Marina Calloni (a cura di)
Pandemocrazia
DOI: 10.1401/9788815411297/c5
The fury of the virus illustrates the folly of war. […] It is time to put armed conflict on lockdown and focus together on the true fight of our lives […] We have declared war on nature,
{p. 110}and nature is striking back. Science is succeeding – but solidarity is failing [Guterres 2020].
Tuttavia, l’auspicio di Guterres per una cooperazione internazionale si è rivelato ben presto inascoltato, anche per via dell’insorgere di una «vera guerra armata» in Ucraina.
Il virus viene antropomorfizzato, «umanizzando» la natura come responsabile di un’azione letale contro l’uomo. La guerra di aggressione è un’azione militare di tipo volontario, da cui le persone possono in qualche modo «proteggersi». Il virus non è guidato dal libero arbitrio e non garantisce a nessuno la salvezza. Non vi è alcun luogo della prossimità dove ci si possa sottrarre al contagio [Giordano 2020]. Vi è una «rieducazione» al senso del pericolo e del rischio, spesso rimosso in una società dalle apparenti certezze. Nessuno è immune. La paura è reale. Non si esperisce solo la vulnerabilità di massa [Botti 2022], bensì la fragilità umana. Bisogna proteggersi, in una società non più simbolicamente coesa rispetto a rappresentazioni e narrazioni condivise del pericolo.
Nei suoi studi antropologici, Mary Douglas [1996; 2014] sviluppa una teoria del pericolo sulla base di un’analisi comparata fra religioni e sistemi simbolici, marcando la trasmissione transgenerazionale di tale conoscenza percettiva, grazie al rimando alla memoria collettiva. Come sarà allora possibile applicare l’analisi di Douglas a una società post-secolare avente strutture sociali e riferimenti simbolici differenti? Sarà allora ancora possibile «razionalizzare» collettivamente il pericolo mediante una memoria condivisa che non è più tale? Di fatto, la rimozione delle minacce e del dolore rappresenta quegli «stati di diniego» [Cohen 2002] che permettono la sopravvivenza umana e garantiscono lo svolgimento della vita quotidiana nella «normalità».
Eppure, viviamo in una società del rischio conclamato, come afferma Beck [2013] in Risikogesellschaft. Ma in tal caso, l’autore si riferiva al pericolo atomico rappresentato da Chernobyl, ovvero a un incidente causato da un’azione umana. Ma anche la pandemia rivela una mancata «valutazione del rischio» e una carenza di protocolli a fronte di {p. 111}possibili pericoli, per altro annunciati. Nella percezione comune si è invece trattato di qualcosa di improvviso, che ha mutato la relazione tra paura (reazione contro una malattia sconosciuta), pericolo (senso di minaccia rispetto a un evento imprevisto) e rischio (mancata previsione di un evento traumatico). La metafora della guerra rimanda di fatto a squilibri creati dagli umani con il mondo naturale e a un rimosso: l’impossibilità di governare completamente la natura secondo un atteggiamento razionalizzante e strumentale [Horkheimer e Adorno 2010]. E mentre l’emergenza pandemica viene dichiarata finita, il Covid-19 continua a mostrarsi invincibile.

4. Dialettica degli squilibri e trasformazione delle conoscenze

Il Coronavirus è stato raffigurato come un nemico senza corpo da cui difendersi grazie a mascherine e vaccini. Accanto a linguaggi moderni vengono riattualizzate immagini distopiche di pestilenze del passato, che avevano denotato cesure epocali a livello culturale, economico e politico e non solo sanitario [Cosmacini 2005], inaugurando nuove epoche «civilizzanti». La «fenomenologia virale» diventa ora indice di profonde trasformazioni in corso, nel mutamento di consolidate visioni del mondo e di tradizionali paradigmi scientifici, cosicché nella realtà duplicata del bi-mondo viene messa addirittura in discussione la verità fattuale dell’esistenza del virus. Rispetto ai miti del passato, che rimandavano alla punizione divina, ora le pestilenze disvelano colpe umane. Se riandiamo alla nostra formazione scolastica, possiamo ricordare come le narrazioni mitologiche fossero connesse a fatti storici, dove l’ira divina assumeva le sembianze di insetti, ratti, pollame, suini, bovini, ovini e nel nostro caso di mammiferi come il pipistrello o il pangolino.
L’incipit epico dell’Iliade ricorda la peste, raffigurata attraverso le saette di Apollo. Dopo la presa di Troia, la storia dell’Occidente assume una diversa conformazione geo-politica. Nella storia romana la peste accompagna momenti di decadenza e transizione, come nel caso della pestilenza {p. 112}(541-542) narrata da Procopio di Cesarea. Anche la faticosa uscita dal Medioevo è raccontata attraverso la «mortifera pestilenza», esplosa nel 1348 a Firenze «ogn’altra italica bellissima», come ricorda Boccaccio nel Decameron. Antichi richiami mitologici e riferimenti biblici alla punizione divina si uniscono alla riflessione sulle iniquità umane e alla datità di trasformazioni geopolitiche in corso in un mondo alle soglie del Rinascimento. E ancora, la peste accompagna la modernità, come narrata da Manzoni ne I Promessi Sposi, come quel «mal di contagio» che nel 1631 colpì l’ex ducato di Milano, stremato da anni di carestia, al termine della guerra fra Spagna e Francia per il controllo del Nord Italia. Pestilenze, povertà e mutamento dell’ordine mondiale si intrecciano con nuovi assetti socali ed economici determinati dallo sfruttamento delle terre oltreoceano appena scoperte. E anche nel Novecento (come accadde per l’influenza spagnola nel 1918), epidemie, guerra, miseria si inanellano con le trasformazioni geopolitiche del vecchio mondo.

