Sindacato e rappresentanze aziendali
DOI: 10.1401/9788815412324/c4
Capitolo quartoSindacato e prospettive delle nuove rappresentanze aziendali
1. I delegati e le politiche organizzative sindacali.
I molteplici elementi di crisi delle
formule organizzative tradizionali emergenti dalle vicende finora analizzate si
acuiscono con il generalizzarsi del movimento di lotta nel corso e alla fine del 1969 e
con l’incipiente consolidamento, anche a livello contrattuale, delle forme organizzative dell’assemblea
[1]
e dei delegati. Da questo processo di allargamento conflittuale e insieme di
sua prima sistemazione, le sezioni sindacali appaiono emarginate di fatto, oltre che per
la loro persistente assenza di iniziativa, per le riserve sempre più generalizzate
espresse circa le loro possibilità di recupero in un simile contesto, cui si
accompagnano, da parte di alcuni sindacati di categoria a cominciare dai metalmeccanici,
esplicite ammissioni sulla radicale inadeguatezza della stessa formula
dell’istituto.¶{p. 162}
Il passaggio e la traduzione di tale
coscienza critica sul piano dei programmi di politica organizzativa e contrattuale
avvengono peraltro in tempi e con modalità diverse, non senza sfasature palesi anche
all’interno dei metalmeccanici, specie in conseguenza di differenti atteggiamenti della
FIM e della FIOM da una parte e della UILM dall’altra. Per limitarsi alle principali
tesi organizzative di questi sindacati, esitazioni evidenti a questo proposito si
riscontrano ancora alla prima Conferenza unitaria di Genova del marzo 1970, ove, pure
indicandosi nei delegati e nel Consiglio di fabbrica (oltre che nell’assemblea) i nuovi
organismi sindacali unitari, la costituzione degli stessi appare affidata all’iniziativa
delle sezioni sindacali che coesistono con i delegati e con le CI all’interno del
Consiglio. Parimenti significativa nello stesso senso è la presa di posizione circa i
rappresentanti sindacali aziendali (terminologia dei contratti collettivi nazionali che
li tutelano in modo particolare)
[2]
, di cui si dice che saranno «desunti, con intese unitarie» «nell’ambito del
Consiglio di fabbrica» ma solo «preferibilmente» e «fermo restando che ogni
Organizzazione sindacale potrà fare eleggere i propri rappresentanti anche secondo altri criteri»
[3]
. Ove è implicito che le vecchie strutture sindacali di azienda non solo
possono restare in vita, ma possono mantenere la qualifica di strutture
istituzionalmente privilegiate nei confronti della controparte, e ciò a scelta del
sindacato esterno, così più che mai confermato nella sua tradizionale posizione di
preminenza. Tali esitazioni scompaiono invece nei programmi di politica organizzativa di
molti sindacati provinciali della FIM e della FIOM (compresi quelli delle province qui considerate)
[4]
, e quindi definitivamente nelle ¶{p. 163}decisioni della III
Assemblea nazionale organizzativa della FIM e del XV Congresso nazionale della FIOM, del
luglio 1970. In queste delibere una decisa scelta a favore dei delegati quale
fondamentale struttura rappresentativa in azienda, si accompagna all’affermazione
generale che tale scelta rende «palesemente contradditoria e superata la sopravvivenza
sia delle SAS che delle CI»
[5]
, di cui postula la cessazione con conseguente assorbimento dei compiti di
entrambe da parte del nuovo istituto. Il mantenimento delle strutture tradizionali viene
coerentemente indicato come soluzione transitoria valida fino alla costituzione e
all’entrata in vigore degli stessi consigli. Per attuare una simile prospettiva si
menzionano diversi provvedimenti concreti: oltre alla necessaria azione organizzativa
per generalizzare la loro diffusione, la richiesta di un loro riconoscimento anche
formale dalla controparte
[6]
, e dell’e¶{p. 164}stensione ad essi di tutte le tutele
proprie dei rappresentanti aziendali, il ricorso alle assemblee degli iscritti solo per
eleggere rappresentanti esterni del sindacato (comitati misti e simili), la rinuncia ad
effettuare nuove elezioni di Commissione interna
[7]
.
