Orientarsi nell'orientamento
DOI: 10.1401/9788815411648/c3
Uno dei punti più critici della
normativa e dei documenti di indirizzo elaborati negli ultimi quindici anni è la
separazione tra a) le indicazioni e le linee guida per la
progettazione e l’attuazione della didattica, b) i documenti
relativi alla valutazione e c) quelli sull’orientamento, che
vengono elaborati in sedi e momenti diversi da commissioni che non sempre condividono
gli stessi principi né perseguono le medesime finalità. Oltre a generare confusione in
chi deve attuare le disposizioni normative, questa congerie di testi dà l’idea che
insegnamento, valutazione e orientamento siano attività tra loro separate, da affidare
di volta in volta a specialisti dell’una o dell’altra e su cui ogni docente deve
specializzarsi ricorrendo a corsi di formazione ad hoc e a
¶{p. 91}progetti specifici sulla didattica, sulla valutazione o,
appunto, sull’orientamento.
Per quanto sia da apprezzare il
tentativo di integrare queste azioni operato dagli estensori delle Linee guida
per il passaggio al nuovo ordinamento degli istituti tecnici (d.p.r.
88/2010) e degli istituti professionali (d.p.r. 87/2010), che parlano espressamente di
progettazione e valutazione per competenze e della necessità di «promuovere un
orientamento che sostenga l’esplorazione delle possibilità di sviluppo personale e
professionale, che valorizzi la dimensione orientativa delle discipline», le
Indicazioni nazionali dei licei del 2010 insistono al contrario
sui contenuti dell’insegnamento, fornendo elenchi di argomenti da studiare, senza fare
il minimo accenno alle pratiche valutative e orientative, che d’altronde sarebbero
destinate a rimanere delle buone intenzioni, visto che la valutazione è regolata da un
decreto a sé stante (d.p.r. 122/2009).
È indicativo il caso delle
Linee guida per la certificazione delle competenze del primo ciclo
(d.m. 742/2017), in cui si attribuisce alla stesura del modello di
certificazione per ogni studente da parte delle scuole una finalità
orientativa, da cui deriverebbe la scelta di ricorrere a una valutazione
autentica, «ovvero su prestazioni reali ed adeguate che possano orientare l’alunno nel
suo percorso scolastico e soprattutto contribuire alla conoscenza di sé, delle proprie
attitudini, talenti e qualità personali». Ed è proprio in questo documento che troviamo
esplicitato il nesso inscindibile tra didattica, valutazione e orientamento, che trova
la sua massima realizzazione nella valutazione formativa:
La valutazione diventa formativa quando si concentra sul processo e raccoglie un ventaglio di informazioni che, offerte all’alunno, contribuiscono a sviluppare in lui un’azione di autorientamento e di autovalutazione. Orientare significa guidare l’alunno ad esplorare sé stesso, a conoscersi nella sua interezza, a riconoscere le proprie capacità ed i propri limiti, a conquistare la propria identità, a migliorarsi continuamente.
Lungi dall’essere rappresentata come
un mero adempimento burocratico, la certificazione delle competenze è
pre¶{p. 92}sentata correttamente come un dispositivo di orientamento, a
condizione che ne sia preservato il carattere processuale, che sia correlata a una
didattica attiva, centrata sulla risoluzione di problemi – potremmo definirla una
didattica orientativa – e che sia accompagnata da un continuo alternarsi di riscontri
valutativi forniti dal docente e di autovalutazione e riflessione sugli apprendimenti da
parte di ogni studente, la cui «valutazione attraverso la narrazione» assume «una
funzione riflessiva e metacognitiva nel senso che guida il soggetto ad assumere la
consapevolezza di come avviene l’apprendimento».