5. Tensioni emergenziali tra scienza, società, politica e cittadinanza

Come per le antiche pestilenze, il Coronavirus è divenuto un magnete che ha attratto e accelerato crisi in potenza, determinando radicali cambiamenti nel dibattito pubblico dovuti soprattutto all’inedito uso di Internet. Le diversificate narrazioni sulla natura del virus sono da attribuirsi al carattere emergenziale assunto da un fenomeno prima sconosciuto, tale da scombinare saperi e relazioni consolidate.
La pandemia è stata definita come un’emergenza (dal latino ex-mergo) che ha portato a galla solo una parte minima di ciò che ancora rimane sommerso. Più che come «nemico», il Coronavirus può essere rappresentato con un iceberg, inteso come un pericolo provocato da un contatto inatteso, certamente possibile e forse evitabile. La metafora dell’iceberg indica l’instabile equilibrio esistente fra sistemi ambientali e interventi antropici, precariamente interconnessi. Emergenza è dunque la reazione repentina {p. 113}a rischi probabili, che però appaiono come eventi improvvisi che rompono i ritmi della normalità e creano cesure rispetto al passato in un cambio inatteso di paradigma e di visioni del mondo. L’esperienza del Covid-19 indica la necessità di una diversa «politica delle emergenze globali prevedibili».
La sindemia è stata piuttosto narrata/interpretata/dilatata nello spazio immenso di Internet come un evento imprevedibile, tanto da segnare iati nel rapporto tra le diverse «sfere di valore» e gli ambiti dell’agire consociato, quali la scienza, il discorso pubblico e la politica. Durante la pandemia è certamente emersa una concezione realistica della scienza quale processo conoscitivo non identificabile con l’esattezza apodittica, serialmente dimostrabile. La scienza è senza dubbio un processo di apprendimento, epistemologico ed empirico, in continuo divenire e soggetto a corroborazioni [Popper 2009]. La validità consiste piuttosto nella possibile falsificazione dell’assunto. Ciò è tanto più vero, quanto più la «scienza» è stata riferita a una patologia ignota, come il Covid-19, di cui non si conoscevano la natura, l’entità e la cura.
L’insicura narrazione del virus ha così contribuito a mutare la fiducia nella scienza da parte dei cittadini, disorientati dal variegato dibattito pubblico dove si scontravano posizioni spesso opposte tra scienziati dai diversi expertise, quali virologi, infettivologi, veterinari, genetisti, pneumologi e così via. I diversi punti di vista degli scienziati venivano quindi spesso recepiti dal pubblico alla stregua di «opinioni» personali, secondo la nuova logica dell’infotainment. Interlocutori dalle comprovate conoscenze scientifiche erano inoltre posti sullo stesso piano di «opinionisti» dai flebili pareri, le cui tesi provocatorie diventavano fonte di audience. Se l’intento comunicativo consisteva nel presentare posizioni diverse per meglio informare il pubblico, le conseguenze hanno spesso condotto a forme di resistenza contro la somministrazione di vaccini sia per via della confusione argomentativa, sia per l’interesse di scegliere una versione conforme alle proprie propensioni e paure. Commentatori «fai da te» (soprattutto via social media) rassicuravano il {p. 114}proprio pubblico secondo un circolo vizioso e autopoietico di certezze, prive di contraddittorio. Si autolegittimavano come lotta contro il potere e il sapere delle élite che sottraevano verità e libertà al popolo a proposito del virus.
Nonostante il problema fosse comune, differenti sono state anche le reazioni della politica istituzionale nei confronti dei cittadini e della scienza. Ad esempio, il governo italiano aveva da subito deciso di affidarsi alla consulenza di scienziati in collaborazione con l’Organizzazione mondiale della sanità e di fornire quotidianamente al pubblico il numero di morti e infetti per una questione di trasparenza. Negli Stati Uniti, invece, il presidente Trump aveva utilizzato la tribuna politica come un set da reality show, facendo battute cospirative e sostenendo affermazioni non corrispondenti a realtà effettuali, che contraddicevano il parere degli esperti. «Si tratta di una bufala. Non c’è nessuna pandemia», come ebbe a sostenere Trump in Missouri il 3 ottobre 2020.
Con la pandemia, anche l’idea di protezione dei confini ha assunto un diverso significato: da difesa dalla presunta invasione dei migranti si è trasformata in una necessaria protezione sanitaria interna. Ma gli sbarramenti hanno reso evidente che siamo tutti interdipendenti: il morbo non è arginabile a fronte di barriere fisiche. I lockdown nelle città e negli Stati hanno altresì messo in luce tensioni emergenti tra principi e priorità, come nel caso del dibattito su libertà individuale e su sicurezza/salute collettiva, scontrandosi con le continue contraddizioni sul «tutto chiuso» e sul «tutto aperto». Umoralità retorica e ricerca di un instabile consenso hanno segnato l’effetto ondivago che la pandemia ha avuto sui partiti, svuotati di orientamento e in cerca di una rilegittimazione politica, difficile da trovare a causa delle precarie soluzioni, allora a disposizione. Il malcontento e il decremento di fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni politiche e delle élite al potere, che hanno caratterizzato i dibattiti populisti in anni recenti, si sono così trasformati in età pandemica in una protesta sfaccettata contro i governanti, da una parte come lotta contro il potere costituito, mentre dall’altra come richiesta per una maggiore protezione socioeconomico-sanitaria da parte dello Stato.
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