Giulia Guglielmini, Federico Batini (a cura di)
Orientarsi nell'orientamento
DOI: 10.1401/9788815411648/c3
Uno dei punti più critici della normativa e dei documenti di indirizzo elaborati negli ultimi quindici anni è la separazione tra a) le indicazioni e le linee guida per la progettazione e l’attuazione della didattica, b) i documenti relativi alla valutazione e c) quelli sull’orientamento, che vengono elaborati in sedi e momenti diversi da commissioni che non sempre condividono gli stessi principi né perseguono le medesime finalità. Oltre a generare confusione in chi deve attuare le disposizioni normative, questa congerie di testi dà l’idea che insegnamento, valutazione e orientamento siano attività tra loro separate, da affidare di volta in volta a specialisti dell’una o dell’altra e su cui ogni docente deve specializzarsi ricorrendo a corsi di formazione ad hoc e a
{p. 91}progetti specifici sulla didattica, sulla valutazione o, appunto, sull’orientamento.
Per quanto sia da apprezzare il tentativo di integrare queste azioni operato dagli estensori delle Linee guida per il passaggio al nuovo ordinamento degli istituti tecnici (d.p.r. 88/2010) e degli istituti professionali (d.p.r. 87/2010), che parlano espressamente di progettazione e valutazione per competenze e della necessità di «promuovere un orientamento che sostenga l’esplorazione delle possibilità di sviluppo personale e professionale, che valorizzi la dimensione orientativa delle discipline», le Indicazioni nazionali dei licei del 2010 insistono al contrario sui contenuti dell’insegnamento, fornendo elenchi di argomenti da studiare, senza fare il minimo accenno alle pratiche valutative e orientative, che d’altronde sarebbero destinate a rimanere delle buone intenzioni, visto che la valutazione è regolata da un decreto a sé stante (d.p.r. 122/2009).
È indicativo il caso delle Linee guida per la certificazione delle competenze del primo ciclo (d.m. 742/2017), in cui si attribuisce alla stesura del modello di certificazione per ogni studente da parte delle scuole una finalità orientativa, da cui deriverebbe la scelta di ricorrere a una valutazione autentica, «ovvero su prestazioni reali ed adeguate che possano orientare l’alunno nel suo percorso scolastico e soprattutto contribuire alla conoscenza di sé, delle proprie attitudini, talenti e qualità personali». Ed è proprio in questo documento che troviamo esplicitato il nesso inscindibile tra didattica, valutazione e orientamento, che trova la sua massima realizzazione nella valutazione formativa:
La valutazione diventa formativa quando si concentra sul processo e raccoglie un ventaglio di informazioni che, offerte all’alunno, contribuiscono a sviluppare in lui un’azione di autorientamento e di autovalutazione. Orientare significa guidare l’alunno ad esplorare sé stesso, a conoscersi nella sua interezza, a riconoscere le proprie capacità ed i propri limiti, a conquistare la propria identità, a migliorarsi continuamente.
Lungi dall’essere rappresentata come un mero adempimento burocratico, la certificazione delle competenze è pre{p. 92}sentata correttamente come un dispositivo di orientamento, a condizione che ne sia preservato il carattere processuale, che sia correlata a una didattica attiva, centrata sulla risoluzione di problemi – potremmo definirla una didattica orientativa – e che sia accompagnata da un continuo alternarsi di riscontri valutativi forniti dal docente e di autovalutazione e riflessione sugli apprendimenti da parte di ogni studente, la cui «valutazione attraverso la narrazione» assume «una funzione riflessiva e metacognitiva nel senso che guida il soggetto ad assumere la consapevolezza di come avviene l’apprendimento».