La chiarezza di simili tesi, almeno
nelle loro linee programmatiche, è peraltro lungi dal trovare riscontro nella generalità
del movimento sindacale, che presenta ancora per tutto il 1970 posizioni alquanto
differenziate: in molti casi la mancanza di scelte precise al riguardo, in altri una ben
più accentuata cautela nell’accogliere le nuove strutture e soprattutto sostanziali
resistenze ad intenderle come sostitutive delle forme organizzative preesistenti. Tali
resistenze trovano espressione e sostegno istituzionale nelle norme già menzionate della
contrattazione collettiva nazionale che prevedono rappresentanze aziendali distinte per
ogni sindacato, rendendole beneficiarie di vari diritti sindacali o addirittura
riconoscendole quali agenti contrattuali. Anche qui non sono assenti tentativi, da parte
di sindacati di categoria, specie della CISL e della UIL, di fare coincidere queste
rappresentanze con il gruppo direttivo della sezione e, più in genere, di stabilirne un
sistema di nomina (ad esempio, tramite designazione del sindacato) che le distingua
nettamente dai delegati eletti e garantisca una loro qualificazione sindacale, secondo
il carattere tipico della sezione, anche ove questa non sia formalmente mantenuta in
vita come tale
[8]
. Alla medesima interpretazione si presta, com’è noto, la stessa legge 20
maggio 1970, n. 300, che presuppone pure come oggetto ¶{p. 165}di
tutela, specie nel titolo III, organismi diversi secondo le affiliazioni sindacali,
quali appunto le sezioni; anche se il legislatore si è astenuto espressamente dal
definire le forme di tali organismi, lasciandone la scelta alle organizzazioni sindacali
(territoriali) di cui all’art. 19
[9]
.
D’altra parte una simile oscillazione
di tesi, con sopravvivenze palesi di posizioni tradizionali, non risulta corretta per
molto tempo da precise proposte politiche provenienti dalle Confederazioni. Una
decisione impegnativa e definita in materia viene emergendo verso la fine del 1970
all’interno della CGIL, che, dopo un anno dedicato — come si dice — ad esperimentare le
possibilità del movimento dei delegati, conferma su questo punto generale la validità
delle scelte anticipate dai metalmeccanici, proponendo di conseguenza che le sezioni
sindacali debbano «sciogliersi nel Consiglio di fabbrica e i loro membri partecipare
come delegati eletti dai lavoratori alla vita e alla direzione della nuova struttura»
[10]
. Non mancano peraltro preoccupanti rilievi, comuni del resto all’intero
movimento sindacale, circa i rischi che una simile scelta può comportare per
l’omogeneità dell’attività e delle politiche sindacali, nonché circa il carattere
anomalo di radicare l’organizzazione di base del sindacato in organismi potenzialmente
composti di iscritti e non iscritti
[11]
. E le motivazioni
¶{p. 166}addotte per superare questi
rilievi assumono talora accenti meramente difensivi o addirittura ambigui, non
rifiutando il carattere di anomalia della proposta, ma definendola come un fatto
transitorio, necessario nel periodo di trapasso al nuovo sindacato unitario
[12]
. Quasi a implicare che, costituitosi questo, l’identificazione anche
strutturale fra delegati e sindacato dovrebbe essere completa. In realtà la scelta
generale così definita lascia aperto il problema cruciale, di cui si dirà subito, dei
rapporti fra la nuova struttura di fabbrica nelle sue varie possibili configurazioni e
l’organizzazione esterna della classe espressa nel sindacato.
