, Problemi giuridici, vol. I, Milano, 1959, pp. 143, 316; Neumann, Lo stato democratico e lo stato autoritario, Bologna, 1973, pp. 288 ss.
[35] Cfr. Nicolò, voce Codice civile, in Enc. dir., vol. VII, Milano, 1960, p. 246.