Sergio Brillante
«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c3
Dopo di lui intervenne l’archeologo Roberto Paribeni il cui discorso è di fatto un’esemplificazione del significato che in quegli anni verrà a ricoprire il concetto di romanità. In omaggio a questa categoria ideologica non solo si vedevano negli Italiani i discendenti degli antichi Romani (ed anche Paribeni sottolineò la loro comune capacità di sovrastare la natura), ma si assegnava alla città di Roma una funzione civilizzatrice universale. Roma diventava il motore della storia e la radice di ogni progresso civile compiuto non solo in Italia, ma nel mondo intero. Era a Roma che la civiltà era nata ed era da lì che si era irradiata. Da questo assunto, che a partire da quegli anni troverà esponenti sempre più
{p. 109}entusiasti nell’Istituto di Studi Romani [16]
, derivavano due corollari essenziali su cui Paribeni si soffermò. Se il senso della parabola romana era nella sua universalità, un ruolo di assoluto rilievo sarebbe stato quello giocatovi dalle province/colonie. Molto più che gli archi del Colosseo, quindi, «parlano all’animo» il «cippo miliario perduto nel torpore gelido delle steppe di Dobrugia», il «ponte che cavalca ardito le rive scoscese di un fiume d’Iberia», il «castrum che profila la propria ombra possente sulle candide arene del deserto di Mesopotamia». «Qui nelle provincie deve essere ripensata l’alta storia di Roma» – affermò icastico Paribeni (p. 22) –, poiché nella cornice libica e nell’esplorazione dei segni lasciativi da Roma «ci sentiremo più che mai romani, figli reverenti e devoti di questa madre della civiltà europea» (p. 29). In queste ultime parole si percepisce d’altronde un ulteriore tratto della morfologia assunta in quegli anni dal mito di Roma, il suo carattere sentimentale, irrazionale e mistico; la storia di Roma non si studia, si «sente». Roma, divenuta oggetto di idolatria e affetto filiale, può essere esaltata ed estaticamente ammirata dagli adepti del suo culto, ma la sua gloriosa e magnifica leggenda non può essere indagata con le vili modalità della critica storica, persa «nella ricerca angusta e minuziosa della piccola inverosimiglianza» (p. 30).
Più prosaico poté forse apparire, dopo quello di Paribeni, l’intervento di Bartoccini, il quale volle dare ai convenuti una panoramica di ciò che avrebbero visto nei giorni seguenti. Eppure, anch’egli riuscì ad interpretare la materia in una maniera non banale. Prima di discutere delle affascinanti scoperte fatte nelle grandi città di Tripoli, Leptis e Sabratha, si attardò sulla descrizione di alcuni siti minori. L’archeologo, riprendendo anch’egli un elemento della retorica antitripolina del 1911-1912, sottolineava la scarsità di centri urbani in Tripolitania, non più, però, al fine di mettere in evidenza la povertà del territorio, ma per esaltare la presenza nella regione di antichi «agglomerati rurali, che vorrei chiamare centri di colonizzazione». Bartoccini espose una {p. 110}tipologia di queste fattorie romane mostrando le difficoltà che dovettero affrontare i loro antichi abitanti. Anche in questo caso l’Antico veniva letto in una maniera adatta ad esaltare l’attività moderna, tutta rivolta in quel momento allo sviluppo agricolo del territorio attraverso l’istituzione di villaggi coloniali sui pochi terreni fertili rapidamente e violentemente indemaniati. Più che nei fasti delle città costiere, pure ben presenti, come Bartoccini non perse occasione di notare (p. 42), è nella concretezza del lavoro e nella difficoltà dello sforzo che risiedeva, ai suoi occhi, il vero senso della colonizzazione italiana.
Presero poi la parola i rappresentanti delle due maggiori delegazioni straniere. Eugène Albertini parlò per primo, in vece dei delegati francesi; o meglio, dei delegati delle colonie francesi del Nordafrica. L’archeologo non poté infatti non notare, in maniera autocritica, la mancanza di un rappresentante del governo della madrepatria [17]
. Tuttavia, la presenza congiunta di rappresentanti di Marocco, Algeria e Tunisia metteva in valore la «latinità» della colonizzazione dell’Africa mediterranea, cui ora si aggiungeva opportunamente la Libia italiana. L’Algeria, rappresentata appunto da Albertini, era stata la prima colonia a riportare un paese latino in quell’area dove «l’effort de l’archéologue et celui du colon se conjuguent, et se complètent, et les leçons de l’experience antique orientent l’activité moderne».
