Viaggio nelle character skills
DOI: 10.1401/9788815366962/c2
In sintesi, la situazione attuale
comporta una forte e multidimensionale pressione sul soggetto
umano. La società appare sempre più esigente circa lo sforzo personale
richiesto per partecipare ai processi e alla vita sociale in ogni ambito:
dall’istruzione al lavoro, dalla salute alla vita civica, e così via. L’idea di
performance non è più limitata alla sfera dell’economia e del mercato. Attivazione,
mobilitazione, iniziativa, adattamento e investimento di sé sono requisiti fondamentali
in ogni campo della vita sociale
[21]
. Il soggetto umano è sollecitato alla massima mobilitazione, alla
ottimizzazione senza residui – in linea di principio – di tutte
le sue proprietà psichiche, fisiche e morali. La frontiera passa per forme sempre più
innovative di lavoro su sé stessi
[22]
, negli aspetti di self-management e di cooperazione
interpersonale. Al tempo stesso, la società mostra, in questa fase, una capacità
decrescente di costruire o rigenerare istituzioni efficaci che supportino questo sforzo.
Partecipare a istituzioni e alle loro forme di vita organizzata, percorrere una
«carriera» entro gli argini consolidati dei percorsi di vita che queste
disegna
¶{p. 53}no – ad esempio completare un
curriculum, o fare parte di un’organizzazione – è ormai sempre
meno rilevante. In questo senso la società globale è sempre più una skills
society, una società che pone al soggetto umano requisiti stringenti per
poterla abitare, e che dispone forme di marginalizzazione sociale corrispondenti legate
alla in-competenza.
L’attuale «nuova» valorizzazione del
«carattere» e delle competenze sociali ed emotive si radica in questa sindrome di
mutamento sociostrutturale, come reazione al bisogno di approfondire e potenziare il
«miglioramento» dell’essere umano in tutte le sue facoltà. Ciò implica anche affrontare
uno spettro di capacità, qualità e prestazioni soggettive più ampio rispetto al passato,
per cui vari tratti personali non possono essere lasciati in stato sub-ottimale o alla
crescita spontanea.
Questa ricostruzione della
genealogia sociostrutturale delle SES come tema della riflessione educativa chiarisce
che esse sono l’indicatore di una trasformazione profonda. Come sempre, la sua
interpretazione non è univoca. Mi limito a indicare due questioni problematiche, da cui
è necessario trarre le conseguenze sul piano operativo.
In primo luogo, mentre la situazione
sociostrutturale che ho qui tratteggiato appare chiara, è discutibile quali siano le
strategie di risposta più adeguate; ad esempio, le conseguenze in termini di
stress, tensione e vari effetti perversi
[23]
di queste dinamiche macro-sociali e organizzative vanno meglio indagate e
interpretate, anche in termini di programmi formativi di supporto. Ad esempio: ciò che
serve è soprattutto una formazione iper-competitiva, di cui le SES sarebbero al tempo
stesso parte integrante e complemento «defatigante»?
[24]
Oppure si deve pensare in altri termini?¶{p. 54}
Un’altra questione riguarda il tipo
di persona che dovrebbe rappresentare il fine dei processi formativi. Se questi tendono
a «dare forma» alla persona nel suo complesso, si pone una serie di problemi. Anzitutto,
occorre perseguire una linea prevalentemente adattativa oppure «critica»? Cioè a dire,
le SES e il character servono essenzialmente per navigare nella
società complessa o per resistere agli effetti negativi che essa comporta e
«ri-moralizzarla» attraverso l’agire della persona e il suo potere? Entrambe le linee
sono presenti nella prassi, espressione di diverse impostazioni culturali che si
riflettono sui programmi educativi. Inoltre, quanto deve «totalizzarsi» l’educazione?
C’è un ampio raggio di competenze necessarie, ma fino a che punto bisogna «costruire» la
persona?
Abbiamo già accennato ai lunghi
elenchi tipici di alcuni framework concettuali. Ma poi, è possibile
fornire un significato non ambiguo e non culturalmente neutrale di tutti questi tratti
personali? Chi e come decide sul «corretto» senso dell’assertività, dell’umiltà, della
gradevolezza, della cooperazione, dell’ambizione personale, ecc.? E qual è la formula
che può integrare questa pluralità di competenze in un profilo (un carattere, appunto)
relativamente unitario? Oppure a questo bisognerebbe rinunciare – in uno spirito
«post-modernista»?