Note
[1] Il riconoscimento del diritto di assemblea all’interno dei luoghi di lavoro è già largamente acquisito, con variazioni qui irrilevanti, in quasi tutti i più importanti contratti nazionali di categoria stipulati fra la fine del 1969 e l’inizio del 1970: cfr., ad esempio, oltre a quelli per l’industria metalmeccanica privata e a partecipazione statale, quelli per l’industria chimica e farmaceutica, e per l’industria tessile, che generalizzano anche qui risultati conseguiti formalmente solo in un numero limitato di situazioni aziendali (vedi le indicazioni a nota 46 del cap. III e, per qualche ulteriore esemplificazione, Bianchi, Sindacati e impresa, cit., pp. 51 sgg.: per il 1968). Già questa normativa è sufficiente ad alterare in modo decisivo l’assemblea rispetto alla sua natura originaria di fatto organizzativo autonomo (vedi nota 7 del cap. III), nella misura in cui ne subordina la convocazione (e in definitiva la liceità nell’azienda) all’iniziativa delle stesse rappresentanze sindacali, singolarmente o congiuntamente. Tale modifica è in seguito sancita pure dall’ordinamento statale con il riconoscimento in termini analoghi dell’assemblea durante l’orario di lavoro da parte della legge 20 maggio 1970, n. 300 (art. 20). Ben più radicale variazione nel carattere dell’assemblea si introduce ove essa venga assunta anche formalmente dal sindacato come propria struttura di base, secondo le modalità più avanti indicate nel testo.
[2] Anche a questo proposito vale in larga misura quanto detto nella nota precedente, che si tratta di materia regolata in maniera comune dai principali contratti nazionali del periodo in questione, sulla base di anticipazioni abbastanza limitate della contrattazione aziendale, e con evidenti riferimenti al progetto di statuto dei lavoratori allora in corso di approvazione .
[3] Così il documento conclusivo della terza commissione, riportato in appendice.
[4] Vedi, per la FIM, l’ampia documentazione presentata come contributo al dibattito in vista della III Assemblea organizzativa e pubblicata in apposito volume con il resoconto sommario dei lavori di questa. Si tratta delle tesi elaborate da trentacinque sindacati provinciali, fra cui i quattro delle province in esame, che sui punti sopra menzionati anticipano tutti senza sostanziali variazioni le scelte poi operate dalla intera organizzazione (vedi, rispettivamente, quello di Brescia a pp. 12 sgg.; di Milano a pp. 26 sgg.; di Pordenone a pp. 41 sg.; di Treviso a pp. 58 sgg.).
[5] Cfr. il documento della II Commissione all’assemblea della FIM (L’azione rivendicativa della fabbrica e le strutture di base) riportato in appendice; e per la FIOM in termini analoghi la risoluzione approvata dal XV Congresso (Per l’unità sindacale e Autonomia e rinnovamento) pure in appendice; nonché, più tardi, il dibattito alla Commissione nazionale di organizzazione del dicembre 1970, (in particolare la relazione di Galli), in «Esperienze e orientamenti», n. 27, dicembre 1970, pp. 3 sgg. Quanto alla UILM, il dibattito alla II Conferenza nazionale dell’ottobre 1970, pur riconoscendo alle nuove strutture il valore di una decisiva rifondazione in senso più democratico del rapporto fra sindacato e lavoratori, e ammettendo la necessità di una graduale sostituzione delle CI, configura ancora un carattere composito del Consiglio di fabbrica, ove con delegati eletti unitariamente coesistono i membri di CI, e i rappresentanti sindacali «eletti dagli iscritti di ciascuna organizzazione in assemblea», anche se preferibilmente fra gli iscritti delegati (così il documento approvato dal Comitato centrale sulla base del dibattito menzionato).
