Pandemocrazia
DOI: 10.1401/9788815411297/c3
Ma accanto alle buone pratiche hanno
convissuto sia occasionali fake news sia più diffusi, e in certa
misura sottovalutati, casi di informazione impropria, fuorviante e ingannevole.
Emblematica è stata una certa tendenza a privilegiare la comunicazione acritica di
conteggi, cioè numeri assoluti, ponendo a pari livello dati di realtà con
stime, che viceversa sono approssimazioni basate su dati
parziali e
¶{p. 66}dunque incerti. Sovente, sulla base di numeri
assoluti, sono stati suggeriti confronti svianti fra regioni di dimensioni e densità di
popolazione non commensurabili (il «caso Lombardia») e in assenza di definizioni
standardizzate (morti «per» e «con» Covid). Se ad esempio, in un dato giorno, il
conteggio dei «ricoveri in terapia intensiva» è misura informativa della capacità del
sistema sanitario nazionale di reggere l’impatto della pandemia, viceversa il numero dei
cosiddetti «nuovi contagi» è una sottostima grossolana dell’incidenza dell’infezione,
influenzata da scelte personali, comportamenti soggettivi e regole altamente variabili
nel tempo e sul territorio italiano.
4. Comunicare correttamente dati e statistiche. Perché è così importante?
Sin dalle prime fasi dell’infodemia
associata al diffondersi dell’infezione da Sars-CoV-2, le istituzioni di controllo
nazionali ed europee si sono attivate con svariate misure di prevenzione contro
fake news e misinformazione. Ne sono esempi la webpage
Covid19 – Per gli utenti sul sito di Agcom e le Linee guida
Eaca [European Association of Communications Agencies 2021] in collaborazione con la
Commissione europea [European Commission 2021a; 2021b]. Emerge, cioè, l’esigenza di
coniugare competenze comunicative con conoscenze e capacità statistiche. Da un lato la
comunità scientifica statistica deve migliorare o acquisire competenze comunicative
[2]
: non solo fornire informazione quantitativa corretta e nella misura
corretta, minimale per la comprensione del fenomeno, ma altresì «comunicare» al pubblico
generale, coinvolgere e interessare [Alba 2020, 12-13]. Dall’altro lato, giornalisti e
professionisti della comunicazione devono incrementare o acquisire competenze
statistiche, mettersi al riparo da inconsapevoli distorsioni e
¶{p. 67}dalle trappole quantitative dell’infodemia [Ippolito 2021].
Anche grazie alla pandemia, molta strada è stata fatta, ma lunga è la strada ancora da
percorrere, come ci ricorda (fra i tanti) la biostatistica ed epidemiologa americana
Xihong Lin, neoeletta alla prestigiosa National Academy of Science, in un articolo
divulgativo del settembre 2022 sul magazine della società americana
di statistica: «If biostatisticians and statisticians want to make an impact in the
world, we must learn how to effectively communicate with the policymakers and the
general public on scientific findings, build public trust, and engage them in
implementing these recommendations» [Gilliam 2022].
5. Dall’infodemia alla misinformazione, alla disinformazione: innocui effetti collaterali o minaccia alla democrazia?
Definizioni rigorose di termini che
esprimono diverse declinazioni di informazione impropria possono trarsi ad esempio da un
rapporto del 2017 diffuso dal Consiglio d’Europa dal titolo significativo
Information Disorder [Wardle e Derakhshan 2017]. Tre sono i
principali «disturbi» dell’informazione: i) la misinformazione,
intesa come diffusione in-intenzionale di informazioni ambigue, imprecise, ingannevoli o
false; ii) la disinformazione, che viceversa attiene
all’intenzionalità della scorretta informazione; e infine iii) la
malinformazione, cioè la diffusione di informazione anche vera ma confidenziale,
rivelata e diffusa illecitamente a scopo manipolatorio e malevolo. Durante l’emergenza
sanitaria, il Who si è spesso rivolto al pubblico generale e ai decisori politici
sottolineando le minacce insite nella valanga di dati e statistiche da fonti non sempre
attendibili o veicolate in modo scorretto, e tutt’oggi continua il suo impegno su questo
fronte [Who 2022]. L’infodemia da Covid-19 ha favorito mi-sinformazione e
disinformazione, con il rischio di ulteriore danno alla salute dei cittadini. I numerosi
esempi vanno dal suggerimento trumpiano delle iniezioni di disinfettante, ai falsi miti
dei legami fra Covid-19 e antibiotici, alcol, aglio [Who 2020b] e fra uso delle
mascherine e aumento del ¶{p. 68}rischio di infezione [Howard 2020].
