Sergio Brillante
«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c3

Capitolo terzo Mostrare la colonia

Abstract
Questo capitolo esamina l'utilizzo, a fini propagandistici e autopromozionali, dell'immagine dell'Italia quale potenza coloniale durante l'affermazione del fascismo. In questo contesto ebbe grande importanza l'archeologia e la scoperta di nuove tracce romane nelle regioni libiche. Queste opere di scavo costituivano non solo un mezzo per gli italiani per riscoprire le conquiste dei propri “antenati”, ma erano anche sinonimo di valorizzazione del patrimonio artistico e culturale dei territori occupati.
Il vetturino avendo avuto da me tanto denaro, mi fece vedere come il vino gli attaccasse qualche volta anche la testa e ci gettò contro una solidissima antica costruzione romana. Il cicerone poi si pensò un giorno di asserire che gli antichi Romani conoscevano benissimo la forza elettrica e ne facessero largo uso. Declamò anche dei versi latini che dovevano farne fede.
I. Svevo, La coscienza di Zeno
Lo sfruttamento della colonia nordafricana subì un lungo periodo di interruzione a causa del deflagrare del primo conflitto mondiale e le forze libiche approfittarono dell’occasione per riguadagnare terreno, limitando così l’area di controllo italiana unicamente ai grandi centri costieri. Con l’affermarsi del fascismo, tuttavia, la questione ritornò d’attualità e il nuovo regime si dedicò con particolare energia alle colonie, sia per autopromuoversi come potenza dello stesso rango di altre nazioni europee dotate di possedimenti oltremare sia, a partire dal 1926-1927, per rafforzare un nuovo indirizzo di politica demografica che incoraggiò le nascite e cercò degli sfoghi alla popolazione in espansione [1]
.
Sul piano dei rapporti esteri venne così inaugurata una politica di potenza [2]
che puntava molto sulle colonie e che {p. 100}dava particolare rilievo all’archeologia e alla scoperta di nuove vestigia romane nella regione libica. Da un punto di vista retorico, tali elementi erano infatti utili anzitutto per infondere negli Italiani, fieri delle conquiste dei propri «antenati», un senso di grandezza e di orgoglio. Inoltre, da un punto di vista pratico, permettevano di attirare in colonia un certo numero di visitatori paganti, affascinati tanto dai resti archeologici quanto dalle costruzioni moderne; due segni della vittoria della civiltà su una terra in cui la barbarie era ormai stata trasformata in innocuo esotismo [3]
. In secondo luogo, attraverso le cure dell’archeologia, l’Italia coloniale si legittimava di fronte al pubblico straniero come paese che, {p. 101}lungi dallo sfruttare e asservire le popolazioni locali, spendeva denaro ed energie nella valorizzazione del patrimonio artistico e culturale di quei territori. Far riemergere i segni del passato era considerato pienamente corrispondente alla missione civilizzatrice che il colonialismo europeo si era proposto di svolgere.

1. Il convegno archeologico internazionale di Tripoli

È in questo clima che, a partire dal 1923, Renato Bartoccini (1893-1963) fu nominato soprintendente ai monumenti e agli scavi della Tripolitania. Il giovane archeologo era stato avviato fin da giovane agli scavi oltremare da Roberto Paribeni, lavorando prima in Egitto e poi in Tripolitania a partire dal 1920. La sua nomina a responsabile di quell’ente aveva un significato particolare, poiché in tal modo Bartoccini diventava il primo ad essere assegnato a quel ruolo nell’Italia fascista e il suo programma per la valorizzazione dei territori coloniali doveva conseguentemente essere grandioso. L’attività archeologica di Bartoccini trascurò pertanto i piccoli saggi preliminari e le ponderate esplorazioni delle zone archeologiche per dedicarsi senza esitazioni a dissotterrare ciò che volevano il pubblico e il governatore Giuseppe Volpi: le antiche vestigia romane. A Leptis Magna riportò alla luce le terme, il foro, la basilica severiana e l’arco quadrifronte dei Severi, a Sabratha il foro e la basilica giustinianea. Uno dei suoi intenti principali, come egli stesso riconosceva, era quello di mettere l’attività di scavo al servizio della promozione turistica del territorio coloniale [4]
. Coerentemente con questo intento, Bartoccini si dedicò molto anche all’opera di valorizzazione dei beni culturali locali. Scrisse diversi articoli riguardanti i lavori da lui compiuti, apparsi su giornali e riviste coloniali del tempo, fu autore di guide turistico-archeologiche e contribuì alle {p. 102}pubblicazioni che il Touring Club Italiano ormai dedicava esclusivamente alle colonie [5]
. La Tripolitania, più sicura della vicina Cirenaica, iniziava ad essere meta di viaggi e gli scavi archeologici dovevano presto entrare a far parte integrante dell’itinerario prestabilito cui tutti i visitatori più o meno consapevolmente si sarebbero sottoposti.
