Giulia Guglielmini, Federico Batini (a cura di)
Orientarsi nell'orientamento
DOI: 10.1401/9788815411648/c3
Secondo il disegno di riforma, il sistema avrebbe dovuto essere articolato in due cicli, la scuola di base, della durata di sette anni (da 6 a 13 anni d’età), e la scuola secondaria, della durata di cinque anni (da 13 a 18), con l’obbligo scolastico prolungato al primo biennio della secondaria. Quest’ultima avrebbe poi dovuto articolarsi nelle aree classico-umanistica,
{p. 86}scientifica, tecnica e tecnologica, artistica e musicale, ed essere realizzata negli istituti di istruzione secondaria, che avrebbero assunto tutti la denominazione di licei.
La riforma, rimasta inattuata e definitivamente cancellata nel 2003, rispondeva a un principio di egualitarismo – la stessa scuola per tutti per il più lungo periodo possibile, senza distinzioni tra licei, tecnici e professionali – e perseguiva tra l’altro l’obiettivo esplicito di aprire i nuovi licei al mondo esterno, alla cultura di massa, alle nuove tecnologie, al mondo delle arti e a quello della produzione e del lavoro. In seguito, la struttura della scuola è rimasta di fatto immutata nelle sue linee fondamentali, conservando un assetto istituzionale che tende a favorire la stratificazione orizzontale (la moltiplicazione degli indirizzi e la differenziazione crescente di aree disciplinari) e verticale (la gerarchizzazione implicita in scuole di diverso livello: licei classici e scientifici, altri licei, istituti tecnici e istituti professionali). Si tratta di un assetto che, secondo l’efficace sintesi di Gianluca Argentin [2021], è alla base della «persistenza delle diseguaglianze sociali e della loro riproduzione nel campo dell’istruzione», e che ha tra i suoi effetti secondari la segregazione sociale e di genere fra i diversi percorsi scolastici.
In questo contesto, non stupisce che l’orientamento continui a essere percepito dall’opinione pubblica come uno strumento di supporto alla scelta nei momenti di passaggio e, anche, come un rimedio alla dispersione scolastica e a quella stessa segregazione che è originata dall’impianto del sistema scolastico e universitario.

3. Ancora un’occasione mancata: la scuola delle competenze

Tra il 2007 e il 2012 – anche in seguito alla Raccomandazione sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente dell’Unione europea (2006/962/CE) e alla successiva Raccomandazione sulla costituzione del Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente (2008/C 111/01) – la scuola italiana inizia un percorso di razionalizzazione e revisione che interessa i risultati di {p. 87}apprendimento previsti dai vari ordini di scuola, espressi in termini di competenze. Grazie a questa operazione di riscrittura dei profili in uscita – da cui sono scaturiti i Pecup di licei, tecnici e professionali del 2010 e le Indicazioni per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo del 2012 – per ogni titolo di studio è diventato possibile avere dei risultati di apprendimento riconducibili ai diversi livelli del Quadro europeo delle qualificazioni (EQF). L’adozione delle competenze come comune denominatore dei diversi profili avrebbe dovuto avere un impatto significativo sulla didattica e sulla valutazione, come previsto almeno dalle Linee guida dei tecnici e dei professionali e, anche, dai documenti di indirizzo elaborati per il primo ciclo. Tuttavia, come evidenziato già dal sociologo Philippe Perrenoud [2011], gli approcci centrati sulle competenze, che avrebbero dovuto privilegiare l’apprendimento della mobilitazione dei saperi scolastici anziché la trasmissione di conoscenze, dando rilievo alla didattica laboratoriale, all’apprendimento da esperienza e all’autovalutazione, hanno rappresentato un «compromesso storico» di scarsa efficacia, e non hanno avuto un impatto significativo sui sistemi scolastici e su docenti impreparati e scettici di fronte al cambiamento richiesto dalla legislazione. La «rivoluzione delle competenze», scriveva Perrenoud già nel 1997 a conclusione di un’indagine sul mondo francofono, «si realizzerà solo se, durante la formazione professionale, i futuri docenti ne faranno personalmente esperienza». Per ora, constatava Perrenoud:
la maggior parte degli insegnanti sono stati formati da una scuola centrata sulle conoscenze. Ed essi si sentono a loro agio in tale modello. La loro cultura e il loro rapporto con il sapere sono stati plasmati in questo modo e un tale sistema con loro è riuscito benissimo, dal momento che hanno fatto lunghi studi e superato con successo gli esami.
[…] Si può vivere abbastanza bene in un simile etnocentrismo. A numerosi insegnanti l’approccio per competenze «non dice nulla», perché né la loro formazione professionale né il loro modo di fare lezione ve li predispone. Semmai hanno l’impressione di partecipare al pettegolezzo pedagogico, a un’animazione socioculturale buona per i centri d’intrattenimento o, tutt’al più, che {p. 88}ha a che fare con i piani «bassi» dell’edificio scolastico. Finché resteranno in questa logica, l’identità dei docenti sarà assicurata, poiché essi si limiteranno a insegnare dei saperi e a valutarli. Fino a quando non sapranno veramente organizzare e valutare i procedimenti per progetto e le situazioni-problema, i ministeri proporranno loro dei documenti intelligenti che resteranno senza conseguenza, poiché i destinatari non hanno seguito lo stesso percorso pedagogico e teorico e non condividono l’idea di apprendimento che i nuovi programmi sottendono. Attualmente i documenti ministeriali sono avanzati rispetto alla concezione dominante dei programmi in seno al corpo docente [Perrenoud 1997; trad. it. 2010, 142-143].
In assenza di questa «rivoluzione», il sistema di istruzione è andato comunque via via adeguandosi alle direttive europee, dando vita a un sistema integrato di formazione, istruzione e orientamento che dovrebbe tra l’altro facilitare un accesso personalizzato ai percorsi di istruzione e formazione attraverso il riconoscimento e la convalida dell’apprendimento non formale e informale, come previsto dalla legge 92 del 2012 e poi dalle Linee guida per l’istruzione degli adulti del 2014. Nell’istruzione degli adulti, infatti, le attività di accoglienza e orientamento sono funzionali all’elaborazione del patto formativo individuale tra scuola e studente e dovrebbero consentire, in linea con i principi enunciati nella Raccomandazione del Consiglio del 20 dicembre 2012 sulla convalida dell’apprendimento non formale ed informale, un percorso di riconoscimento dei crediti articolato in tre fasi: identificazione, valutazione e attestazione delle competenze. In estrema sintesi, non solo chi insegna in questo settore è espressamente invitato a tener conto degli apprendimenti acquisiti in contesti informali ricorrendo a strumenti adeguati alla loro rilevazione e validazione, ma soprattutto – come già avveniva nella formazione professionale nei diversi contesti regionali e come poi si dovrà fare anche negli istituti professionali a partire dal 2019 – ogni consiglio di classe è chiamato a progettare i percorsi di studio sotto forma di unità di apprendimento e a sottoscrivere con ogni studente un patto formativo individuale, garantendo così, almeno in linea teorica, un continuo monitoraggio del rapporto {p. 89}tra insegnamento e apprendimento, tra servizio erogato e crescita personale del soggetto.

