Matelda Reho, Filippo Magni (a cura di)
Tutela e valorizzazione del paesaggio nella transizione
DOI: 10.1401/9788815413352/c6
La seconda ragione (correlata alla prima) può essere individuata nella mancata codificazione del paesaggio come «matrice» (frame) di riferimento e nella assente cogenza dei piani paesaggistici (a qualunque scala) come strumenti «regolativi» di governo del territorio. Si tratta di due principi basilari che rimangono disattesi, quando non esplicitamente violati o interpretati in modo «singolare» nei diversi contesti regionali [7]
. Alla mancata codificazione può essere attribuita gran parte del «contenzioso sul paesaggio» generato da almeno tre fattori. Il primo riguarda l’imposizione del vincolo e la possibilità che esso venga «impugnato» per discutibili diritti «acquisiti». Il secondo rinvia al diniego della autorizzazione per incompatibilità. Le motivazioni possono essere più o meno pertinenti o complete, ma l’aspetto più interessante è la relazione fra ruolo istituzionale e motivazione. Ad esempio, i pareri della soprintendenza sono a volte molto «asciutti» e per questo ritenuti incompleti, se non pertinenti. La tempistica può essere considerata come terzo fattore. Essa può interferire con la progettazione e l’attuazione de
{p. 124}gli interventi. Imposizione, diniego e tempistiche possono generare danni economici e finanziari da sottoporre a non facile esercizio estimativo. Il contenzioso può nascere anche a seguito di un reato commesso da un soggetto privato ed in particolare quando si impugnano questioni di compatibilità, provvedimenti di sanatoria, entità delle sanzioni. Novità, incertezza e variabilità di procedure e istituti giuridici generano frequenti e costosi contenziosi che esprimono difficoltà nel riconoscere al paesaggio i valori culturali che merita… Oltre a «fare dottrina» (esito incrementale comunque apprezzabile), il contenzioso appesantisce i processi di governo del territorio, sposta l’attenzione dalla conoscenza sostantiva a quella procedurale (proponendo inedite sovrapposizioni e nuove domande tecnico-professionali) e svela una certa vulnerabilità delle amministrazioni locali [8]
.
Una terza ragione è attribuibile alla coesistenza di diverse definizioni «paradigmatiche» di paesaggio: fra tutte, prevalgono quella ecologica, geografica, archeo-storico-geografica, bionomica (prossima a visioni olistiche della landscape ecology), estetico-percettiva, cognitiva, semiologica, culturale e strutturale. Queste definizioni paradigmatiche aggettivano il paesaggio cogliendone caratteri specifici, ma non sembrano convergere nel riconoscimento del paesaggio come un particolare tipo di bene comune o semi-pubblico [9]
. {p. 125}Per sua natura ed essenzialità, il paesaggio evidenzia «benefici congiunti». Il beneficio che un soggetto trae dal suo uso non può essere separato dal beneficio goduto da altri soggetti. Il beneficio viene goduto assieme e non contro (beni privati) o a prescindere (beni pubblici) dagli altri; non è una esternalità, ma una acquisizione condivisa che può produrre eventuali esternalità (co-benefit). Se per l’accesso a e l’uso dei beni privati si fa ricorso al principio dello scambio e per i beni pubblici al principio della redistribuzione, il bene comune rinvia al principio della reciprocità: un principio che sostituisce una «visione» comune a quella individualistica o redistributiva. D’altra parte, le pratiche di commoning richiedono forme di gestione cooperativa e comunitaria sia sul versante della domanda che dell’offerta. Se dal lato dell’offerta si presta attenzione a costi, incentivi e premialità, dal lato della domanda si dovrebbero stimolare consapevolezza e reciprocità [10]
.