In questo lavoro Bartoccini, già nazionalista e poi sostenitore del fascismo fino a Salò, si adeguava alle direttive per la promozione delle colonie impartite dal nuovo governatore, Giuseppe Volpi di Misurata, e dal nuovo ministro delle Colonie, Luigi Federzoni, che visitò la regione all’inizio del 1924 e si convinse di dover dare maggiore sostegno all’attività archeologica coloniale [6]
. Volpi approfittò dell’occasione per promuovere nuovi scavi e organizzare un servizio che permettesse un migliore sfruttamento turistico delle rovine e in questo contesto di rinnovamento dell’interesse per l’attività archeologica nelle gerarchie politiche nacque l’idea di far convenire a Tripoli archeologi e rappresentanti di diversi paesi per mostrare loro la ricchezza dei materiali emersi. A formulare il progetto furono insieme il governatore Volpi e l’archeologo romano Roberto Paribeni (1876-1956). Questi era allora direttore del Museo Nazionale Romano degli scavi di Ostia, ma aveva un interesse spiccato per le realizzazioni delle missioni archeologiche d’oltremare (Creta, Anatolia, Malta, Albania) [7]
. Una sua visita in Tripolitania al principio del 1925 gli permise di constatare la straordinarietà dei reperti che emergevano da quella regione e lo portò ad af{p. 103}fermare che, dopo aver visto i ricchi scavi di Leptis Magna, avrebbe trovato «sminuiti di interesse e sguarniti quelli di Roma ed Ostia». Volpi ritenne pertanto che, «sicuri di far ottima impressione», si potesse organizzare una riunione di archeologi italiani e internazionali in territorio coloniale per illustrare le novità emerse. Non si sarebbe trattato di un congresso con un tema prestabilito attorno al quale fossero chiamati diversi relatori, ma, per precisa volontà di Paribeni, di un semplice «convegno». Non era il caso, infatti, di «impegnarsi scientificamente su tema od altro da trattare o finalità diverse da quella precipua della visita degli scavi di Leptis coi quali Prof. Paribeni crede che senza altro abbiamo preso la testa della romanità del Nord Africa per non dire di più» [8]
.

