Luigi Mengoni
Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c8
È evidente in questi due paesi la preoccupazione di conservare la funzione del sindacato come unico interlocutore responsabile degli imprenditori, e di impedire la proliferazione alla periferia delle relazioni industriali di strutture collettive investite di poteri decisionali non controllati dai livelli superiori dell’organizzazione sindacale. Negli sviluppi più recenti tale politica di contenimento dei poteri delle sezioni sindacali d’impresa trova un correttivo nel conferimento (istituzionale in Olanda; mediante la prassi di un mandato conferito volta per volta dal sindacato, in Francia) della legittimazione a stipulare
{p. 234}contratti aziendali a delegazioni formate da rappresentanti del sindacato e da rappresentanti delle sezioni, eletti dai lavoratori che ad esse aderiscono. In Francia il correttivo è accentuato dal fatto che la rappresentanza del sindacato nella delegazione non è formata da dirigenti esterni, ma dagli stessi delegati sindacali interni, nominati (dal sindacato) tra i lavoratori occupati nell’impresa, e quindi soggetti anche al controllo della sezione.
Opposta è la linea di politica del diritto adottata dal legislatore italiano. La norma, già ricordata, che regola l’iniziativa per la costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali e le condizioni della loro legittimazione all’esercizio dei diritti strumentali all’azione sindacale nelle imprese, ha favorito la formazione alla base dell’organizzazione sindacale di una rete di strutture autonome di potere, derivanti da una fonte istituzionale (le assemblee di fabbrica) diversa dal sindacato, e tuttavia, in quanto da esso riconosciute, costituite quali organismi di rappresentanza del sindacato nelle unità produttive.
La legge non definisce tale competenza, lasciando uno spazio interamente libero alle determinazioni dell’autonomia collettiva. Benché il patto federativo delle tre maggiori confederazioni riconosca i consigli dei delegati come «l’istanza sindacale di base con poteri di contrattazione sui posti di lavoro», nella prassi i contratti collettivi d’impresa, integrativi e migliorativi del contratto di categoria, sono negoziati e conclusi dai consigli insieme con i dirigenti esterni dell’associazione territoriale o, nelle grandi imprese (per es. la Fiat), della federazione nazionale. È una prassi formalmente analoga a quella descritta dalle relazioni francese e olandese, ma con una differenza di fondo. In Olanda e Francia le delegazioni negoziatrici dei contratti aziendali derivano il loro potere dal sindacato e agiscono in posizione subalterna a questo: in Olanda sono una ristrutturazione dell’organo sindacale competente per tale funzione; in Francia sono una struttura distinta, ma legata al sindacato da un rapporto di mandato. In Italia, invece, la delegazione negoziatrice, pur comprendendo anche i dirigenti sindacali esterni, non è {p. 235}né organo, né mandataria dell’associazione, bensì esercita una competenza istituzionalmente propria dei consigli di fabbrica, fondata su una delega proveniente dalla generalità dei lavoratori, soci e non soci del sindacato, organizzati nelle assemblee che hanno eletto i consigli. Essa è una figura emblematica della compenetrazione del sindacato col movimento, che impone uno sforzo costante di coordinamento tra due principi organizzativi apparentemente contraddittori, il principio associativo e il principio assembleare o plebiscitario, al fine di coinvolgere nell’azione sindacale la generalità dei lavoratori [18]
. Il coordinamento procede con caratteri eminentemente pragmatici, difficilmente riconducibili a un modello teorico che chiarisca i meccanismi giuridici di integrazione delle due strutture e i nuovi criteri – sostitutivi o aggiuntivi del criterio tradizionale costituito dall’adesione formale al sindacato – che regolano l’imputazione soggettiva degli effetti giuridici degli atti di autonomia collettiva compiuti dalle organizzazioni di base.
