Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c13
Certamente però l’elemento più
rivoluzionario della Convenzione è l’attiva e influente partecipazione delle stesse
persone con disabilità nel processo di concezione, elaborazione e formulazione dei
cinquanta articoli che la costituiscono. Anche gli utenti della psichiatria sono stati
attivamente coinvolti e hanno svolto un ruolo di innovazione radicale: per una
¶{p. 315}volta la compassata e spesso burocratica logica che
caratterizza i processi all’interno del sistema delle Nazioni Unite ha lasciato il posto
alla vivacità spesso conflittuale di un dibattito, per nulla compassato o troppo
formalizzato. Sarebbe stato auspicabile che anche nel nostro Paese all’atto della
ratificazione della Convenzione, il Parlamento avesse avuto il coraggio di aprire un
dibattito nazionale articolato e coraggioso. Ma non è stato così.
Eppure, alcuni articoli della
Convenzione hanno, o meglio avrebbero, se applicati, implicazioni sostanziali su tutti
gli interventi di riabilitazione e di cura per le persone con disabilità, definite
nell’articolo 1, come tutti «coloro che presentano durature menomazioni fisiche,
mentali, intellettive o sensoriali che, in interazione con barriere di diversa natura,
possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di
uguaglianza con gli altri».
L’articolo 12 sancisce l’uguale
riconoscimento dinanzi alla legge. Si tratta di un articolo di importanza significativa
poiché impegna gli Stati parte (ossia i governi che hanno firmato e ratificato la
Convenzione), a riconoscere che «le persone con disabilità godono della capacità
giuridica su base di uguaglianza con gli altri in tutti gli aspetti della vita». E non
soltanto gli Stati parte devono riconoscere tale uguaglianza ma devono anche adottare
«misure adeguate a consentire l’accesso da parte delle persone con disabilità al
sostegno di cui dovessero necessitare per esercitare la propria capacità giuridica [...]
e assicurare che le misure relative all’esercizio della capacità giuridica rispettino i
diritti, la volontà e le preferenze della persona».
L’articolo 12 della Convenzione
afferma in una riga un principio radicalmente innovativo quando stabilisce che
«l’esistenza di una disabilità non giustifichi in nessun caso una privazione della
libertà». In altre parole, nessuno può essere sottoposto ad alcuna misura coercitiva
della libertà soltanto in quanto portatore di una disabilità
mentale o fisica: pensiamo ai molti, troppi, trattamenti sanitari obbligatori abusivi e
soprattutto alle contenzioni o ai camerini di isolamento che si perpetuano, malgrado
siano ormai stati dichiarati illegittimi, non solo dall’etica e dalla buona pratica
psichiatrica ma, finalmente, anche dalla legge. E non dimentichiamo che a tali abusi non
sono solo esposte le persone con disturbi mentali ma anche le persone con disabilità
intellettive e, infine, il grande esercito costituito dagli anziani nelle Residenze
Sanitarie Assistite (RSA).
A proposito di contenzione o
camerino di isolamento, ricordiamo che l’articolo 15 afferma con forza «il diritto di
non essere sottoposto a tortura, a pene o a trattamenti crudeli, inumani o degradanti».
È interessante notare che gli operatori sanitari tendono a ignorare questo articolo
(sempre che lo abbiano letto) poiché sono fermamente convinti che nei loro prestigiosi
ospedali non si praticano certo tortura o trattamenti crudeli, inumani o degradanti!
Queste, a loro parere, sono pratiche inesistenti in ¶{p. 316}Paesi
moderni, democratici e civili come i nostri. Così pensano. Ma non vengono neppure
sfiorati dall’idea che la Convenzione invece considera la contenzione fisica o il
camerino di isolamento come pratiche inumane o degradanti. Ed è invece così, ed essere
in un Paese democratico e ad alto reddito non costituisce di per sé una garanzia per le
persone con disabilità.
Per concludere l’analisi di questi
pochi esempi di articoli della Convenzione che dovrebbero trasformare radicalmente molta
dell’assistenza che si pratica nel nostro Paese, leggiamo l’articolo 19 a proposito di
«Vita indipendente ed inclusione nella società».
Questo articolo mette in questione
la stragrande maggioranza degli interventi di riabilitazione e cura rivolti a persone
con disabilità mentali, intellettive e ad anziani non autosufficienti. Infatti,
l’articolo stabilisce che gli Stati parte debbano riconoscere:
il diritto di tutte le persone con disabilità a vivere nella società, con la stessa libertà di scelta delle altre persone, e adottano misure efficaci ed adeguate al fine di facilitare il pieno godimento da parte delle persone con disabilità di tale diritto e la loro piena integrazione e partecipazione nella società, anche assicurando che: a) le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione; b) le persone con disabilità abbiano accesso ad una serie di servizi a domicilio o residenziali e ad altri servizi sociali di sostegno, compresa l’assistenza personale necessaria per consentire loro di vivere nella società e di inserirvisi e impedire che siano isolate o vittime di segregazione.