Connesse all’infodemia sono anche strumentalizzazioni politiche tese a manipolare
l’opinione pubblica, suscitando diffidenza verso le autorità sanitare: ad esempio la
disputa Trump-Fauci nel luglio 2020 [Liptak e Valencia 2020] e, in Italia, il tentativo
di collegare, in una relazione causa-effetto, la «riapertura» dei porti a migranti e
rifugiati, da parte del cosiddetto governo Conte II, con l’impennarsi del numero di casi
positivi confermati che portarono al primo lungo lockdown dapprima in Lombardia e a
breve in tutto il Paese [Time 2020].
Il termine
disinfodemic è utilizzato dall’agenzia Onu per l’educazione, la
scienza e la cultura (Unesco) con riferimento a campagne di disinformazione connesse al
Covid-19 e conseguenti rischi per le democrazie e i diritti umani [Unesco 2020]. Nel
rapporto stilato nell’ottobre 2020 dalla Royal Society of London for Improving Natural
Knowledge congiuntamente alla British Academy for the humanities and the social sciences
in UK si afferma: «un’infodemia con disinformazione che sovente va a riempire un vuoto
di conoscenza caratterizzato da: sfiducia nella scienza e uso selettivo dell’autorità
degli esperti, sfiducia nelle aziende farmaceutiche e nel governo […], sfruttamento
dell’emotività e dell’effetto echo chambers» – quest’ultimo basato
sul rafforzamento delle credenze e delle opinioni di senso comune col proposito di
sfavorire la considerazione di idee alternative e il pensiero critico [The Royal Society
2020, 1]. Il Code of Practice on Disinformation emanato nel 2022
dalla Commissione europea [European Commission 2022] riprende e rafforza le precedenti
linee guida dell’European Democracy Action Plan [European
Commission 2020, 3] che vedono il «contrasto alla disinformazione» come uno dei tre
pilastri «to empower citizens and build more resilient democracies across the
EU». Studi promossi dal Who sulla relazione tra l’infodemia da
Covid-19 e misinformazione/disinformazione [Calleja et al. 2021;
Tangcharoensathien et al. 2020] suggeriscono come queste ultime
possano minare alla base i nostri sistemi democratici e invitano ad azioni di
prevenzione coordinate e sistematiche fra i diversi settori della società civile e i
governi.¶{p. 69}
L’imperativo di combattere
l’infodemia, oltre alla lotta alla pandemia, e in modo particolare sui social media, ha
motivato l’introduzione di specifici indicatori statistici, ad esempio
l’Infodemic Risk e il Dynamic Infodemic Risk
Index aggiornati e diffusi a livello globale [Covid-19 Infodemic
Observatory]. Il primo indica la probabilità che un utente di social media riceva
input digitali (via Sms, Facebook, WhatsApp, Messenger, ecc.)
che lo indirizzano verso fonti di corona-dati e di informazioni relative alla pandemia
potenzialmente non attendibili; il secondo indica la probabilità che lo stesso utente
condivida o commenti, e dunque faccia circolare, questo tipo di informazioni.
Se dati e numeri hanno giocato (e
giocano) un ruolo preponderante nella comunicazione della pandemia, va ricordato che
«Numbers are genuinely open for instrumentalization» [Prutsch 2020, 1040]. Mancando di
un’oggettività intrinseca, i dati, e in special modo i numeri, prestano il fianco alla
strumentalizzazione, ad essere ab-usati per specifici obiettivi politici,
decontestualizzati, utilizzati in modo selettivo affinché mostrino (solo) ciò che si
desidera mostrare. Un noto adagio di «mitologia statistica», attribuito al giornalista e
scrittore statunitense Gregg Easterbrook, recita: «Torture numbers, and they will
confess to anything». L’uso appropriato di dati e statistiche e una
corretta informazione quantitativa possono dunque intendersi «a difesa» dei sistemi
democratici.