1.1. Studiosi, giornalisti, politici

Fin da subito si volle che quel convegno, programmato per il mese di maggio dello stesso 1925, avesse una vocazione fortemente internazionale. Occorreva far leva sull’importanza dei reperti venuti alla luce per mostrare a un pubblico il più possibile vasto il benefico effetto della dominazione italiana. La finalità politica dell’evento è dimostrata dalle categorie di persone invitate; non solo studiosi, ma anche giornalisti e politici. Quest’ultimo gruppo fu in realtà quello più poveramente rappresentato. Furono naturalmente presenti, in qualità di organizzatori dell’evento, il nuovo ministro delle Colonie subentrato temporaneamente (1924-1926) a Federzoni, Pietro Lanza di Scalea, e il governatore
{p. 104}della Tripolitania, Giuseppe Volpi, ma nessun’altra grande personalità fu coinvolta. Lo stesso ministro dell’Istruzione, Pietro Fedele, negò la sua partecipazione, pure fortemente richiesta, e si limitò ad inviare un suo delegato, Luigi Trivelli [9]
. Mancano poi del tutto politici di altre nazioni e ciò potrebbe stupire in un convegno prioritariamente rivolto al pubblico estero, ma solo a un primo sguardo, dal momento che il loro ruolo era in realtà svolto proprio dagli studiosi. La rilevanza del convegno stava infatti nella possibilità di poter creare un’occasione politica e diplomatica di rilievo senza tuttavia doversi esporre troppo e ammantando il tutto sotto la rassicurante coltre del raduno scientifico. Nell’elenco delle personalità convenute, preposto a un piccolo opuscolo commemorativo dell’evento, stampato nei giorni stessi del convegno, i vari studiosi stranieri furono infatti brevemente descritti con ricorso sia alla loro affiliazione scientifica che al loro ufficio di «delegati» dei vari governi [10]
. I paesi così ufficialmente rappresentati furono in totale sei: Eugène Albertini come «delegato del Governo d’Algeria», Christian Blinkenberg per la Danimarca, Franz Cumont per il Belgio, Louis Chatelain e Prosper Ricard per il Marocco, Daniel Krencker, Ferdinand Noack, Hermann Thiersch e Theodor Wiegand per la Germania, Wilhelm Kubitschek per l’Austria, Louis Poinssot per la Tunisia [11]
. Un peso politico si può poi riconoscere anche ai rappresentanti degli istituti culturali esteri presenti in Italia lì convenuti, visto che il loro ruolo è sempre stato anche di natura politico-diplomatica: Léon Bourdon e Jacques Madaule dell’École Française de Rome [12]
, {p. 105}Gerhart Rodenwaldt del Deutsches Archäologisches Institut, e Gorham Stevens dell’American Academy in Rome. Solo a causa dell’assenza di Thomas Ashby, che disdisse la sua partecipazione a pochi giorni dalla partenza, mancarono rappresentanti britannici [13]
.
Note
[1] Cfr. V. Deplano, L’Africa in casa. Propaganda e cultura coloniale nell’Italia fascista, Firenze, Le Monnier, 2015, cap. II; E. Ertola, Il colonialismo degli italiani. Storia di un’ideologia, Roma, Carocci, 2022, cap. IV.
[2] Cfr. M. Isnenghi, Il mito di potenza, in A. Del Boca, M. Legnani e M.G. Rossi (a cura di), Il regime fascista. Storia e storiografia, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 139-150; N. Labanca, L’amministrazione coloniale fascista. Stato, politica e società, in ibidem, pp. 352-395; E. Collotti, Fascismo e politica di potenza. Politica estera 1922-1939, Milano, La Nuova Italia, 2000.
[3] In Vigor di vita in Tripolitania (1° luglio 1925-31 dicembre 1926), Tripoli, Ufficio Studi e Propaganda del Governo della Tripolitania, 1927, pp. 95-96, si fornisce la cifra di 761 visitatori per gli scavi di Leptis e 502 per Sabratha nel solo periodo marzo-giugno 1926. Sul turismo in colonia, cfr. N. Labanca, La Libia nelle guide turistiche italiane del periodo coloniale, in E. Castelli e D. Laurenzi (a cura di), Permanenze e metamorfosi dell’immaginario coloniale in Italia, Napoli, ESI, 2000, pp. 61-78; B.L. McLaren, Architecture and Tourism in Libya. An Ambivalent Modernism, Washington, University of Washington Press, 2006; C. Burdett, Journeys through Fascism. Italian Travel Writing between the Wars, New York-Oxford, Berghahn Books, 2007; E. Capuzzo, «Visitate la Libia». Il turismo nella Quarta Sponda tra le due guerre mondiali, in «Nova Historica», 56, 2016, pp. 5-37. Più in generale sul ricorso alla storia antica nell’ideologia coloniale fascista, cfr. Cagnetta, Antichisti e impero; Ead., L’impronta classica dell’ideologia coloniale italiana, in «Materiali di lavoro», 1991-1992, pp. 199-211; D.J. Mattingly, From One Colonialism to Another: Imperialism and the Maghreb, in J. Webster e N.J. Cooper (a cura di), Roman Imperialism: Post-Colonial Perspectives, Leicester, University of Leicester, 1996, pp. 49-69; L. Polverini, L’impero romano antico e moderno, in Näf, Antike und Altertumswissenschaft, pp. 89-110; M. Giuman e C. Parodo, Nigra subucula induti. Immagine, classicità e questione della razza nella propaganda dell’Italia fascista, Padova, CLEUP, 2011; G. Clemente, Fascismo, colonialismo e razzismo. Roma antica e la manipolazione della storia, in A. Cannas, T. Cossu e M. Giuman (a cura di), Xenoi. Immagini e parola tra razzismi antichi e moderni, Napoli, Liguori, 2012, pp. 51-66; S. Agbamu, «Mare nostrum»: Italy and the Mediterranean of Ancient Rome in Twentieth and Twenty-First Centuries, in «Fascism», 8, 2019, pp. 250-274.
