Francesca Biondi Dal Monte, Simone Frega (a cura di)
Contrastare la dispersione scolastica
DOI: 10.1401/9788815413369/c12
L’ordine terreno, l’ordine planetario, è costituito da cose che assumono una forma durevole e creano un ambiente stabile, abitabile. Sono le «cose del mondo» di cui parla Hannah Arendt e alle quali spetta il compito «di stabilizzare la vita umana» offrendole un appiglio [...] Le cose sono i punti fermi dell’esistenza, ma oggi le informazioni le hanno completamente insabbiate. Le
{p. 227}informazioni non sono certo punti fermi dell’esistenza. [...] Si fondano sul brivido della sorpresa. Basta questa loro fuggevolezza a destabilizzare la vita [16]
.

5. Lo spazio nella scuola

Il tempo che predomina nella scuola, sovente è il tempo delle discipline di studio, proposte in una dimensione temporale astratta, scisse tanto dalla storia dello studente, quanto dalla stessa storia della scuola, di quella particolare scuola e della comunità circostante di cui la scuola stessa fa parte. Thomas J. Sergiovanni sostiene invece una visione globale e inclusiva asserendo che una scuola può effettivamente diventare una comunità:
se si considerano i legami di amicizia tra le persone;
se abbiamo una condivisione di valori e obiettivi che coinvolgono mente e cuore;
se si scambiano le pratiche tra colleghi per sviluppare la comunità professionale;
se si pone attenzione agli spazi come luoghi accoglienti e funzionali;
se viene dato valore alla memoria che alimenta il senso di appartenenza, consolida i legami e fonda i saperi [17]
.
Ed è proprio l’attività, intesa come curricolo-percorso, a collegare lo spazio con il tempo, scandendo eventi e depositando residui (storici appunto), vale a dire tracce che tramandano un messaggio inscritto, tanto nelle memorie delle persone (embodied memory), quanto in quelle degli oggetti, siano essi documenti o cose: è così che la storia insegnata può collegarsi alla storia vissuta.
Venendo però alla considerazione dello spazio, che abbiamo visto non riconosciuto negli ambienti scolastici, dobbiamo tenere presenti almeno questi due aspetti:{p. 228}
* la superficie dell’edificio e i suoi arredi connessi ai modi di utilizzo;
* la dimensione della popolazione (scolastica).
Innanzitutto va precisato che non comparando l’edificio scolastico a quello delle altre organizzazioni non ci si rende conto di un aspetto essenziale che caratterizza le organizzazioni formative, ovvero di una presenza di persone, a parità di superficie, di gran lunga superiore. La caratteristica specifica delle scuole (e in genere delle organizzazioni formative) a livello globale è, dunque, quella di un abitare a forte densità di popolazione per metro quadrato. Questa forte densità viene ulteriormente a incrementarsi in quegli spazi dove per più tempo lavorano docenti e studenti, ovvero l’aula che accoglie le classi [18]
. Naturalmente sappiamo che un certo grado di consistente densità di popolazione non può essere tolto: la scuola sarà sempre diversa dalle altre organizzazioni per questo aspetto, anche da quelle che più le assomigliano – in quanto istituzioni di cura della persona in senso lato – come il carcere e l’ospedale, che pure svolgono le loro attività in contesti a densità significativa [19]
. Politiche attente alla qualità dell’istruzione dovrebbero però considerare superfici accettabili, sia per l’intero edificio che per i locali dove si permane per più tempo. Legati alla superficie disponibile sono, poi, i criteri di allestimento degli arredi negli spazi che hanno a che fare, più direttamente, con i modi del loro utilizzo, cioè con la didattica che qualifica l’offerta formativa. Sono almeno 4 i modelli che possiamo considerare schematicamente:
1) la struttura cells and bells. È quella tipica dei banchi monoposto posti in fila di fronte alla cattedra, che supporta metodologie tradizionali, dove la lezione frontale spesso satura buona parte del tempo scolastico. Si possono avere altri {p. 229}spazi però assai meno utilizzati come laboratori, biblioteca o aula magna. I limiti sono quelli del sistema tradizionale: scarsa collaborazione tra gli studenti, prevalenza dell’ascolto con rischi di passività, impostazione prevalentemente verbale, impossibilità dei movimenti, poco uso degli altri spazi, strumenti didattici cartacei (libri di testo) con qualche inserimento digitale. I docenti hanno la titolarità della gestione dello spazio e delle attività. Molto tempo viene passato in un’aula. Lo spazio docenti non è considerato, è solo un luogo di transito;