Fu certamente per assestare anche un colpo alla delegazione francese che Theodor Wiegand, direttore del Museo di Antichità di Berlino, sottolineò la qualità e la quantità dei delegati tedeschi, presenza maggioritaria fra i convenuti (il che è degno di nota se si pensa che solo due anni prima la Germania non era stata rappresentata al convegno internazionale di scienze storiche svoltosi a Bruxelles). Questi mise {p. 111}in luce il valore che, dopo gli studi di Mommsen, veniva attribuito anche in Germania alle antichità romane, elencò i siti esteri dove si svolgeva la loro attività archeologica e, infine, rese omaggio all’attività del conte Volpi, «un’opera piena di vita e di pregio per tutti i popoli del mondo», non limitata all’ambito scientifico.
Un breve saluto di Carlo Anti e Arturo Calza, in rappresentanza rispettivamente degli archeologi e dei giornalisti italiani, concluse la cerimonia.

1.3. Il convegno

Chiusasi la seduta inaugurale, gli studiosi poterono iniziare la loro ricognizione dei resti romani, accompagnati dal governatore Volpi e dal ministro Lanza e guidati costantemente da Renato Bartoccini. Il primo pomeriggio ammirarono i monumenti principali di Tripoli e visitarono il Museo. Il secondo giorno, il gruppo si spostò verso Sabratha per visitare l’anfiteatro romano, il tempio di Giove e il battistero cristiano ed esaminare il materiale epigrafico conservato presso l’Ufficio Scavi. Il 3 e il 4 maggio furono poi dedicati alla città di Leptis Magna. Oltre all’arco di Settimio Severo e alle terme, gli studiosi poterono ammirare tutte insieme anche le più belle statue emerse dagli scavi radunate per l’occasione in un padiglione presso il Palazzo Imperiale della vicina, moderna, città di Homs. A sera furono però riaccompagnati nuovamente a Leptis dove erano state allestite centinaia di fiaccole per illuminare suggestivamente la zona delle terme. La sorpresa fu accolta con un applauso. Il giorno successivo ci si trattenne ancora a Leptis per ispezionarne le vestigia suburbane: un mausoleo, la riserva d’acqua presso il uadi Lebda, il Circo e il porto. Il giorno dopo fu invece occupato dal ritorno a Tripoli e dalla chiusura del convegno nella sede del municipio.
La visita era stata accuratamente preparata. Uno «sforzo eccezionale» era stato prodigato nel primo semestre del 1925 per revisionare «tutti i lavori eseguiti» e «renderli definitivi [!] dal punto di vista dello scavo e del restauro», {p. 112}in modo «da accogliere degnamente i partecipanti al convegno archeologico internazionale» [18]
. Tuttavia, le giornate non furono consacrate esclusivamente all’archeologia. Il giornalista francese Camille Fidel e l’archeologo tedesco Hermann Thiersch, autori dei resoconti più dettagliati delle giornate tripoline, ricordano un clima piacevole in cui la visita degli scavi e dei musei era intervallata da occasioni mondane e dalla partecipazione a piccoli eventi ufficiali [19]
. I convenuti, archeologi e delegati governativi nello stesso tempo, poterono ad esempio assistere a Tripoli all’inaugurazione del monumento ai caduti, accompagnata da una parata militare e da un discorso del generale Graziani («eine hohe Gestalt wie ein junger Mars», p. 58). Per maggiore svago fu organizzato persino un ballo serale in onore dei signori archeologi («auch die Damen fehlten nicht», p. 57). Nonostante questi momenti di divertimento, non si poteva tuttavia del tutto cancellare il ricordo del recente conflitto mondiale, declinato però durante quei giorni nella forma infantile del dispetto e della smodata ricerca di attenzioni. Delegazione francese e tedesca non mancarono infatti di rivaleggiare nelle lodi rivolte agli ospitanti e nelle manifestazioni di simpatia che conseguentemente ne ricevevano. Fu anche in ragione di questi antagonismi sottotraccia che nel corso della cerimonia di chiusura a Tripoli si convenne di dare la parola unicamente al delegato danese, Christian Blinkenberg, «ein Neutraler» (p. 61). L’archeologo sottolineò l’importanza della storia di Roma anche per il suo paese e mise quindi in luce quanto lo studio della presenza romana nei luoghi periferici, e in particolar modo nelle colonie, potesse rappresentare una nuova importante area di studi. {p. 113}Nella conclusione Blinkenberg volle poi evidenziare quanto quelle giornate avessero rappresentato un’occasione non solo per ammirare gli scavi, ma anche per apprezzare la moderna opera degli Italiani:
Non siamo soltanto archeologi, abbiamo osservato che, come gli Italiani sono i veri e diretti discendenti del popolo che a noi ha dato la civiltà, così anche la colonizzazione italiana rappresenta la continuazione dell’antica colonizzazione romana: abbiamo ammirato non soltanto i risultati ottenuti dai nostri colleghi archeologi, ma anche l’energia fruttuosa degli Italiani colonizzatori [20]
.
