Orientarsi nell'orientamento
DOI: 10.1401/9788815411648/c3
Secondo il disegno di riforma, il
sistema avrebbe dovuto essere articolato in due cicli, la scuola di base, della durata
di sette anni (da 6 a 13 anni d’età), e la scuola secondaria, della durata di cinque
anni (da 13 a 18), con l’obbligo scolastico prolungato al primo biennio della
secondaria. Quest’ultima avrebbe poi dovuto articolarsi nelle aree classico-umanistica,
¶{p. 86}scientifica, tecnica e tecnologica, artistica e musicale, ed
essere realizzata negli istituti di istruzione secondaria, che avrebbero assunto tutti
la denominazione di licei.
La riforma, rimasta inattuata e
definitivamente cancellata nel 2003, rispondeva a un principio di egualitarismo – la
stessa scuola per tutti per il più lungo periodo possibile, senza distinzioni tra licei,
tecnici e professionali – e perseguiva tra l’altro l’obiettivo esplicito di aprire i
nuovi licei al mondo esterno, alla cultura di massa, alle nuove tecnologie, al mondo
delle arti e a quello della produzione e del lavoro. In seguito, la struttura della
scuola è rimasta di fatto immutata nelle sue linee fondamentali, conservando un assetto
istituzionale che tende a favorire la stratificazione orizzontale (la moltiplicazione
degli indirizzi e la differenziazione crescente di aree disciplinari) e verticale (la
gerarchizzazione implicita in scuole di diverso livello: licei classici e scientifici,
altri licei, istituti tecnici e istituti professionali). Si tratta di un assetto che,
secondo l’efficace sintesi di Gianluca Argentin [2021], è alla base della «persistenza
delle diseguaglianze sociali e della loro riproduzione nel campo dell’istruzione», e che
ha tra i suoi effetti secondari la segregazione sociale e di genere fra i diversi
percorsi scolastici.
In questo contesto, non stupisce che
l’orientamento continui a essere percepito dall’opinione pubblica come uno strumento di
supporto alla scelta nei momenti di passaggio e, anche, come un rimedio alla dispersione
scolastica e a quella stessa segregazione che è originata dall’impianto del sistema
scolastico e universitario.
3. Ancora un’occasione mancata: la scuola delle competenze
Tra il 2007 e il 2012 – anche in
seguito alla Raccomandazione sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente
dell’Unione europea (2006/962/CE) e alla successiva Raccomandazione sulla costituzione
del Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente (2008/C 111/01) – la
scuola italiana inizia un percorso di razionalizzazione e revisione che interessa i
risultati di ¶{p. 87}apprendimento previsti dai vari ordini di scuola,
espressi in termini di competenze. Grazie a questa operazione di riscrittura dei profili
in uscita – da cui sono scaturiti i Pecup di licei, tecnici e professionali del 2010 e
le Indicazioni per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo
ciclo del 2012 – per ogni titolo di studio è diventato possibile avere
dei risultati di apprendimento riconducibili ai diversi livelli del Quadro europeo delle
qualificazioni (EQF). L’adozione delle competenze come comune denominatore dei diversi
profili avrebbe dovuto avere un impatto significativo sulla didattica e sulla
valutazione, come previsto almeno dalle Linee guida dei tecnici e
dei professionali e, anche, dai documenti di indirizzo elaborati per il primo ciclo.