2) l’organizzazione ad aule tematiche. Si tratta di una soluzione parzialmente innovativa in quanto già adottata nelle università. In genere le discipline di studio, anche in forme parzialmente aggregate, sono ospitate in spazi dedicati. In questo caso gli studenti si muovono durante l’orario per partecipare/assistere alle varie lezioni/attività. I vantaggi sono costituiti dal movimento degli studenti e da una migliore strutturazione degli spazi che favorisce l’insegnamento disciplinare. I limiti sono il fatto che i gruppi degli studenti non hanno uno spazio proprio, mentre l’aula tematica finisce per essere gestita dal solo docente e la prospettiva interdisciplinare risulta più problematica. Gli strumenti didattici possono anche rimanere cartacei (libri di testo) con un uso del digitale. Lo spazio docenti non sempre è considerato;
3) l’organizzazione open space. L’innovazione è portata alle estreme conseguenze: ci sono spazi plurimi, flessibili, molto ben arredati, polifunzionali con la presenza di laboratori specifici. Non esistono propriamente aule monouso e in certi casi nemmeno le classi. C’è attenzione all’organizzazione degli spazi esterni (giardino). La flessibilità è tendenzialmente totale. I vantaggi sono quelli della possibilità di muoversi, di una maggiore possibilità da parte dello studente di scegliere, di arredi attraenti e spazi ben congegnati. Gli strumenti didattici sono multiformi perché si considera il tattile e il manuale assieme al digitale. Lo spazio docenti è adeguatamente attrezzato. Si può realizzare la peer education (i grandi insegnano ai piccoli). I limiti, però, sono costituiti dalla dispersione e dal disorientamento dello studente, dalla non presenza di un gruppo stabile dove possa darsi una {p. 230}socializzazione durevole appoggiata a uno spazio-luogo di natura identitaria;
4) l’allestimento in aree di lavoro fisse. I locali sono pensati in aree di lavoro dove si possono svolgere varie attività e questa caratteristica coinvolge anche l’aula del gruppo degli studenti. Inoltre ci sono laboratori, biblioteche e c’è attenzione all’organizzazione degli spazi esterni (giardino). Si può avere una configurazione mista: uno spazio aula per il gruppo degli studenti (divisi per età) dove alloggiano alcune discipline di studio e lavorano alcuni insegnanti (ad es. le discipline storiche e letterarie e la matematica) e aule tematiche/laboratoriali per le altre discipline dove si accede in determinati orari. Inoltre gli studenti possono scegliere alcuni percorsi personalizzati e comunque è reso praticabile l’insegnamento differenziato. Si può realizzare la peer education (i grandi insegnano ai piccoli). Gli strumenti didattici sono multiformi, perché si considera il tattile e il manuale assieme al digitale. Lo spazio docenti è adeguatamente attrezzato [20]
.
Naturalmente i 4 modelli presentati sono una schematizzazione sommaria. Il tentativo fatto è quello di abbozzare un’analisi delle proposte in campo, tenendo presente soprattutto le ultime tre che si propongono come innovative e che, tra l’altro, presentano reciproci sconfinamenti. Va da sé che bisognerebbe meglio studiare le varie soluzioni, rilevando con strumenti di ricerca, scientificamente testati, i vantaggi in termini di benessere psicologico, di coesione a livello di comunità, di apprendimento delle competenze e conoscenze. Tuttavia l’ultimo modello ci pare quello più equilibrato, in quanto la flessibilità troppo spinta, soprattutto del terzo, può generare disorientamento, mentre qui invece si ha una flessibilità limitata, contemperata da una relativa stabilità spaziale per ogni gruppo di studenti. Fornire forme di stabilità nel nostro scenario di modernità liquida, per stare alle suggestioni di Bauman [21]
, è un aspetto da non {p. 231}sottovalutare per la formazione delle nuove generazioni. Si pensi che in un testo molto importante, che riporta esperienze di scuole innovative a livello internazionale in materia di spazi, le parole flessibile e flessibilità ricorrono per ben 56 volte denotando un eccesso di liquidità che può essere negativo [22]
. Tuttavia, con il quarto modello non si propone la chiusura della classe nell’aula, ma la possibilità che un gruppo di studenti, anche definito per età, abbia un luogo di riferimento nel quale ritrovarsi, senza tralasciare le possibilità di un’apertura nei confronti di tutti gli altri gruppi della scuola medesima. In secondo luogo, il mantenimento di uno spazio aula fisso si presenta come una soluzione di maggiore praticabilità per stimolare il cambiamento nei contesti scolastici tradizionalmente conservativi. Ovviamente tutto ciò a patto che i confini siano sempre porosi e si possano utilizzare altri spazi, stimolando scambi effettivi tra tutti gli studenti. In terzo luogo, in questo modello viene preferito l’arredo fisso, rispetto a quello a geometria variabile dove i banchi e gli arredi verrebbero riconfigurati a seconda dei bisogni che, di nuovo, genera eccessi di flessibilità, poca possibilità di protagonismo degli studenti, perdite di tempo nella gestione degli spostamenti, difficile lettura degli spazi medesimi e possibili conflitti tra docenti.