4. L’orientamento al tempo delle «Linee guida»

In questo stesso periodo, a partire dal 2008, riprende l’iniziativa ministeriale sull’orientamento, che trova un primo esito nelle Linee guida in materia di orientamento lungo tutto l’arco della vita (c.m. 43/2009), elaborate da un gruppo tecnico coordinato da Speranzina Ferraro. È significativo che questo documento, che adotta un’idea processuale e formativa di orientamento – definito espressamente come un diritto della persona e come bene individuale e collettivo – sia di poco successivo a un decreto legislativo che disciplina «la realizzazione dei percorsi di orientamento finalizzati alla scelta dei corsi di laurea universitari e dei corsi dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica, la valorizzazione dei risultati scolastici degli studenti ai fini dell’ammissione ai corsi di laurea» (d.p.r. 21/2008) e che rivela dunque un’idea radicalmente diversa di orientamento, inteso come supporto alla transizione e finalizzato direttamente alla scelta.
Tuttavia, nonostante le contraddizioni e sia pure in presenza di un sistema di istruzione che rimane gerarchicamente ordinato e segregazionista, il discorso sull’orientamento si svolge su livelli più che adeguati rispetto alla contemporanea elaborazione scientifica – la lezione di Maria Luisa Pombeni rimane un punto di riferimento ineludibile – e rispetto alle indicazioni provenienti dall’Unione europea.
Uno dei caratteri più originali, che potremmo considerare l’elemento distintivo di un’ipotetica via italiana all’orientamento scolastico, è la didattica orientativa (qui sovrapposta all’orientamento formativo), ovvero una pratica di insegnamento riservata ai docenti curricolari e volta allo sviluppo delle competenze orientative di base e nella «educazione all’autorientamento» (si rinvia al cap. 3).
Meno innovativa, e soprattutto molto rischiosa sul piano culturale e educativo, è l’associazione che le Linee guida del 2009 operano tra dispersione e insuccesso scolastico e {p. 90}orientamento, come se quest’ultimo fosse un rimedio, un tampone o una soluzione a un problema tra i più complessi e radicati della scuola italiana, che dovrebbe essere affrontato con riforme di sistema e investimenti cospicui.
Da questo momento, comunque, è chiaro l’intento di inserire a pieno titolo le istituzioni scolastiche nel costruendo sistema nazionale, il cui fine dichiarato è integrare politiche dell’istruzione e della formazione e politiche del lavoro in un’ottica di orientamento lungo tutto il ciclo di vita. Le Linee guida per l’orientamento permanente del 2014 confermano il ruolo fondamentale della scuola nel sistema integrato, chiariscono il rapporto tra didattica orientativa e attività di accompagnamento e di consulenza orientativa, ribadiscono il nesso tra lotta alla dispersione e all’insuccesso formativo degli studenti e l’orientamento, di fatto contribuendo ad alimentare l’idea che l’orientamento, come già la didattica per competenze, sia un’attività utile a rimediare ad alcuni malfunzionamenti, da praticare nei contesti più difficili e con i soggetti a rischio, e non – come affermato nelle premesse – un diritto di ogni studente e uno strumento di empowerment al servizio di tutte e di tutti.

5. Orientamento, didattica per competenze e valutazione formativa

Uno dei punti più critici della normativa e dei documenti di indirizzo elaborati negli ultimi quindici anni è la separazione tra a) le indicazioni e le linee guida per la progettazione e l’attuazione della didattica, b) i documenti relativi alla valutazione e c) quelli sull’orientamento, che vengono elaborati in sedi e momenti diversi da commissioni che non sempre condividono gli stessi principi né perseguono le medesime finalità. Oltre a generare confusione in chi deve attuare le disposizioni normative, questa congerie di testi dà l’idea che insegnamento, valutazione e orientamento siano attività tra loro separate, da affidare di volta in volta a specialisti dell’una o dell’altra e su cui ogni docente deve specializzarsi ricorrendo a corsi di formazione ad hoc e a
{p. 91}progetti specifici sulla didattica, sulla valutazione o, appunto, sull’orientamento.
Note