E in effetti gli scavi non erano stata l’unica realtà che i convenuti avevano potuto ammirare. L’intero viaggio era stato costellato di momenti in cui i delegati poterono constatare il moderno assetto dato al territorio libico dagli Italiani. L’esperienza di queste novità iniziava al momento stesso dell’arrivo in città e dello sbarco nel nuovo, imponente, molo. A Tripoli poi i convenuti poterono passeggiare, anche di sera grazie alle illuminazioni, sul moderno lungomare intitolato proprio a Volpi e godere della comodità degli alberghi da poco impiantati in città. Gli spostamenti avvenivano poi in automobili lungo le strade tracciate dagli Italiani e la annunciata nascita della città di Sabratha Vulpia nei pressi delle rovine di una città commerciale romana era il segno della continuazione di un’impresa antica e dell’utilità pratica dell’archeologia, che segnalava i siti adatti all’insediamento («ainsi la colonisation italienne utilisera les enseignements de l’archéologie romaine», p. 84). Il giornalista francese Fidel, peraltro, si fermò anche altri giorni dopo la partenza degli archeologi per prendere parte, insieme a Lanza, Volpi e Graziani, a un viaggio nell’interno del paese in modo da poter smentire le voci infamanti che circolavano in ambiente francese secondo cui gli Italiani in Libia non potevano avventurarsi al di fuori di Tripoli. A ben vedere, da parte italiana, una preoccupazione in tal senso doveva sicuramente esserci, dal momento che Thiersch ricorda la presenza sulle strade di
{p. 114}un numero di militari altrimenti eccessivo. Tuttavia, proprio tale ampio dispiego di forze dové rafforzare nei convenuti il senso di sicurezza e di rispetto per l’amministrazione italiana. A tal fine, peraltro, non si trascurò di «esporre» in tutta la loro mansuetudine anche gli abitanti locali. Thiersch ricorda lo spettacolo «pittoresco» dei circa cento Arabi visti nelle steppe di Sabratha o degli abitanti plaudenti all’arrivo del gruppo di studiosi nell’oasi di Suk el-Guma [21]
. Il berberista Francesco Beguinot, anch’egli presente al convegno, attribuì la docilità della popolazione libica a un atto volontario di sottomissione, ispirato in loro dalla «chiara visione della forza e della volontà colonizzatrice dell’Italia» [22]
. Camille Fidel parlò, invece, senza mezzi termini, di un centinaio di «prisonniers indigènes» coinvolti nello scavo di Tripoli, soffermandosi poi sulla modernità del sistema utilizzato per lo smaltimento della terra spalata (p. 84).
Note
[16] Cfr. infra, cap. IV.
[17] Lo riconobbe anche Camille Fidel (La Tripolitaine en paix. Impressions de voyage, in «Revue des Questions Coloniales et Maritimes», 50, maggio-giugno 1925, pp. 81-90). È tuttavia da segnalare che l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres inviterà a Parigi il belga Cumont a parlare dello svolgimento del convegno («Comptes rendus des séances de l’Acad. des Inscr. et Belles-Lettres», 69, 1925, p. 164).
[18] I servizi archeologici, in Vigor di vita in Tripolitania (1° luglio 1925-31 dicembre 1926), cit., pp. 95-96.
[19] Fidel, La Tripolitaine en paix, cit.; H. Thiersch, Bericht über die archäologische Tagung in Tripolis vom 1.-6. Mai 1925, in «Nachrichten von der Gesellschaft der Wissenschaften zu Göttingen», 1924, pp. 53-79. A questi si possono aggiungere il resoconto italiano pubblicato, con firma della redazione, sulla «Rivista della Tripolitania», 1, 1924-1925, pp. 417-423, e quello scritto da F. Beguinot per «L’Africa Italiana» (Il recente convegno archeologico tripolitano, cit.).
[20] «Rivista della Tripolitania», 1, 1924-1925, pp. 421-422.
[21] Thiersch, Bericht über die archäologische Tagung in Tripolis vom 1.-6. Mai 1925, cit., pp. 57-58.
[22] Beguinot, Il recente convegno archeologico tripolitano, cit., p. 87.