Ecco la descrizione di un pianeta
ben lontano da quello in cui viviamo, lontano ma necessario, lontano ma eticamente,
tecnicamente e giuridicamente indispensabile. Non ci sono scuse: si deve applicare
l’articolo 19 della Convenzione o meglio, si devono mettere in atto le misure per
applicarlo, si deve costruire un calendario di applicazione, monitorare e applicare
sanzioni, se necessario. Almeno questo.
Ci si chiede, allora, quanto la
Convenzione venga applicata nel nostro Paese che non solo l’ha firmata, il 30 marzo
2007, ma l’ha anche ratificata il 15 maggio 2009. Ricordiamo che la firma di un trattato
internazionale è la semplice manifestazione di consenso che uno Stato esprime all’atto
della firma. Tuttavia, la firma non stabilisce di per sé il consenso ad essere vincolati
dal trattato ma si limita ad esprimere un consenso di principio e a creare l’obbligo di
astenersi da atti che vanificherebbero lo scopo del trattato. La ratifica, invece,
esprime solennemente il consenso di uno Stato a essere vincolato giuridicamente dalle
prescrizioni contenute nel trattato o nella Convenzione.
Dunque, l’Italia, insieme ad altri
187 Stati ha firmato e ratificato la Convenzione mentre solo 7 Paesi non lo hanno voluto
fare, e fra essi gli Stati Uniti d’America. ¶{p. 317}
Per evitare che la Convenzione
rimanesse lettera morta è stato istituito un organismo intergovernativo che costituisce
una sorta di segretariato permanente attraverso cui gli Stati discutono ed esaminano lo
stato di implementazione della Convenzione. Tale organismo è denominato Conferenza degli
Stati parte.
Alla Convenzione è stato annesso
un Protocollo di diciotto articoli che istituisce un Comitato sui diritti delle persone
con disabilità. Tale Comitato ha due funzioni, quella di monitorare l’implementazione
della Convenzione, esaminando i rapporti inviati con cadenza quadriennale dagli Stati, e
quella di esaminare tutte le segnalazioni di violazioni della Convenzione. È composto da
diciotto esperti indipendenti che si riuniscono tre volte all’anno e che sono eletti
dalla Conferenza degli Stati parte. Infine, è stata creata la figura dello
Special Rapporteur sulla Disabilità che riferisce annualmente
al Segretario generale delle Nazioni Unite.
Come si vede sono stati istituiti
tre organismi deputati a proteggere e monitorare la Convenzione.
Il punto di vista delle persone
con disabilità mentale è molto rappresentato nel Comitato sui diritti delle persone con
disabilità e, dunque, la voce delle organizzazioni internazionali degli utenti della
psichiatria è divenuta molto influente. Tale influenza ben si coglie
nell’interpretazione degli articoli della Convenzione che risente fortemente della
visione spesso molto radicale di organizzazioni quali ENUSP (European Network of Users
and Survivors of Psychiatry), WNUSP (World Network of Users and Survivors of Psychiatry)
e MFI (Mindfreedom International).
La radicalità di alcune posizioni
ha suscitato non poche controversie e non solo con l’establishment
conservatore della psichiatria ma anche con esponenti progressisti del movimento globale
di salute mentale [Szmukler 2019; Freeman et al. 2015].
Le questioni su cui il dibattito e
le controversie sono più accesi sono quelle relative all’interpretazione della nozione
di capacità e dei suoi possibili limiti e alle definizioni di
migliore interesse della persona e di volontà e
preferenze.
È comunque interessante notare
come il dibattito e le differenze fra interpretazioni più o meno radicali si concentri
su concetti inerenti alla capacità di decidere, ma non su questioni inerenti al diritto
a non essere abusato fisicamente. Su questo, per fortuna, non c’è controversia alcuna e
l’opinione è concorde: la contenzione fisica non è ammissibile.
Ma di questa Convenzione, e del
grande dibattito internazionale intorno a essa, in Italia non si parla e la ragione è
molto semplice: la Convenzione è sostanzialmente ignota o ignorata nel nostro Paese.
Troppo spesso in Italia si assiste a dibattiti su questioni che non dovrebbero più
essere materia opinabile in quanto sono regolate da leggi vigenti, inclusa la
Convenzione di cui qui parliamo. Va ricordato, infatti, una volta per tutte
¶{p. 318}che tutte le convenzioni internazionali firmate e ratificate
dal Parlamento hanno valore di legge.
Ma tutto questo sembra interessare
assai poco agli operatori della psichiatria e agli amministratori pubblici: sono molto
pochi (o forse nessuno) gli infermieri, i medici, i geriatri, gli psichiatri e i
direttori di strutture residenziali che conoscono e applicano con rigore la Convenzione,
pur essendo questa una legge.