6. Dal PCTO ai moduli curricolari per l’orientamento formativo
Nel 2019 la Direzione generale per
gli ordinamenti scolastici del Miur, in esplicita
continuità con le Linee guida per l’orientamento permanente del
2014, emana le Linee guida dei percorsi per le competenze trasversali e per
l’orientamento (d.m. 774/2019), frutto della rielaborazione della
precedente normativa sull’alternanza scuola-lavoro. L’istituzione dei PCTO sancisce
l’attuazione obbligatoria, da parte delle scuole autonome, di percorsi formativi
curricolari da progettare per ogni studente dell’ultimo triennio della scuola secondaria
di secondo grado (replicando poi a rovescio la gerarchia implicita tra i diversi ordini
di scuola, il PCTO ha una durata di 210 ore triennali negli istituti professionali, 150
nei tecnici e 90 nei licei).
Dato che il processo di
orientamento, si legge nel documento, «rappresenta, nel panorama italiano
dell’istruzione e della formazione, parte integrante del percorso educativo, a partire
dalla scuola dell’infanzia», e visto il suo carattere formativo, si prende atto del
cambiamento avvenuto nella «cultura dell’orientamento»: da un approccio definito
tradizionale e basato sull’informazione, spesso delegata a operatori ed esperti esterni,
si passa a un approccio formativo «attraverso percorsi esperienziali centrati
sull’apprendimento autonomo, anche in contesto non formale».¶{p. 93}
Assegnando quindi al docente il
ruolo di «facilitatore dell’orientamento» e attribuendo centralità ai soggetti in
apprendimento, i PCTO dovrebbero sostenere ogni studente nella costruzione ed
espressione di competenze autorientative attraverso la realizzazione di una pluralità di
azioni didattiche – che possono essere integrate con attività di stage – durante
l’ultimo triennio della scuola secondaria di secondo grado. Tenuta ferma la loro
finalità orientativa, i percorsi devono essere quindi progettati con l’obiettivo di
sviluppare un repertorio di competenze trasversali – competenza personale, sociale e
capacità di imparare a imparare; competenze in materia di cittadinanza, competenza
imprenditoriale e competenza in materia di consapevolezza ed espressione culturali – che
vanno a complicare ulteriormente il quadro complessivo dei risultati di apprendimento
[3]
.
Nonostante lo sforzo di inquadrare
questi percorsi tra le attività di orientamento, rimane il fatto che se le singole
istituzioni scolastiche non hanno costruito un loro sistema integrato di orientamento in
rapporto con i servizi territoriali, se non praticano sistematicamente la valutazione
formativa e la didattica orientativa, è molto probabile che, soprattutto nel contesto
liceale – che rappresenta oltre la metà della popolazione studentesca del secondo grado
– queste attività rimangano adempimenti poco graditi, più adatti, come evidenziato dal
differente carico orario previsto per quest’ordine di scuola, per una formazione
tecnico-professionale, ovvero per quei «piani bassi dell’istruzione» che secondo
l’opinione pubblica dovrebbero puntare a una immediata occupabilità.
Arrivando a oggi, le recenti
Linee guida per l’orientamento (d.m. 328/2022) riprendono per
l’ennesima volta il filo di un discorso iniziato negli anni Novanta, e dopo aver
ribadito i soliti principi generali – il carattere processuale e formativo
dell’orientamento, la dimensione orientativa della scuola secondaria (ancora percepita
come momento decisivo per la scelta, come negli anni Settanta del secolo
¶{p. 94}scorso), il valore educativo dell’orientamento – forniscono per
la prima volta indicazioni puntuali sulla realizzazione di «moduli curricolari di
orientamento formativo» di almeno trenta ore all’anno per tutta la scuola secondaria,
del primo e del secondo ciclo. Questi moduli, dice la norma,
non vanno intesi come il contenitore di una nuova disciplina o di una nuova attività educativa aggiuntiva e separata dalle altre. Sono invece uno strumento essenziale per aiutare gli studenti a fare sintesi unitaria, riflessiva e interdisciplinare della loro esperienza scolastica e formativa, in vista della costruzione in itinere del personale progetto di vita culturale e professionale, per sua natura sempre in evoluzione.