Ma la fluidificazione delle strutture associative del sindacato nelle forme organizzative di massa, spontaneamente espresse dalla «base», non solo ha rovesciato la piramide del potere contrattuale, spostando il baricentro della contrattazione collettiva all’interno delle imprese, {p. 236}ma ha prodotto conseguenze più complesse, che mettono in questione lo stesso concetto di contratto collettivo. Un sindacato che cerca la legittimazione della sua egemonia nella spontaneità [19]
, è un sindacato restio ad impegnarsi, appunto perché la spontaneità recalcitra alle forme di disciplina del diritto. In effetti, la posizione della federazione unitaria delle tre maggiori confederazioni, teorizzata dalla sua punta più avanzata, la Federazione unificata dei lavoratori metalmeccanici, si colloca ben oltre il rifiuto delle clausole di tregua sindacale, cioè di una predeterminazione, nel contratto nazionale di categoria, delle materie sulle quali (soltanto) potrà aprirsi una contrattazione ulteriore ai livelli inferiori. Il modello di contrattazione articolata impostato sulla tecnica delle clausole di rinvio può considerarsi ormai generalmente superato: esso realizza un decentramento della contrattazione collettiva di tipo burocratico-amministrativo, senza modificarne le strutture di potere, mentre oggi si va affermando la tendenza a un decentramento di tipo istituzionale, che riconosce alla contrattazione aziendale una legittimazione autonoma e primaria, e riduce la funzione del contratto nazionale alle questioni per le quali non è possibile se non una regolamentazione uniforme per l’intera categoria (minimi di trattamento, criteri generali di classificazione delle mansioni ecc.) [20]
. Ma questa tendenza non implica di per sé che la contrattazione sia riproponibile su qualsiasi materia, anche sulle questioni già interamente definite dal contratto di categoria [21]
: non è strutturalmente incompatibile, per usare la terminologia della dottrina tedesca, con l’obbligo di pace «relativo», ma soltanto con l’ob{p. 237}bligo di pace «assoluto», sia pure temperato da eccezioni rigorosamente predeterminate da clausole di rinvio contenute nel contratto di categoria. La legge francese 16 luglio 1971 – che pur ha valorizzato la contrattazione aziendale, riconoscendola formalmente come strumento di autodisciplina collettiva dei rapporti di lavoro e disponendo anche per essa, nei confronti degli imprenditori, un obbligo di trattare su richiesta delle associazioni sindacali rappresentative – è esplicita: oltre che adattare le disposizioni del contratto di categoria alle condizioni particolari dell’impresa o dello stabilimento interessati, il contratto aziendale «può fissare il montante dei salari effettivi e quello dei compensi accessori, e introdurre altresì nuove disposizioni e clausole più favorevoli ai lavoratori» [22]
. In breve: esso può migliorare i minimi di trattamento fissati dal contratto di categoria e regolare nuove materie da questo non contemplate, ma non può rimettere in questione argomenti già compiutamente definiti in modo uniforme ai livelli superiori.
Anche il criterio minimo di coordinamento tra i due piani della contrattazione collettiva, rappresentato dall’«obbligo di pace relativo», è stato eliminato nel nuovo sistema contrattuale imposto dai mutati rapporti di forza in Italia. Il contratto collettivo non è più un contratto nel senso proprio di questo termine, ma si riduce a un semplice «constat» col quale le parti si danno atto che la vertenza in corso è chiusa sulla base di equilibri concordemente riconosciuti come linee di assetto delle relazioni industriali dalle quali non si tornerà più indietro, ma rispetto alle quali il sindacato non garantisce che non saranno in futuro, pur durante la vigenza del contratto, sollevate ulteriori pretese di spostamento in avanti, eventualmente sostenute da misure di lotta. È un’attitudine diversa dalla concezione del contratto collettivo, caratteristica del sistema inglese, come contratto non legalmente sanzionato per nessuna delle parti, ma impegnativo per {p. 238}entrambe nell’ordinamento extrastatuale delle relazioni industriali fondato sull’autonomia collettiva [23]