Gli esempi di violazione dei
diritti sanciti dalla Convenzione, nelle istituzioni residenziali psichiatriche e per
persone con disabilità o per anziani non autosufficienti sono migliaia e sono denunciate
da anni ma, curiosamente, le associazioni professionali si limitano a dichiarazioni
generali e di principio sull’etica dei trattamenti, ma mai si propongono come parte
attiva nel denunciare e nel collaborare con gli organismi giudiziari nazionali o
internazionali, né sono sollecite nel favorire il lavoro degli attivisti dei diritti
umani, spesso visti come disturbatori che cercano lo scandalo e mai come esponenti della
società civile che rivendicano i diritti dei più vulnerabili e senza voce.
Le istituzioni psichiatriche per
adulti pubbliche e private, le istituzioni specializzate per bambini e adolescenti con
disabilità intellettive o per anziani con demenza sono spesso ancora luoghi di miseria,
violenza, abuso.
Se questo è il cosiddetto «moral
case» secondo la definizione di V. Patel e colleghi [2006] non v’è dubbio che
affrontarlo non è solo una questione di mutamento di attitudini e pregiudizi individuali
ma anche e soprattutto è una questione di mutamenti radicali delle politiche per la
disabilità, delle legislazioni connesse e delle organizzazioni dei servizi che si devono
occupare di persone con disabilità, offrendo loro risposte umane, dignitose, giuste,
efficaci. Gli allarmi lanciati nel 2013 e nel 2016 dagli Special Rapporteurs delle
Nazioni Unite rimangono sempre validi [United Nations Human Right Council 2013; 2016].
Tuttavia, malgrado la Convenzione,
in Italia si continua a legare [Del Giudice 2015] e non solo nei servizi di Diagnosi e
Cura ma anche nelle molteplici tipologie di residenzialità, dai matti ai vecchi passando
per i minori disabili, tutti sono esposti al rischio di essere
contenuti al proprio letto.
Per fortuna la Corte di
Cassazione, V sezione, sentenza 20 giugno 2018, n. 50497, ha stabilito che la
contenzione non ha natura di atto medico in quanto quest’ultimo ha
la finalità di realizzare un beneficio per la salute, bene tutelato dall’articolo 32
della Costituzione, che consente di fornire copertura costituzionale all’atto medico. La
contenzione meccanica, afferma la Corte, mette invece in atto un presidio restrittivo
della libertà personale che non ha né una finalità curativa né produce materialmente
l’effetto di migliorare le condizioni di salute del paziente. Questo significa che i
sanitari che utilizzano di routine la contenzione meccanica sottopongono il
paziente a una illegittima privazione della libertà
¶
personale, configurando il reato di sequestro di
persona, ex articolo 605 del Codice Penale [Saraceno 2021]. Ma, indifferente e arroccata, la
psichiatria ufficiale resiste, non prende posizione nei fatti ma si limita a
enunciazioni di principio. L’establishment psichiatrico e quello
accademico in prima fila non promuovono la Convenzione, ma la subiscono in passivo
silenzio. Si tratta di una grande occasione perduta, occasione morale, giuridica,
tecnica e politica che mostra e dimostra ancora una volta l’opacità morale della
psichiatria. Non si vuole promuovere, informare, fare conoscere, fare corsi, istruire,
educare quando invece si avrebbe la splendida opportunità di celebrare una legge che
afferma innanzitutto il diritto di avere dei diritti, il che non è poco quando ci si
riferisce a una popolazione che non solo è stata e continua a essere deprivata di molti
diritti, ma per cui si sono financo invocate ragioni scientifiche per tale statuto di
diritti amputati (e le incongruenze, gli abusi, gli arbitri che riempiono le pagine
delle perizie psichiatriche ne fanno ampia testimonianza).
Infatti, nella Convenzione, per la
prima volta, i diritti delle persone con disabilità mentale sono assimilati ai diritti
delle persone con disabilità fisica ponendo così fine a una discriminazione che
sussisteva anche all’interno dello stesso mondo delle disabilità. Nella Convenzione, per
la prima volta, non si afferma soltanto la protezione dalla
violazione dei diritti ma si afferma anche la promozione dei
diritti: non si tratta dunque soltanto di evitare violazioni dei diritti ma
anche di promuoverne l’esercizio.
Ma allora, di cosa abbiamo ancora
bisogno per restituire diritti alle persone con disabilità fisiche e/o mentali nelle
istituzioni o negli ospedali?
È proprio grazie alla Convenzione
che l’etichetta dei diritti umani affermati con insopportabile
retorica e al tempo stesso violati dalle istituzioni per disabili, cessa finalmente di
essere una piccola etica, etichetta del ben comportarsi in società,
per inverarsi in Etica pratica.
La conoscenza e la rigorosa
applicazione della Convenzioni delle Nazioni Unite non è dunque un optional
internazionale ma un dovere nazionale.
Note