Infine, una questione latente
riguarda l’universalismo: le SES possono essere intese come uno strumento per
realizzare, per via educativa, il sogno di un’umanità pacificata e razionalizzata
attraverso la costruzione di un carattere personale universalistico, «illuminato» e ben
temperato, equilibrato nelle sue dimensioni strumentali (di efficienza) ed espressive?
Stiamo parlando, dunque, di un’evoluzione smart, efficiente e
misurabile, dell’individualismo tardo-moderno? Queste considerazioni toccano le finalità
profonde dell’educazione ed evocano il ruolo della cultura nel discorso delle SES e del
loro apprendimento.¶{p. 55}
3. Psico-semantiche delle competenze: culture delle emozioni e delle abilità sociali
Le competenze socioemotive sono
universali? Questa domanda è un punto di partenza istruttivo per trattare la cruciale
questione della cultura in relazione alle SES e al loro apprendimento. La sua rilevanza
si comprende chiaramente se si considerano alcune obiezioni tipicamente rivolte ai
programmi di SEL. C’è, ad esempio, l’idea che tali programmi, occupandosi di fatto
dell’educazione morale, invadano una sfera di scelta e di responsabilità propria delle
famiglie e delle loro comunità di appartenenza, non delle scuole e dello Stato. A questa
critica si lega l’idea che i programmi di SEL prevalenti promuovano un’agenda culturale
nascosta, volta a trasmettere valori propri di un’etica liberal e
globalista. Un’analoga preoccupazione è che la raccolta di test e dati in questo ambito
si presti a una sorta di profiling delle personalità degli alunni.
Queste critiche non vanno
sottovalutate, perché espongono un punto debole del discorso educativo delle SES.
Abbiamo già osservato la discrasia tra il linguaggio psicologico-educativo delle
competenze, intenzionalmente neutrale, e la dimensione palesemente più complessa di
alcuni elementi – ad esempio la gratitudine, la fiducia, l’etica del lavoro e altri
ancora – che si ritrovano inclusi nella maggior parte dei framework
concettuali in questione. Ripensare l’educazione «integrale» della persona comporta
naturalmente queste ambivalenze, chiamando in causa dimensioni profonde della
personalità, del comportamento e degli orientamenti di vita. Sia che si prenda la
decisione teorica d’integrare la teoria delle SES con quella dell’educazione al
«carattere», sia che invece s’intenda rimanere esclusivamente all’interno di una
semantica psicologico-evolutiva e psicometrica, la questione non può essere evitata.
I sostenitori delle SES hanno sempre
negato di voler formare un carattere o una personalità
globale, transculturale, quella che Richard Sennett
[25]
notoriamente attribuì al tipico ¶{p. 56}«uomo di Davos». Il
loro argomento è che vi sono aspetti della vita sociale ed emozionale degli esseri umani
che sono semplicemente universali e vi sono altresì dimensioni capacitanti
(enabling), che si possono legittimamente chiamare competenze,
senza le quali anche le intenzioni morali non potrebbero tradursi in azioni coerenti. Ad
esempio, si può voler essere «tolleranti» e pluralisti, ma la capacità di assumere la
prospettiva dell’altro non è una mera intenzione, bensì implica l’affinamento di una
vera e propria abilità, di un «saper fare».
Questo argomento è senz’altro
sostenibile. È difficile negare che tutti gli esseri umani abbiano emozioni e che
debbano imparare a riconoscerle e gestirle, in sé stessi e negli altri. Ciò è
socialmente importante, poiché permette di considerare lo stato mentale di un
interlocutore e di qualunque «altro». La capacità di entrare in relazione, oppure la
cooperazione per degli obiettivi, sono necessità altrettanto universali.