. Poiché nel diritto italiano le condizioni di trattamento dei lavoratori, fissate nel contratto collettivo, sono sanzionate dallo Stato con una norma di inserzione automatica nei contratti individuali di lavoro, e inoltre è illegittima la serrata come mezzo per ottenere una modificazione di tali condizioni, l’immagine del contratto collettivo costruita dai sindacalisti italiani si risolve nella pretesa che esso sia solo unilateralmente vincolante, cioè produttivo di obbligazioni «giustiziabili» soltanto per i datori di lavoro: una pretesa che, comunque la si giudichi da altri punti di vista, è certamente incompatibile con i principi del diritto civile, secondo i quali il contratto unilateralmente vincolante o è un atto di liberalità oppure non può ottenere la sanzione giuridica se non in quanto l’obbligazione assunta da una parte sia giustificata da una «causa data», cioè da una prestazione già eseguita dall’altra parte [24]
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Note
[18] Si sostiene da qualcuno che, nel riconoscere i consigli di fabbrica come propri organismi di base, l’associazione sindacale conferirebbe alle loro deliberazioni efficacia formalmente vincolante all’interno del proprio ordinamento, realizzando così una rottura del metodo associativo (Treu, Sindacato e rappresentanze aziendali, Bologna, 1971, p. 177). Ma non si comprende come la scelta politico-organizzativa del sindacato di sostituire alle sezioni sindacali aziendali i consigli dei delegati possa qualificarsi sul piano giuridico-formale in termini di equiparazione, quanto alla loro efficacia giuridica, delle deliberazioni dei consigli alle deliberazioni degli organi eletti dagli iscritti in seno all’associazione. La formazione della volontà di questa è una prerogativa indeclinabile, secondo le rispettive competenze, dell’assemblea dei soci e dell’organo amministrativo, e dunque non può essere rinviata a fonti esterne di determinazione formate dalla volontà di terzi. Tutt’al più si può parlare di un impegno politico dell’associazione di integrare nelle deliberazioni dei propri organi, eletti dagli iscritti ai livelli territoriali esterni, le sintesi primarie di volontà formulate dagli organismi di base, costituiti nei luoghi di lavoro fuori dalle strutture associative del sindacato.
[19] Mancini, Lo statuto dei lavoratori dopo le lotte operaie del 1969, in «Politica del diritto», 1970, p. 75.
[20] Secondo una risoluzione adottata nell’aprile 1971 dalla Federazione dei lavoratori metallurgici olandesi, «le condizioni di lavoro non devono essere regolate sul piano centrale che nella misura in cui ciò è necessario; per il resto, gli accordi devono essere conclusi singolarmente per ciascuna impresa» (v. la relazione nazionale).
[21] Cfr. Giugni, Il sindacato fra contratti e riforme, Bari, 1973, p. 25.
[22] Cfr. Despax, La réforme du droit des conventions collectives de travail, in «Droit social», 1971, pp. 537 s.
[23] Cfr. Kahn-Freund, op. cit., pp. 131, 134; e dello stesso autore, Intergroup conflicts and their settlement, nel volume collettaneo Collective Bargaining, a cura di Flanders, London, 1969, pp. 79 s.
[24] Non direi che la concezione del contratto collettivo come contratto giuridicamente vincolante per una sola parte (gli imprenditori) trovi un fondamento positivo, fuori dal diritto comune, nell’art. 40 Cost., che garantisce ai lavoratori il diritto di sciopero. Chiamare l’art. 40 a «presiedere alla costruzione del concetto di contratto collettivo» implica un’inversione di metodo. L’art. 40 non regola gli effetti del contratto collettivo, ma al contrario dipende dalla questione della presenza, tra questi effetti, del dovere di pace l’individuazione di un limite del diritto di sciopero. Del resto, nemmeno Giugni e Mancini, Movimento sindacale e contrattazione collettiva, in Atti, cit., (supra, nota 12), pp. 103 s., si fidano troppo di un simile argomento, e preferiscono impostare la loro tesi sul terreno dell’interpretazione della volontà delle parti. Ma daccapo: o si approda alla concezione del diritto inglese, secondo la quale il contratto collettivo è caratterizzato dalla volontà negativa di entrambe le parti di non impegnarsi giuridicamente, così che l’obbligo giuridico di pace non interviene in alcun modo a qualificare la sua funzione; oppure si finisce con l’accreditare una (a dir poco) singolare nozione di contratto collettivo, nel quale ima parte, mentre si attende e pretende che l’altra si impegni, rifiuta di impegnarsi a sua volta: insomma un contratto regolato per una parte (gli imprenditori) dal «diritto borghese» (cioè dal diritto dello Stato) ispirato al principio poeta sunt servando, per l’altra (il sindacato) dal «diritto rivoluzionario di classe», che considera quel principio una mistificazione.