I paradigmi ambientali sono spesso una traduzione epistemologica di posizioni ontologiche anche conflittuali, e ciò sembra alludere ad una quarta ragione. In coerenza con le codificazioni regolative e procedurali, la VAS condivide il paradigma del riformismo liberale (delle lobby, potremmo dire), come conferma l’attuale conflitto sulle strategie climatiche sempre in ritardo rispetto alle raccomandazioni IPCC. Questo approccio «riformista» prevede incentivi/disincentivi, nuove soluzioni tecnologiche, «parvenze etiche» e tardive ammissioni di responsabilità, come indicato dalle pratiche ESG (Environment, Society, Governance) con evidenze con{p. 126}trastanti. Ma diffuse e motivate posizioni critiche ritengono più plausibili altri riferimenti per ragioni di sopravvivenza della specie umana. La deep ecology, a sfondo etico radicale, considera l’ambiente come fine, un mondo in cui l’essere umano viene privato dei diritti primari in quanto costretto a condividerli con altri «attori naturali». L’«ecologia sociale» riconosce le potenzialità dell’individuo in evoluzione, le sue capacità (anche di resilienza). Qualifica l’interazione sociale e affronta i temi della auto-sostenibilità, si concentra sui diritti relativi alle risorse locali, sulla sperimentazione e sulla comunicazione ecologica. L’«ecologia politica» va ancora più in là. Essa parte dall’assunto che la fondazione scientifica non consenta di eludere i nodi normativi e le responsabilità decisionali. L’ecologia dovrebbe essere in grado di falsificarla. Per questo si pone come critica all’ecologia culturale [11]
che ignora le dimensioni politiche dell’ambiente, la sua strumentalizzazione economico-finanziaria. È attenta alla lotta per il controllo delle risorse naturali. L’ecologia diventa così metafora delle interazioni fra sistemi politici e ambiente: in sintesi, etica della responsabilità. Non ha senso un ecologismo «naturalista» che prescinda dalle dinamiche di sfruttamento e dalle diseguaglianze sociali. Queste posizioni portano alla critical political ecology, ovvero alla critica della modernizzazione ecologica del riformismo liberale e, ancor più, di quello neoliberista [12]
. Diventa esplicito il carattere conflittuale e politico della questione ecologica, in particolare delle strategie di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici (CC) [13]
. Poiché il «delirio» della convinzione antropocentrica favorisce la hybris dei pochi sui molti [14]
, questa posizione cri{p. 127}tica contesta la neutralità della scienza, giustificando pratiche di rottura non pacifiche («ultima generazione», green peace, guerrilla gardening, just stop oil, extinction rebellion, e così via). Anche in questo caso affiorano ibridazioni ed inerzie, utopie e distopie. Come vedremo, i contatti fra epistemologie ambientali e paesaggistiche generano domini di incertezza, se non di aperto conflitto. E questo non aiuta certo la messa a punto di adeguati strumenti di governo del territorio e di affidabili disegni valutativi.
In queste condizioni, risulta evidente come la difficoltà di integrare modelli VAS con modelli VP non sia soltanto di natura tecnico-operativa. Sarebbe, infatti, necessario riuscire a rispondere ai seguenti quesiti: VP può contribuire alla definizione di scenari e strategie di sostenibilità in contesti definiti o comunque riconoscibili in azioni progettuali? VP può farsi carico di questo compito?

2. VAS e prove di integrazione strategica

Verificata l’assoggettabilità dell’azione specifica, le pratiche di VAS dovrebbero orientare progettazione e attuazione di strategie sostenibili rispetto a scenari alternativi. Le VAS di prima generazione operano per domini tematici (aria, acqua, suolo e sottosuolo, aree naturali e biodiversità) rinviando a test di «efficacia esterna» l’interazione con azioni di governo su energia, mobilità, idro-geologia, adattamenti climatici, e così via. Il modello Valsat (artt. 18-21, l.r. Emilia-Romagna 24/2017) è una delle espressioni più mature sul versante della qualità urbana ed ecologico-ambientale. Attento alla stima del fabbisogno di «dotazioni ecologiche e ambientali» (assimilabili a servizi ecosistemici) e dei relativi requisiti prestazionali, il modello sembra esporre le amministrazioni ad un carico di responsabilità eccessivo rispetto alle capacità gestionali e negoziali. Evidenze, al riguardo, emergono dal modo in cui sono applicati i principi di integrazione e non duplicazione, da come e quando si adottano misure di compensazione, riequilibrio e perequazione territoriale, dai contenuti degli {p. 128}stessi strumenti negoziali (accordi di programma e forme partenariali).
In questo caso, il paesaggio viene considerato in modo ancillare, con riferimento soprattutto ai beni storico-culturali. Le VAS di seconda generazione tendono ad internalizzare il clima, ancorando le strategie «tematiche» a scenari di mitigazione e adattamento ai CC. Si tratta di primi tentativi con evidenti difficoltà di modellizzazione e di risposta da parte di amministrazioni locali, professionisti e, più in generale, dei sistemi giuridici. Anche l’adattamento dei dispositivi di monitoraggio presenta qualche difficoltà. Prematura sembra l’adozione di modelli metabolici, così come la trattazione congiunta delle quattro classi dei servizi ecosistemici (SE) e delle reciproche interazioni [15]
. Queste interazioni contribuirebbero a definire frame di riferimento operativo. I frame (ancorabili ai CC) conterrebbero tematiche di prima generazione, ma consentirebbero di definire scenari e strategie sulla base di dotazioni e flussi (attuali e attesi) dei SE. Essi aiuterebbero ad aprire quella «scatola nera» che si limita alla contabilizzazione di flussi in entrata e in uscita, disinteressandosi delle circostanze tecniche e sociali interne agli ecosistemi. Una terza generazione di VAS potrebbe, in futuro, confrontarsi in modo «strategico» e non soltanto descrittivo con il paesaggio, cogliendolo come rappresentazione e interpretazione di processi metabolici locali.