6. La dimensione della popolazione

Ma il problema dello spazio non riguarda solo le aree dove si svolgono le attività; esso infatti coinvolge l’intero edificio scolastico. In definitiva una strada da percorrere per realizzare scuole – comunità davvero inclusive – è quella di guardare con più attenzione alla dimensione della popolazione, certamente considerando meglio le superfici che debbono essere adeguatamente estese, ma anche il numero ottimale di persone, tra studenti e docenti. Da tempo, anche se attualmente ha perso un po’ di smalto, negli Stati Uniti
{p. 232}ha preso piede, sotto la spinta della pedagogista Deborah Meier, il movimento delle piccole scuole, le Small Schools. Famosa è l’esperienza della scuola superiore Theodore Roosevelt di New York. Questa realtà scolastica si stava deteriorando a causa di atti di violenza reiterati da parte di molti studenti. Nel gennaio del 2004 si ebbero ben 110 incidenti, cioè disordini se non vere e proprie azioni criminali. Fu così che il sindaco di allora Bloomberg decise di chiudere quella scuola frequentata da 1.500 studenti e di aprire al suo posto, nello stesso edificio, 6 piccole scuole superiori ciascuna con caratterizzazioni di indirizzo di studi, collocate in delimitate parti del grande edificio il quale negli anni passati aveva ospitato fino a 4.000 studenti. In tal modo diminuirono ben presto, e drasticamente, le azioni violente [23]
. Tra l’altro la promozione delle piccole scuole ha riguardato tutti i gradi scolastici ed è stata sostenuta anche dalla Fondazione Melinda e Bill Gates. Secondo Deborah Meier [24]
le dimensioni si connettono alla qualità degli apprendimenti e all’acquisizione di abiti democratici e partecipativi, anche perché la dimensione piccola consente il riconoscimento reciproco, una partecipazione effettiva, la collaborazione e la presa di decisioni condivisa. Il fatto che in Italia si sia preferita, invece, la grande dimensione e l’accentuazione del ruolo dell’istituto, rispetto alla scuola (plesso, indirizzo, sede), potrebbe essere un motivo che ostacola l’educazione alla cultura della cittadinanza di cui tanto abbiamo bisogno e un ingrediente che non facilita nella creazione di ambienti armoniosi privi di situazioni conflittuali, inclusivi. In sintesi le caratteristiche delle piccole scuole possono essere le seguenti [25]
:
Note
[16] B.C. Han, Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale, Torino, Einaudi, 2022, p. 6.
[17] T.J. Sergiovanni, Costruire comunità nelle scuole, Roma, LAS, 2000, pp. 66 ss.
[18] Sul punto si veda Orsi, Merotoi, Natali e Orsi, A scuola senza zaino, cit.
[19] Le carceri nel nostro paese soffrono di un sovraffollamento a differenza di paesi come la Norvegia. Inoltre abbiamo creato dei contesti come i centri di accoglienza migranti dove la densità della popolazione può essere alta.
[20] È la soluzione di gran lunga praticata dal modello di scuole Senza Zaino.
[21] Z. Bauman, Vita liquida, Roma-Bari, Laterza, 2005.
[22] S. Borri (a cura di), Spazi educativi e architetture scolastiche: linee e indirizzi internazionali, Rimini, Maggioli, 2016.
[24] D.W. Meier, The Big Benefits of Smallness, in «Educational Leadership», 54, 1, Alexandria, VA, ASCD, 1996, pp. 12-15.
[25] M. Klonsky e S. Klonsky, Small Schools: Public School Reform Meets the Ownership Society, New York-London, Routledge, 2008; Orsi, L’ora di lezione non basta, cit.