[6] Al riguardo sembra prevalere l’idea che tale richiesta non debba avanzarsi al livello territoriale né nazionale né provinciale e che non sia opportuno mirare a una regolamentazione negoziata con la controparte circa i compiti e il funzionamento delle nuove strutture, in quanto da una simile normativa generale e concordata esse potrebbero risultare pericolosamente vincolate e in una fase di ancora incipiente sperimentazione. Si propone invece un impegno a far riconoscere a livello di impresa la nuova struttura come agente contrattuale: vedi ora, in tal senso, le tesi per il dibattito alla II Conferenza unitaria dei metalmeccanici (marzo 1971), Gli sviluppi dell’unità di fabbrica, n. 2.
[7] Una simile decisione è più tardi adottata dai comitati centrali unitari delle tre confederazioni FIM-FIOM-UILM (Sesto S. Giovanni, dicembre 1970).
[8] Vedi, in particolare, le esemplificazioni di tutti questi diversi indirizzi nel documento Nuove forme di rappresentanza in fabbrica, redatto a cura dell’ufficio sindacale industria della CISL, e presentato al dibattito in una riunione nazionale di quadri CISL (del gennaio 1971) dedicata a tale tema e a nuovi contenuti della contrattazione articolata.
[9] Sull’interpretazione dei concetti di «rappresentanza sindacale aziendale» e di suoi «dirigenti», ricorrenti nella legge indicata, vedi Pera, Disposizioni procedurali dello «statuto dei lavoratori», in «Rivista di diritto procedurale», 1970, p. 384; il mio L’organizzazione sindacale, I, cit., p. 204, nota 52; e da ultimo Freni, Giugni, Lo statuto dei lavoratori, Milano, 1970, sub. art. 19, pp. 82 sgg.
[10] Così la relazione di Lama al comitato direttivo della CGIL del 21-22 dicembre 1970, in Strutture unitarie sui luoghi di lavoro, collana documentazione CGIL, n. 17, Roma, 1971, p. 23. Vedi anche la risoluzione approvata dallo stesso comitato (dedicato quasi integralmente a discutere le nuove forme di rappresentanza), che attribuisce «al consiglio dei delegati una precisa priorità politica in riferimento alla presenza e alla costruzione del sindacato nella fabbrica», in «Rassegna sindacale», 1971, n. 202, p. 6.
[11] Ampie tracce di simili timori emergono, ad esempio, da diversi interventi nel «Quaderno di Rassegna sindacale» dedicato ai delegati di reparto, cit., che del resto si muovono ancora in una prospettiva esplicita di rilancio delle sezioni sindacali unitarie: si vedano, in particolare, quelli di Giunti, pp. 12 sgg. e 17 sg.; di Bianchi, Ritorno alla fabbrica come perno strategico, p. 27, e di Didò, pp. 14 sgg., che sottolinea l’urgenza di saldare i delegati con l’organizzazione sindacale tradizionale, in modo che essi «siano immediatamente il sindacato e quindi siano raccolti in un organismo di fabbrica, il quale sia già comprensivo delle forze sindacali attuali e di queste nuove espressioni dirette di democrazia operaia». La non completa congruità del nuovo organismo a funzionare come struttura di base del sindacato è ancora ribadita, e motivata richiamandosi alla natura «associativa» del sindacato, nel dibattito al seminario di Ariccia su L’organizzazione sindacale nelle aziende, dell’11-12 maggio 1970, in «Rassegna sindacale», 1970, n. 188-189, pp. 17 sgg., che riflette una persistente eterogeneità di posizioni all’interno della confederazione. Vedi peraltro su questo punto, con sufficiente chiarezza, le osservazioni conclusive di Guerra, p. 17, ma anche, fra i molti, l’intervento di Accornero, p. 21, che sottolinea criticamente i ritardi della politica della CGIL ad adeguarsi alla nuova situazione.
[12] Cfr. la relazione di Lama al comitato direttivo della CGIL menzionata alla nota 10, e lo scritto di Scheda, L’unità dopo Firenze, in «Rinascita», 1970, n. 50, p. 4.