Ma, rimanendo alle prove di integrazione in corso, sembra utile tornare brevemente sul concetto di strategia, un concetto trattato spesso in modo ambiguo nelle VAS che diventa a tutti gli effetti un ostacolo nelle relazioni con VP.

3. Dimensioni strategiche

La valutazione strategica opera in domini caratterizzati da obiettivi conflittuali e si può presentare in diverse forme.
{p. 129}Può essere finalizzata alla costruzione di strategie (in caso di assenza o in presenza di istanze che le richiedano), alla loro comparazione o al loro miglioramento (se disponibili e in qualche misura definite). I conflitti possono essere trattati in termini costruttivi (setting) o risolutivi (solving). Nel primo caso può registrarsi una «dilatazione» dell’area del possibile, mentre nel secondo l’attenzione è alle performance.
Note
[7] Cfr. V. De Lucia, L’Italia era bellissima. Città e paesaggio nell’Italia repubblicana, Roma, DeriveApprodi, 2022, pp. 112-114. Le offese a questi due principi bloccano qualsiasi ipotesi di riassetto dei poteri in materia di pianificazione del territorio, come ricorda De Lucia, ma non possono essere ignorate dalle ipotesi di riabilitazione della cultura urbanistica, cfr. P.C. Palermo, Il futuro dell’urbanistica post-riformista, Roma, Carocci, 2022.
[8] Per un approfondimento sulle pratiche amministrative locali, cfr. A. Chemin, E. Fontanari e D. Patassini (a cura di), Paesaggi del Canale di Brenta. Osservatorio locale sperimentale. Dossier didattico, Padova, Urban Press, 2012, pp. 30-39. «Il contenzioso va studiato per quello che è, con le analisi del “caso”, sia come frequente manifestazione di ritardo culturale (difficilmente colmabile con escamotage partecipativi), sia come risorsa educativa e di apprendimento collettivo. La ricostruzione e discussione collettiva (nelle sedi proprie) dei “tipi di contenzioso” potrebbe orientare indagini sulla percezione individuale (e istituzionale a.d.a.) del paesaggio e migliorare la comprensione degli stessi modelli cognitivi» (ibidem, p. 34).
[9] Ipotesi di convergenza delle definizioni consentono di apprezzare quella che potremmo definire una dimensione culturale ed esperienziale del paesaggio (da non confondere con il «paesaggio culturale»). In quanto bene di esperienza, qualità, valore, caratteri e utilità non si manifestano se non con l’uso e l’interazione materiale o immateriale. In quanto bene di merito, il beneficio percepito (e la stessa utilità) non sono completamente apprezzati al momento della fruizione. L’apprezzamento può avvenire con percorsi di apprendimento o esperienze comparative. Alcuni autori riconoscono al paesaggio anche i caratteri di credence good, un bene di fiducia, a cui si dà credito e appare quindi credibile e attendibile. Le qualità del paesaggio sarebbero difficili da valutare anche dopo l’esperienza e l’asimmetria informativa potrebbe giocare un ruolo «inflattivo», come spesso accade in località turistiche o a seguito di operazioni di marketing che associano il paesaggio ad un determinato prodotto o evento.
[10] D. Patassini, Appunti sulla valutazione come filosofia pratica e ricerca di evidenza (versione 1.4), IUAV Università di Venezia, Venezia (dispensa del Corso di Cultura della valutazione, mimeo), 2023.
[11] L’ecologia culturale è una declinazione antropologica dell’ecologia, una sua versione strutturalista. Considera l’evoluzione di pratiche culturali e istituzioni nei sistemi ecologici, ove la cultura dipende in modo quasi deterministico dall’ambiente.
[12] J.W. Moore, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a buon mercato, Verona, ombre corte, 2023.
[13] H. Ernstson e E. Swyngedouw (a cura di), Urban Political Ecology in the Anthropo-obscene, London, Routledge, 2019.
[14] P. Blom, La natura sottomessa. Ascesa e declino di un’idea, Venezia, Marsilio, 2023.
[15] Millennium Ecosystem Assessment, Ecosystems and Human Well-being: Synthesis, Washington, DC, Island Press, 2005; IPBES, The Global Assessment Report on Biodiversity and Ecosystem Services: Summary for Policymakers, Bonn, IPBES Secretariat, 2019.