6. Dal PCTO ai moduli curricolari per l’orientamento formativo

Nel 2019 la Direzione generale per gli ordinamenti scolastici del Miur, in esplicita continuità con le Linee guida per l’orientamento permanente del 2014, emana le Linee guida dei percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento (d.m. 774/2019), frutto della rielaborazione della precedente normativa sull’alternanza scuola-lavoro. L’istituzione dei PCTO sancisce l’attuazione obbligatoria, da parte delle scuole autonome, di percorsi formativi curricolari da progettare per ogni studente dell’ultimo triennio della scuola secondaria di secondo grado (replicando poi a rovescio la gerarchia implicita tra i diversi ordini di scuola, il PCTO ha una durata di 210 ore triennali negli istituti professionali, 150 nei tecnici e 90 nei licei).
Dato che il processo di orientamento, si legge nel documento, «rappresenta, nel panorama italiano dell’istruzione e della formazione, parte integrante del percorso educativo, a partire dalla scuola dell’infanzia», e visto il suo carattere formativo, si prende atto del cambiamento avvenuto nella «cultura dell’orientamento»: da un approccio definito tradizionale e basato sull’informazione, spesso delegata a operatori ed esperti esterni, si passa a un approccio formativo «attraverso percorsi esperienziali centrati sull’apprendimento autonomo, anche in contesto non formale».{p. 93}
Assegnando quindi al docente il ruolo di «facilitatore dell’orientamento» e attribuendo centralità ai soggetti in apprendimento, i PCTO dovrebbero sostenere ogni studente nella costruzione ed espressione di competenze autorientative attraverso la realizzazione di una pluralità di azioni didattiche – che possono essere integrate con attività di stage – durante l’ultimo triennio della scuola secondaria di secondo grado. Tenuta ferma la loro finalità orientativa, i percorsi devono essere quindi progettati con l’obiettivo di sviluppare un repertorio di competenze trasversali – competenza personale, sociale e capacità di imparare a imparare; competenze in materia di cittadinanza, competenza imprenditoriale e competenza in materia di consapevolezza ed espressione culturali – che vanno a complicare ulteriormente il quadro complessivo dei risultati di apprendimento [3]
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Nonostante lo sforzo di inquadrare questi percorsi tra le attività di orientamento, rimane il fatto che se le singole istituzioni scolastiche non hanno costruito un loro sistema integrato di orientamento in rapporto con i servizi territoriali, se non praticano sistematicamente la valutazione formativa e la didattica orientativa, è molto probabile che, soprattutto nel contesto liceale – che rappresenta oltre la metà della popolazione studentesca del secondo grado – queste attività rimangano adempimenti poco graditi, più adatti, come evidenziato dal differente carico orario previsto per quest’ordine di scuola, per una formazione tecnico-professionale, ovvero per quei «piani bassi dell’istruzione» che secondo l’opinione pubblica dovrebbero puntare a una immediata occupabilità.
Arrivando a oggi, le recenti Linee guida per l’orientamento (d.m. 328/2022) riprendono per l’ennesima volta il filo di un discorso iniziato negli anni Novanta, e dopo aver ribadito i soliti principi generali – il carattere processuale e formativo dell’orientamento, la dimensione orientativa della scuola secondaria (ancora percepita come momento decisivo per la scelta, come negli anni Settanta del secolo {p. 94}scorso), il valore educativo dell’orientamento – forniscono per la prima volta indicazioni puntuali sulla realizzazione di «moduli curricolari di orientamento formativo» di almeno trenta ore all’anno per tutta la scuola secondaria, del primo e del secondo ciclo. Questi moduli, dice la norma,
non vanno intesi come il contenitore di una nuova disciplina o di una nuova attività educativa aggiuntiva e separata dalle altre. Sono invece uno strumento essenziale per aiutare gli studenti a fare sintesi unitaria, riflessiva e interdisciplinare della loro esperienza scolastica e formativa, in vista della costruzione in itinere del personale progetto di vita culturale e professionale, per sua natura sempre in evoluzione.
