Tutela e valorizzazione del paesaggio nella transizione
DOI: 10.1401/9788815413352/c6
La seconda ragione (correlata alla
prima) può essere individuata nella mancata codificazione del paesaggio come «matrice»
(frame) di riferimento e nella assente cogenza dei piani
paesaggistici (a qualunque scala) come strumenti «regolativi» di governo del territorio.
Si tratta di due principi basilari che rimangono disattesi, quando non esplicitamente
violati o interpretati in modo «singolare» nei diversi contesti regionali
[7]
. Alla mancata codificazione può essere attribuita gran parte del
«contenzioso sul paesaggio» generato da almeno tre fattori. Il primo riguarda
l’imposizione del vincolo e la possibilità che esso venga «impugnato» per discutibili
diritti «acquisiti». Il secondo rinvia al diniego della autorizzazione per
incompatibilità. Le motivazioni possono essere più o meno pertinenti o complete, ma
l’aspetto più interessante è la relazione fra ruolo istituzionale e motivazione. Ad
esempio, i pareri della soprintendenza sono a volte molto «asciutti» e per questo
ritenuti incompleti, se non pertinenti. La tempistica può essere considerata come terzo
fattore. Essa può interferire con la progettazione e l’attuazione
de
¶{p. 124}gli interventi. Imposizione, diniego e tempistiche possono
generare danni economici e finanziari da sottoporre a non facile esercizio estimativo.
Il contenzioso può nascere anche a seguito di un reato commesso da un soggetto privato
ed in particolare quando si impugnano questioni di compatibilità, provvedimenti di
sanatoria, entità delle sanzioni. Novità, incertezza e variabilità di procedure e
istituti giuridici generano frequenti e costosi contenziosi che esprimono difficoltà nel
riconoscere al paesaggio i valori culturali che merita… Oltre a «fare dottrina» (esito
incrementale comunque apprezzabile), il contenzioso appesantisce i processi di governo
del territorio, sposta l’attenzione dalla conoscenza sostantiva a quella procedurale
(proponendo inedite sovrapposizioni e nuove domande tecnico-professionali) e svela una
certa vulnerabilità delle amministrazioni locali
[8]
.
Una terza ragione è attribuibile
alla coesistenza di diverse definizioni «paradigmatiche» di paesaggio: fra tutte,
prevalgono quella ecologica, geografica, archeo-storico-geografica, bionomica (prossima
a visioni olistiche della landscape ecology), estetico-percettiva,
cognitiva, semiologica, culturale e strutturale. Queste definizioni paradigmatiche
aggettivano il paesaggio cogliendone caratteri specifici, ma non sembrano convergere nel
riconoscimento del paesaggio come un particolare tipo di bene comune o semi-pubblico
[9]
. ¶{p. 125}Per sua natura ed essenzialità, il paesaggio
evidenzia «benefici congiunti». Il beneficio che un soggetto trae dal suo uso non può
essere separato dal beneficio goduto da altri soggetti. Il beneficio viene goduto
assieme e non contro (beni privati) o a prescindere (beni pubblici) dagli altri; non è
una esternalità, ma una acquisizione condivisa che può produrre eventuali esternalità
(co-benefit). Se per l’accesso a e l’uso dei beni privati si fa
ricorso al principio dello scambio e per i beni pubblici al principio della
redistribuzione, il bene comune rinvia al principio della reciprocità: un principio che
sostituisce una «visione» comune a quella individualistica o redistributiva. D’altra
parte, le pratiche di commoning richiedono forme di gestione
cooperativa e comunitaria sia sul versante della domanda che dell’offerta. Se dal lato
dell’offerta si presta attenzione a costi, incentivi e premialità, dal lato della
domanda si dovrebbero stimolare consapevolezza e reciprocità
[10]
.
I paradigmi ambientali sono spesso
una traduzione epistemologica di posizioni ontologiche anche conflittuali, e ciò sembra
alludere ad una quarta ragione. In coerenza con le codificazioni regolative e
procedurali, la VAS condivide il paradigma del riformismo liberale (delle
lobby, potremmo dire), come conferma l’attuale conflitto sulle
strategie climatiche sempre in ritardo rispetto alle raccomandazioni IPCC. Questo
approccio «riformista» prevede incentivi/disincentivi, nuove soluzioni tecnologiche,
«parvenze etiche» e tardive ammissioni di responsabilità, come indicato dalle pratiche
ESG (Environment, Society, Governance) con evidenze
con¶{p. 126}trastanti. Ma diffuse e motivate posizioni critiche
ritengono più plausibili altri riferimenti per ragioni di sopravvivenza della specie
umana. La deep ecology, a sfondo etico radicale, considera
l’ambiente come fine, un mondo in cui l’essere umano viene privato dei diritti primari
in quanto costretto a condividerli con altri «attori naturali». L’«ecologia sociale»
riconosce le potenzialità dell’individuo in evoluzione, le sue capacità (anche di
resilienza). Qualifica l’interazione sociale e affronta i temi della auto-sostenibilità,
si concentra sui diritti relativi alle risorse locali, sulla sperimentazione e sulla
comunicazione ecologica. L’«ecologia politica» va ancora più in là. Essa parte
dall’assunto che la fondazione scientifica non consenta di eludere i nodi normativi e le
responsabilità decisionali. L’ecologia dovrebbe essere in grado di falsificarla. Per
questo si pone come critica all’ecologia culturale
[11]
che ignora le dimensioni politiche dell’ambiente, la sua strumentalizzazione
economico-finanziaria. È attenta alla lotta per il controllo delle risorse naturali.