La vera novità della norma – che
introduce anche alcuni importanti strumenti di supporto, come il portfolio digitale, e
finanzia l’istituzione di tutor di orientamento nelle istituzioni scolastiche – è
rappresentata proprio dalla prescrizione di un numero di ore da dedicare espressamente
all’orientamento, spingendo così le istituzioni scolastiche a prendere atto di quello
sbandierato cambiamento culturale che sembra ancora riguardare un numero assai ristretto
di addetti ai lavori. D’ora in avanti, questo è ciò che ci si aspetta da questa
innovazione, si dovrà parlare di orientamento non solo – e non più – «in entrata» e «in
uscita», sotto forma di fiera o di visita aziendale, di percorso di riorientamento, di
prevenzione della dispersione o di scrittura del curriculum, ma anche come attività
didattica volta allo sviluppo esplicito dell’empowerment di ogni
studente.
7. L’elefante nella stanza: un consiglio che disorienta
La scuola secondaria di primo grado,
si legge ancora nelle Linee guida per l’orientamento del 2022, va
potenziata nella sua «dimensione orientativa»: espressione che rinvia agli anni Sessanta
del Novecento, all’inizio del nostro percorso, quando il legislatore italiano,
istituendo la scuola media unica, ha portato il percorso obbligatorio degli studi
¶{p. 95}a otto anni, mettendo per la prima volta insieme, nelle stesse
classi di scuola media, Pierino, figlio del dottore, e Gianni, figlio di operai o di
contadini [Scuola di Barbiana 1967]. A 14 anni, e non più a 11, ogni ragazzo e ragazza
avrebbe dovuto scegliere se e come proseguire gli studi, in un liceo (classico o
scientifico), un istituto tecnico, professionale o magistrale. Il consiglio di
orientamento, nato come strumento di indirizzo, è un parere non vincolante espresso dal
consiglio di classe sulle scelte successive di ogni studente (d.p.r. 362/1966), e
nell’arco di quasi sessant’anni sembra non aver ancora esaurito la sua funzione, al
punto da essere richiamato dalle Linee guida accanto al curriculum
dello studente.
Oltre a essere il segno evidente del
fallimento delle riforme scolastiche degli anni Novanta, il residuo fossile del
consiglio orientativo è anche un potente dispositivo di riproduzione delle
disuguaglianze e dei meccanismi di segregazione della scuola italiana, come evidenziato
dalla ricerca sociale ed educativa soprattutto negli ultimi quindici anni [Argentin,
Barbetta e Manzella 2023; Bonizzoni, Romito e Cavallo 2014; Checchi 2010; Romito 2014].
Il processo di scelta innescato dal
consiglio orientativo è ricostruito puntualmente da Checchi [2010] a conclusione di
un’indagine che ha coinvolto 2.020 studenti lombardi iscritti al terzo anno della scuola
secondaria del primo ciclo. Premesso che «la differenziazione dei percorsi tende a
riprodurre la stratificazione sociale, dove i figli delle classi dirigenti frequentano i
licei, i figli del ceto medio gli istituti tecnici e i figli delle classi inferiori la
formazione professionale» [ibidem, 216], la ricerca illustra un
meccanismo di scelta che prende le mosse dai consigli orientativi espressi dai e dalle
docenti, «correlati non solo alle competenze possedute dai ragazzi ma anche alle loro
origini socio-culturali» [ibidem, 235]. Questa prima decisione
viene ulteriormente modificata «in senso di rafforzamento della componente familiare»
nelle scelte di preiscrizione dei figli, su cui influiscono anche le scelte dei compagni
di classe, che a loro volta «riflettono l’ambiente sociale in cui è collocata la scuola»
[ibidem]. In questo modo, «il destino scolastico futuro degli
alunni viene
¶{p. 96}progressivamente segnato dalle origini sociali,
delle quali non portano alcuna responsabilità» [ibidem].
Note
[3] Si consideri che questi quattro obiettivi vanno ad aggiungersi alle competenze già definite dai relativi Pecup, alle competenze orientative e ai traguardi previsti dall’educazione civica (legge 92/2019).