Tuttavia, come evidenziato già dal sociologo Philippe Perrenoud [2011], gli approcci
centrati sulle competenze, che avrebbero dovuto privilegiare l’apprendimento della
mobilitazione dei saperi scolastici anziché la trasmissione di conoscenze, dando rilievo
alla didattica laboratoriale, all’apprendimento da esperienza e all’autovalutazione,
hanno rappresentato un «compromesso storico» di scarsa efficacia, e non hanno avuto un
impatto significativo sui sistemi scolastici e su docenti impreparati e scettici di
fronte al cambiamento richiesto dalla legislazione. La «rivoluzione delle competenze»,
scriveva Perrenoud già nel 1997 a conclusione di un’indagine sul mondo francofono, «si
realizzerà solo se, durante la formazione professionale, i futuri docenti ne faranno
personalmente esperienza». Per ora, constatava Perrenoud:
la maggior parte degli insegnanti sono stati formati da una scuola centrata sulle conoscenze. Ed essi si sentono a loro agio in tale modello. La loro cultura e il loro rapporto con il sapere sono stati plasmati in questo modo e un tale sistema con loro è riuscito benissimo, dal momento che hanno fatto lunghi studi e superato con successo gli esami.[…] Si può vivere abbastanza bene in un simile etnocentrismo. A numerosi insegnanti l’approccio per competenze «non dice nulla», perché né la loro formazione professionale né il loro modo di fare lezione ve li predispone. Semmai hanno l’impressione di partecipare al pettegolezzo pedagogico, a un’animazione socioculturale buona per i centri d’intrattenimento o, tutt’al più, che ¶{p. 88}ha a che fare con i piani «bassi» dell’edificio scolastico. Finché resteranno in questa logica, l’identità dei docenti sarà assicurata, poiché essi si limiteranno a insegnare dei saperi e a valutarli. Fino a quando non sapranno veramente organizzare e valutare i procedimenti per progetto e le situazioni-problema, i ministeri proporranno loro dei documenti intelligenti che resteranno senza conseguenza, poiché i destinatari non hanno seguito lo stesso percorso pedagogico e teorico e non condividono l’idea di apprendimento che i nuovi programmi sottendono. Attualmente i documenti ministeriali sono avanzati rispetto alla concezione dominante dei programmi in seno al corpo docente [Perrenoud 1997; trad. it. 2010, 142-143].
In assenza di questa «rivoluzione»,
il sistema di istruzione è andato comunque via via adeguandosi alle direttive europee,
dando vita a un sistema integrato di formazione, istruzione e orientamento che dovrebbe
tra l’altro facilitare un accesso personalizzato ai percorsi di istruzione e formazione
attraverso il riconoscimento e la convalida dell’apprendimento non formale e informale,
come previsto dalla legge 92 del 2012 e poi dalle Linee guida per l’istruzione
degli adulti del 2014. Nell’istruzione degli adulti, infatti, le attività
di accoglienza e orientamento sono funzionali all’elaborazione del patto formativo
individuale tra scuola e studente e dovrebbero consentire, in linea con i principi
enunciati nella Raccomandazione del Consiglio del 20 dicembre 2012 sulla
convalida dell’apprendimento non formale ed informale, un percorso di
riconoscimento dei crediti articolato in tre fasi: identificazione, valutazione e
attestazione delle competenze. In estrema sintesi, non solo chi insegna in questo
settore è espressamente invitato a tener conto degli apprendimenti acquisiti in contesti
informali ricorrendo a strumenti adeguati alla loro rilevazione e validazione, ma
soprattutto – come già avveniva nella formazione professionale nei diversi contesti
regionali e come poi si dovrà fare anche negli istituti professionali a partire dal 2019
– ogni consiglio di classe è chiamato a progettare i percorsi di studio sotto forma di
unità di apprendimento e a sottoscrivere con ogni studente un patto formativo
individuale, garantendo così, almeno in linea teorica, un continuo monitoraggio del
rapporto ¶{p. 89}tra insegnamento e apprendimento, tra servizio erogato
e crescita personale del soggetto.