La vera novità della norma – che introduce anche alcuni importanti strumenti di supporto, come il portfolio digitale, e finanzia l’istituzione di tutor di orientamento nelle istituzioni scolastiche – è rappresentata proprio dalla prescrizione di un numero di ore da dedicare espressamente all’orientamento, spingendo così le istituzioni scolastiche a prendere atto di quello sbandierato cambiamento culturale che sembra ancora riguardare un numero assai ristretto di addetti ai lavori. D’ora in avanti, questo è ciò che ci si aspetta da questa innovazione, si dovrà parlare di orientamento non solo – e non più – «in entrata» e «in uscita», sotto forma di fiera o di visita aziendale, di percorso di riorientamento, di prevenzione della dispersione o di scrittura del curriculum, ma anche come attività didattica volta allo sviluppo esplicito dell’empowerment di ogni studente.

7. L’elefante nella stanza: un consiglio che disorienta

La scuola secondaria di primo grado, si legge ancora nelle Linee guida per l’orientamento del 2022, va potenziata nella sua «dimensione orientativa»: espressione che rinvia agli anni Sessanta del Novecento, all’inizio del nostro percorso, quando il legislatore italiano, istituendo la scuola media unica, ha portato il percorso obbligatorio degli studi {p. 95}a otto anni, mettendo per la prima volta insieme, nelle stesse classi di scuola media, Pierino, figlio del dottore, e Gianni, figlio di operai o di contadini [Scuola di Barbiana 1967]. A 14 anni, e non più a 11, ogni ragazzo e ragazza avrebbe dovuto scegliere se e come proseguire gli studi, in un liceo (classico o scientifico), un istituto tecnico, professionale o magistrale. Il consiglio di orientamento, nato come strumento di indirizzo, è un parere non vincolante espresso dal consiglio di classe sulle scelte successive di ogni studente (d.p.r. 362/1966), e nell’arco di quasi sessant’anni sembra non aver ancora esaurito la sua funzione, al punto da essere richiamato dalle Linee guida accanto al curriculum dello studente.
Oltre a essere il segno evidente del fallimento delle riforme scolastiche degli anni Novanta, il residuo fossile del consiglio orientativo è anche un potente dispositivo di riproduzione delle disuguaglianze e dei meccanismi di segregazione della scuola italiana, come evidenziato dalla ricerca sociale ed educativa soprattutto negli ultimi quindici anni [Argentin, Barbetta e Manzella 2023; Bonizzoni, Romito e Cavallo 2014; Checchi 2010; Romito 2014].
Il processo di scelta innescato dal consiglio orientativo è ricostruito puntualmente da Checchi [2010] a conclusione di un’indagine che ha coinvolto 2.020 studenti lombardi iscritti al terzo anno della scuola secondaria del primo ciclo. Premesso che «la differenziazione dei percorsi tende a riprodurre la stratificazione sociale, dove i figli delle classi dirigenti frequentano i licei, i figli del ceto medio gli istituti tecnici e i figli delle classi inferiori la formazione professionale» [ibidem, 216], la ricerca illustra un meccanismo di scelta che prende le mosse dai consigli orientativi espressi dai e dalle docenti, «correlati non solo alle competenze possedute dai ragazzi ma anche alle loro origini socio-culturali» [ibidem, 235]. Questa prima decisione viene ulteriormente modificata «in senso di rafforzamento della componente familiare» nelle scelte di preiscrizione dei figli, su cui influiscono anche le scelte dei compagni di classe, che a loro volta «riflettono l’ambiente sociale in cui è collocata la scuola» [ibidem]. In questo modo, «il destino scolastico futuro degli alunni viene
{p. 96}progressivamente segnato dalle origini sociali, delle quali non portano alcuna responsabilità» [ibidem].
Note
[3] Si consideri che questi quattro obiettivi vanno ad aggiungersi alle competenze già definite dai relativi Pecup, alle competenze orientative e ai traguardi previsti dall’educazione civica (legge 92/2019).