[4] Mette bene a fuoco questo aspetto M. Munzi, L’epica del ritorno. Archeologia e politica nella Tripolitania italiana, Roma, L’Erma di Bretschneider, 2001, pp. 44-47.
[5] A lui si devono alcuni paragrafi della Guida d’Italia del Touring Club Italiano. Possedimenti e Colonie, Milano, TCI, 1929 (pp. 208-210).
[6] Oltre ai diversi lavori sulla storia dell’archeologia in Libia citati supra (cap. II, nota 3), a informare di questa nuova fase degli scavi è la relazione scritta da Rodolfo Micacchi e conservata oggi presso la Biblioteca dell’IsIAO (pp. 33-35; concentrata maggiormente sulle operazioni svoltesi in Cirenaica). Sul valore politico della visita di Federzoni, cfr. A. Del Boca, Gli Italiani in Libia, vol. II: Dal fascismo a Gheddafi, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 36-39.
[7] Su di lui, cfr. A. Paribeni, s.v. Paribeni, Roberto, in DBI, 2014, vol. LXXXI; M. Munzi, Roberto Paribeni, in G. Brands e M. Maischberger (a cura di), Lebensbilder. Klassische Archäologen und Nationalsozialismus, Rahden, Leidorf, 2016, pp. 113-129.
[8] ACS, MAI, Direzione Affari Civili (1926-1952), b. 145 (Volpi a Lanza di Scalea, 6 febbraio 1925). Nel seguito di questo paragrafo i riferimenti archivistici sono da intendersi come implicitamente sempre relativi a questo insieme documentale. Senza fare ricorso a tale documentazione, hanno trattato del convegno di Tripoli anche S. Altekamp, Rückkehr nach Afrika. Italienische Kolonialarchäologie in Libyen 1911-1943, Köln-Weimar-Wien, Böhlau, 2000, pp. 160-163, e Munzi, L’epica del ritorno, cit., pp. 86-88. Paribeni informa del suo viaggio libico in Gli scavi di Leptis e di Sabratha, in «Dedalo», 5, 1925, pp. 665-688.
[9] Lettera di Volpi a Conti Rossini (30 marzo 1925). Fra i partecipanti al convegno figurerà anche un certo Attilio Rossi, «Ispettore Centrale nel Ministero della P.I.» (Convegno 1925, p. 6).
[10] Convegno 1925.
[11] Nel seguito ci si concentrerà sugli stranieri ma furono a Tripoli anche studiosi italiani: C. Anti, S. Aurigemma, F. Beguinot, C. Conti Rossini, G. Calza, G. Cultrera, G. Gerola, G.Q. Giglioli, E. Ghislanzoni, C.A. Nallino, R. Paribeni, Q. Quagliati, A. Rossi, P. Romanelli, B. Tamaro. Pur essendo stati invitati, invece, non si recarono in colonia Pais, Lanciani e Schiaparelli.
[12] Avrebbe dovuto essere con loro anche un giovane allievo dell’École Française de Rome, Georges Recoura, accidentalmente morto durante il viaggio.
[13] Fra i partecipanti figura in realtà Harris Dunscombe Colt, studioso di origini statunitensi stabilitosi nel Regno Unito, ma egli è indicato nella lista dei partecipanti solo come fellow della Society of Antiquaries of Scotland e non come «delegato». Si può pertanto presumere che la sua presenza fosse casuale e motivata da uno dei numerosi viaggi che lo studioso compiva in Nordafrica, più che da un invito ufficiale.