4. L’orientamento al tempo delle «Linee guida»
In questo stesso periodo, a partire
dal 2008, riprende l’iniziativa ministeriale sull’orientamento, che trova un primo esito
nelle Linee guida in materia di orientamento lungo tutto l’arco della vita
(c.m. 43/2009), elaborate da un gruppo tecnico coordinato da Speranzina
Ferraro. È significativo che questo documento, che adotta un’idea processuale e
formativa di orientamento – definito espressamente come un diritto della persona e come
bene individuale e collettivo – sia di poco successivo a un decreto legislativo che
disciplina «la realizzazione dei percorsi di orientamento finalizzati alla scelta dei
corsi di laurea universitari e dei corsi dell’alta formazione artistica, musicale e
coreutica, la valorizzazione dei risultati scolastici degli studenti ai fini
dell’ammissione ai corsi di laurea» (d.p.r. 21/2008) e che rivela dunque un’idea
radicalmente diversa di orientamento, inteso come supporto alla transizione e
finalizzato direttamente alla scelta.
Tuttavia, nonostante le
contraddizioni e sia pure in presenza di un sistema di istruzione che rimane
gerarchicamente ordinato e segregazionista, il discorso sull’orientamento si svolge su
livelli più che adeguati rispetto alla contemporanea elaborazione scientifica – la
lezione di Maria Luisa Pombeni rimane un punto di riferimento ineludibile – e rispetto
alle indicazioni provenienti dall’Unione europea.
Uno dei caratteri più originali, che
potremmo considerare l’elemento distintivo di un’ipotetica via italiana all’orientamento
scolastico, è la didattica orientativa (qui sovrapposta all’orientamento formativo),
ovvero una pratica di insegnamento riservata ai docenti curricolari e volta allo
sviluppo delle competenze orientative di base e nella «educazione all’autorientamento»
(si rinvia al cap. 3).
Meno innovativa, e soprattutto molto
rischiosa sul piano culturale e educativo, è l’associazione che le Linee guida
del 2009 operano tra dispersione e insuccesso scolastico e
¶{p. 90}orientamento, come se quest’ultimo fosse un rimedio, un tampone
o una soluzione a un problema tra i più complessi e radicati della scuola italiana, che
dovrebbe essere affrontato con riforme di sistema e investimenti cospicui.
Da questo momento, comunque, è
chiaro l’intento di inserire a pieno titolo le istituzioni scolastiche nel costruendo
sistema nazionale, il cui fine dichiarato è integrare politiche dell’istruzione e della
formazione e politiche del lavoro in un’ottica di orientamento lungo tutto il ciclo di
vita. Le Linee guida per l’orientamento permanente del 2014
confermano il ruolo fondamentale della scuola nel sistema integrato, chiariscono il
rapporto tra didattica orientativa e attività di accompagnamento e di consulenza
orientativa, ribadiscono il nesso tra lotta alla dispersione e all’insuccesso formativo
degli studenti e l’orientamento, di fatto contribuendo ad alimentare l’idea che
l’orientamento, come già la didattica per competenze, sia un’attività utile a rimediare
ad alcuni malfunzionamenti, da praticare nei contesti più difficili e con i soggetti a
rischio, e non – come affermato nelle premesse – un diritto di ogni studente e uno
strumento di empowerment al servizio di tutte e di tutti.
5. Orientamento, didattica per competenze e valutazione formativa
Uno dei punti più critici della
normativa e dei documenti di indirizzo elaborati negli ultimi quindici anni è la
separazione tra a) le indicazioni e le linee guida per la
progettazione e l’attuazione della didattica, b) i documenti
relativi alla valutazione e c) quelli sull’orientamento, che
vengono elaborati in sedi e momenti diversi da commissioni che non sempre condividono
gli stessi principi né perseguono le medesime finalità. Oltre a generare confusione in
chi deve attuare le disposizioni normative, questa congerie di testi dà l’idea che
insegnamento, valutazione e orientamento siano attività tra loro separate, da affidare
di volta in volta a specialisti dell’una o dell’altra e su cui ogni docente deve
specializzarsi ricorrendo a corsi di formazione ad hoc e a
¶{p. 91}progetti specifici sulla didattica, sulla valutazione o,
appunto, sull’orientamento.
Note