Ciò, tuttavia, non toglie che le SES
richiedano di essere integrate nell’identità degli alunni, attraverso il processo di
socializzazione, il che di per sé implica una caratterizzazione culturale. Come ho
accennato sopra, attraverso il SEL la scuola articola inevitabilmente valori condivisi,
proponendo quelle che in letteratura sono anche definite essential life
habits
[26]
, poiché le SES non connesse a valori rischiano di sviluppare competenze
utilizzabili per fini antisociali. La particolarità culturale della sfera socioemotiva
si può cogliere sotto molteplici aspetti:
a) anzitutto,
un certo insieme di competenze può essere più o meno rilevante in
diverse culture, se non addirittura negletto in alcune di esse
[27]
;¶{p. 57}
b) in diversi
contesti culturali, emozioni e forme d’interazione denominate allo stesso modo possono
assumere significati differenti;
c) esiste
un’ampia gamma di variabilità quanto alle norme che regolano quando e come sia legittimo
manifestare determinate emozioni e le forme dell’ingaggio
sociale, cioè le modalità d’interazione corrette in diversi
contesti e circostanze;
d) una
questione connessa alle precedenti riguarda la valutazione. È
oggetto di dibattito se l’apprendimento socioemotivo debba o no essere valutato, e se sì
in che modo. L’inclusione nei processi di valutazione potrebbe accrescerne la rilevanza
e permetterne il miglioramento, ma potrebbe anche condurre a restringere e irrigidire la
nozione stessa delle competenze in questione, promuovendone una più o meno consapevole
standardizzazione trans-culturale, nella prassi oltre che nella teoria.
La declinazione culturale delle SES
e la difficoltà di progettare l’intervento educativo nel rispetto di tale diversità è
uno dei temi di ricerca attualmente meno sviluppati. Riprendo qui uno dei pochi
tentativi di dargli formulazione sistematica, su cui è utile riflettere. Secondo Hecht e Shin
[28]
, la differenziazione culturale delle SES si articola in tre dimensioni
fondamentali:
1) la
definizione stessa delle competenze socioemotive – che gli
autori chiamano «struttura» del SEL. Che cosa vuol dire essere –
positivamente – assertivi, umili, perseveranti, collaborativi,
ambiziosi, e così via?
2) i mix e i
valori-livello di ogni tratto socioemotivo ritenuti ottimali –
per gli autori «funzione». Quanto bisogna essere assertivi, quali
valori delle scale indicano l’essere troppo umili, o
troppo poco collaborativi o perseveranti, ecc.?
3) le modalità di
apprendimento potenzialmente efficaci – il «processo». I diversi sistemi
scolastici comportano
¶{p. 58}anche diverse forme d’interazione sensata,
socialmente e moralmente accettabile per docenti e alunni.
Note
[21] La dinamica dei sistemi di welfare europei – con la nozione di politiche «attive» per l’autoprotezione dai rischi – costituisce un esempio istruttivo.
[22] H. Rosa, Resonanz. Eine Soziologie der Weltbeziehung, Frankfurt, Suhrkamp, 2016.
[23] V. King, B. Gerisch e H. Rosa (a cura di), Lost in Perfection. Impacts of Optimisation on Culture and Psyche, London-New York, Routledge, 2018.
[24] Un esempio classico è costituito dalla Corea del Sud, la cui attenzione alle competenze socioemotive – testimoniata dall’adesione a vari progetti internazionali – è motivata soprattutto dall’alto livello di competitività di quel sistema educativo e dall’elevato livello di stress patito dagli studenti, che si manifesta tra l’altro in uno dei tassi di suicidio giovanile più alti del mondo.
[25] R. Sennett, L’uomo flessibile, Milano, Feltrinelli, 1998.
[26] R.P. Weissberg, J.A. Durlak, C.E. Domitrovich e T.P. Gullotta, Social and Emotional Learning: Past, Present, and Future, cit., pp. 3-19.
[27] Un chiaro esempio è il coraggio, che in un’età «post-eroica» è sembrato scomparire dal novero delle virtù importanti, almeno per gli europei. È interessante il suo attuale ritorno sulla scena, nelle ricorrenze mediatiche e nei messaggi dei leader politici, ma su questo fenomeno non posso qui soffermarmi. Vedi R. Sheehan, L’età post-eroica. Guerra e pace nell’Europa contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2009.
[28] M.L. Hecht e Y. Shin, Culture and Social and Emotional Competencies, in J.A. Durlak, C.E. Domitrovich, R.P. Weissberg e T.P. Gullotta (a cura di), Handbook of Social and Emotional Learning. Research and Practice, cit., pp. 50-64.