L’ecologia diventa così metafora delle interazioni fra sistemi politici e ambiente: in
sintesi, etica della responsabilità. Non ha senso un ecologismo «naturalista» che
prescinda dalle dinamiche di sfruttamento e dalle diseguaglianze sociali. Queste
posizioni portano alla critical political ecology, ovvero alla
critica della modernizzazione ecologica del riformismo liberale e, ancor più, di quello neoliberista
[12]
. Diventa esplicito il carattere conflittuale e politico della questione
ecologica, in particolare delle strategie di mitigazione e adattamento ai cambiamenti
climatici (CC)
[13]
. Poiché il «delirio» della convinzione antropocentrica favorisce la
hybris dei pochi sui molti
[14]
, questa posizione cri¶{p. 127}tica contesta la neutralità
della scienza, giustificando pratiche di rottura non pacifiche («ultima generazione»,
green peace, guerrilla
gardening, just stop oil, extinction
rebellion, e così via). Anche in questo caso affiorano ibridazioni ed
inerzie, utopie e distopie. Come vedremo, i contatti fra epistemologie ambientali e
paesaggistiche generano domini di incertezza, se non di aperto conflitto. E questo non
aiuta certo la messa a punto di adeguati strumenti di governo del territorio e di
affidabili disegni valutativi.
In queste condizioni, risulta
evidente come la difficoltà di integrare modelli VAS con modelli VP non sia soltanto di
natura tecnico-operativa. Sarebbe, infatti, necessario riuscire a rispondere ai seguenti
quesiti: VP può contribuire alla definizione di scenari e strategie di sostenibilità in
contesti definiti o comunque riconoscibili in azioni progettuali? VP può farsi carico di
questo compito?
2. VAS e prove di integrazione strategica
Verificata l’assoggettabilità
dell’azione specifica, le pratiche di VAS dovrebbero orientare progettazione e
attuazione di strategie sostenibili rispetto a scenari alternativi. Le VAS di prima
generazione operano per domini tematici (aria, acqua, suolo e sottosuolo, aree naturali
e biodiversità) rinviando a test di «efficacia esterna» l’interazione con azioni di
governo su energia, mobilità, idro-geologia, adattamenti climatici, e così via. Il
modello Valsat (artt. 18-21, l.r. Emilia-Romagna 24/2017) è una delle espressioni più
mature sul versante della qualità urbana ed ecologico-ambientale. Attento alla stima del
fabbisogno di «dotazioni ecologiche e ambientali» (assimilabili a servizi ecosistemici)
e dei relativi requisiti prestazionali, il modello sembra esporre le amministrazioni ad
un carico di responsabilità eccessivo rispetto alle capacità gestionali e negoziali.
Evidenze, al riguardo, emergono dal modo in cui sono applicati i principi di
integrazione e non duplicazione, da come e quando si adottano misure di compensazione,
riequilibrio e perequazione territoriale, dai contenuti degli
¶{p. 128}stessi strumenti negoziali (accordi di programma e forme
partenariali).
In questo caso, il paesaggio viene
considerato in modo ancillare, con riferimento soprattutto ai beni storico-culturali. Le
VAS di seconda generazione tendono ad internalizzare il clima, ancorando le strategie
«tematiche» a scenari di mitigazione e adattamento ai CC. Si tratta di primi tentativi
con evidenti difficoltà di modellizzazione e di risposta da parte di amministrazioni
locali, professionisti e, più in generale, dei sistemi giuridici. Anche l’adattamento
dei dispositivi di monitoraggio presenta qualche difficoltà. Prematura sembra l’adozione
di modelli metabolici, così come la trattazione congiunta delle quattro classi dei
servizi ecosistemici (SE) e delle reciproche interazioni
[15]
. Queste interazioni contribuirebbero a definire frame
di riferimento operativo. I frame (ancorabili ai CC)
conterrebbero tematiche di prima generazione, ma consentirebbero di definire scenari e
strategie sulla base di dotazioni e flussi (attuali e attesi) dei SE. Essi aiuterebbero
ad aprire quella «scatola nera» che si limita alla contabilizzazione di flussi in
entrata e in uscita, disinteressandosi delle circostanze tecniche e sociali interne agli
ecosistemi. Una terza generazione di VAS potrebbe, in futuro, confrontarsi in modo
«strategico» e non soltanto descrittivo con il paesaggio, cogliendolo come
rappresentazione e interpretazione di processi metabolici locali.