6. Pensiero statistico: competenza di cittadinanza democratica
Durante il suo discorso
presidenziale all’American Statistical Society nel 1951, Samuel S. Wilks afferma:
«Statistical thinking will one day be as necessary for efficient citizenship as the
ability to read and write» [Wilks 1951, 5]. Si tratta in verità di una parafrasi
sintetica di un passaggio dal romanzo Mankind in the Making
pubblicato nel 1903 da H.G. Wells, considerato il padre della fantascienza:
The time may not be very remote when it will be understood that for complete initiation as an efficient citizen of one of the ¶{p. 70}new great complex worldwide States that are now developing, it is as necessary to be able to compute, to think in averages and maxima and minima, as it is now to be able to read and write [Wells 1903, 204].
L’infodemia da Covid-19 ci insegna
che il «pensiero statistico» è un’esigenza reale, non fantascienza, e una vera e propria
competenza di cittadinanza democratica. Discussione e riflessione mediatiche sui numeri
della pandemia in Italia si sono caratterizzate per la vastità e varietà di voci, e per
una certa mancanza di regole e di standard. Riguardo alla comunicazione istituzionale, i
bollettini quotidiani della protezione civile congiuntamente all’Istituto Superiore di
Sanità durante la prima ondata della pandemia, sono stati successivamente sostituiti
prevalentemente da politici, dal ministro della Salute e i suoi portavoce. L’enorme
dibattito mediatico ha visto il contributo di una batteria di figure, definite
genericamente «scienziati»
[3]
ma con competenze e approcci scientifici estremamente diversificati:
virologi, infettivologi, biologi, medici-epidemiologi… fra gli altri, e in misura di
molto inferiore, biostatistici, statistici epidemiologi e metodologi. Altri Paesi hanno
fatto scelte diverse e contrarie. In Europa la Gran Bretagna ha adottato un rigido
protocollo che ha ristretto le apparizioni mediatiche essenzialmente al primo ministro,
a giornalisti specializzati in data-journalism e a un unico esperto
statistico, David Spiegelhalter, accademico popolarissimo per la sua chiarezza ed
efficacia nella comunicazione al pubblico generale di complessi concetti quantitativi.
Nel suo libro del 2019, The Art of Statistics, Spiegelhalter offre
una definizione essenziale di statistica: «usiamo la scienza statistica per rispondere
alle domande che ci poniamo quando cerchiamo di capire meglio il mondo» [Spiegelhalter
2019]. Ma cosa intendiamo per pensiero statistico e perché ne abbiamo bisogno
specialmente in tempi di infodemia? Il pensiero statistico, un concetto complesso e
articolato, coinvolge «la natura onnipresente della variabilità
¶{p. 71}[…] quando e come usare gli appropriati metodi di analisi dei
dati, sintesi numeriche e rappresentazioni grafiche […] la comprensione della natura del
campionamento, come effettuiamo l’inferenza dal campione alla popolazione […] come
utilizziamo stime e probabilità». E ancora: «riconoscere e capire l’intero processo:
dalla formulazione della domanda, alla raccolta dati, alla scelta delle analisi per
testare le ipotesi di ricerca» [Ben-Zvi e Garfield 2004, 7]. Il pensiero statistico si
fonda sulla cognizione che i dati (datum,
data) raccolti nella realtà fisica (le persone, le società) o virtuale
(Internet) sono soltanto la materia grezza per creare informazioni, cioè nuova
conoscenza, circa le complesse strutture del mondo attuale e le loro interazioni. I dati
hanno molte «facce» e natura diversa: possono essere il risultato di categorizzazioni,
di conteggi, di misure, e per questo, in genere, non esplicitano da soli l’informazione.
Il dato, ad esempio una singola categoria (favorevole, giovane…) o un singolo numero
(3,250 gr…), sebbene raccolto nella realtà, di per sé è «muto». Quanto più complessa e
variabile è la realtà in cui il dato è osservato, tanto più nascosta nel dato stesso è
l’informazione riguardo a quella realtà. Possiamo vedere la scienza statistica come la
cassetta degli attrezzi per estrarre dai dati l’informazione, per raccontare la storia
che quei dati possono raccontare, attrezzi ad hoc per la «faccia» e
la natura di quei dati.