Ma, rimanendo alle prove di
integrazione in corso, sembra utile tornare brevemente sul concetto di strategia, un
concetto trattato spesso in modo ambiguo nelle VAS che diventa a tutti gli effetti un
ostacolo nelle relazioni con VP.
3. Dimensioni strategiche
La valutazione strategica opera in
domini caratterizzati da obiettivi conflittuali e si può presentare in diverse forme.
¶{p. 129}Può essere finalizzata alla costruzione di strategie (in caso
di assenza o in presenza di istanze che le richiedano), alla loro comparazione o al loro
miglioramento (se disponibili e in qualche misura definite). I conflitti possono essere
trattati in termini costruttivi (setting) o risolutivi
(solving). Nel primo caso può registrarsi una «dilatazione»
dell’area del possibile, mentre nel secondo l’attenzione è alle
performance.
Note
[7] Cfr. V. De Lucia, L’Italia era bellissima. Città e paesaggio nell’Italia repubblicana, Roma, DeriveApprodi, 2022, pp. 112-114. Le offese a questi due principi bloccano qualsiasi ipotesi di riassetto dei poteri in materia di pianificazione del territorio, come ricorda De Lucia, ma non possono essere ignorate dalle ipotesi di riabilitazione della cultura urbanistica, cfr. P.C. Palermo, Il futuro dell’urbanistica post-riformista, Roma, Carocci, 2022.
[8] Per un approfondimento sulle pratiche amministrative locali, cfr. A. Chemin, E. Fontanari e D. Patassini (a cura di), Paesaggi del Canale di Brenta. Osservatorio locale sperimentale. Dossier didattico, Padova, Urban Press, 2012, pp. 30-39. «Il contenzioso va studiato per quello che è, con le analisi del “caso”, sia come frequente manifestazione di ritardo culturale (difficilmente colmabile con escamotage partecipativi), sia come risorsa educativa e di apprendimento collettivo. La ricostruzione e discussione collettiva (nelle sedi proprie) dei “tipi di contenzioso” potrebbe orientare indagini sulla percezione individuale (e istituzionale a.d.a.) del paesaggio e migliorare la comprensione degli stessi modelli cognitivi» (ibidem, p. 34).
[9] Ipotesi di convergenza delle definizioni consentono di apprezzare quella che potremmo definire una dimensione culturale ed esperienziale del paesaggio (da non confondere con il «paesaggio culturale»). In quanto bene di esperienza, qualità, valore, caratteri e utilità non si manifestano se non con l’uso e l’interazione materiale o immateriale. In quanto bene di merito, il beneficio percepito (e la stessa utilità) non sono completamente apprezzati al momento della fruizione. L’apprezzamento può avvenire con percorsi di apprendimento o esperienze comparative. Alcuni autori riconoscono al paesaggio anche i caratteri di credence good, un bene di fiducia, a cui si dà credito e appare quindi credibile e attendibile. Le qualità del paesaggio sarebbero difficili da valutare anche dopo l’esperienza e l’asimmetria informativa potrebbe giocare un ruolo «inflattivo», come spesso accade in località turistiche o a seguito di operazioni di marketing che associano il paesaggio ad un determinato prodotto o evento.
[10] D. Patassini, Appunti sulla valutazione come filosofia pratica e ricerca di evidenza (versione 1.4), IUAV Università di Venezia, Venezia (dispensa del Corso di Cultura della valutazione, mimeo), 2023.
[11] L’ecologia culturale è una declinazione antropologica dell’ecologia, una sua versione strutturalista. Considera l’evoluzione di pratiche culturali e istituzioni nei sistemi ecologici, ove la cultura dipende in modo quasi deterministico dall’ambiente.
[12] J.W. Moore, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a buon mercato, Verona, ombre corte, 2023.
[13] H. Ernstson e E. Swyngedouw (a cura di), Urban Political Ecology in the Anthropo-obscene, London, Routledge, 2019.
[14] P. Blom, La natura sottomessa. Ascesa e declino di un’idea, Venezia, Marsilio, 2023.
[15] Millennium Ecosystem Assessment, Ecosystems and Human Well-being: Synthesis, Washington, DC, Island Press, 2005; IPBES, The Global Assessment Report on Biodiversity and Ecosystem Services: Summary for Policymakers, Bonn, IPBES Secretariat, 2019.