Francesca Biondi Dal Monte, Simone Frega (a cura di)
Contrastare la dispersione scolastica
DOI: 10.1401/9788815413369/c12
Ma il problema dello spazio non riguarda solo le aree dove si svolgono le attività; esso infatti coinvolge l’intero edificio scolastico. In definitiva una strada da percorrere per realizzare scuole – comunità davvero inclusive – è quella di guardare con più attenzione alla dimensione della popolazione, certamente considerando meglio le superfici che debbono essere adeguatamente estese, ma anche il numero ottimale di persone, tra studenti e docenti. Da tempo, anche se attualmente ha perso un po’ di smalto, negli Stati Uniti
{p. 232}ha preso piede, sotto la spinta della pedagogista Deborah Meier, il movimento delle piccole scuole, le Small Schools. Famosa è l’esperienza della scuola superiore Theodore Roosevelt di New York. Questa realtà scolastica si stava deteriorando a causa di atti di violenza reiterati da parte di molti studenti. Nel gennaio del 2004 si ebbero ben 110 incidenti, cioè disordini se non vere e proprie azioni criminali. Fu così che il sindaco di allora Bloomberg decise di chiudere quella scuola frequentata da 1.500 studenti e di aprire al suo posto, nello stesso edificio, 6 piccole scuole superiori ciascuna con caratterizzazioni di indirizzo di studi, collocate in delimitate parti del grande edificio il quale negli anni passati aveva ospitato fino a 4.000 studenti. In tal modo diminuirono ben presto, e drasticamente, le azioni violente [23]
. Tra l’altro la promozione delle piccole scuole ha riguardato tutti i gradi scolastici ed è stata sostenuta anche dalla Fondazione Melinda e Bill Gates. Secondo Deborah Meier [24]
le dimensioni si connettono alla qualità degli apprendimenti e all’acquisizione di abiti democratici e partecipativi, anche perché la dimensione piccola consente il riconoscimento reciproco, una partecipazione effettiva, la collaborazione e la presa di decisioni condivisa. Il fatto che in Italia si sia preferita, invece, la grande dimensione e l’accentuazione del ruolo dell’istituto, rispetto alla scuola (plesso, indirizzo, sede), potrebbe essere un motivo che ostacola l’educazione alla cultura della cittadinanza di cui tanto abbiamo bisogno e un ingrediente che non facilita nella creazione di ambienti armoniosi privi di situazioni conflittuali, inclusivi. In sintesi le caratteristiche delle piccole scuole possono essere le seguenti [25]
:
la dimensione varia tra 200 e 400 (ma si arriva a 600 per le scuole superiori);{p. 233}
sono autonome o parzialmente autonome anche se collocate nello stesso edificio;
hanno un’identità precisa e sviluppano un più forte senso di appartenenza;
studenti e insegnanti si conoscono;
ogni studente ha un tutor;
sono maggiormente inclusive ovvero in grado di includere studenti con bisogni speciali;
adottano più forme di valutazione;
i genitori sono alleati critici;
vi sono possibilità di scelta dei percorsi da parte degli studenti.
Certo non è solo la dimensione – che comunque è un elemento da considerare per quanto riguarda lo spazio – l’ingrediente definitivo. Come abbiamo illustrato precedentemente, approfondendo l’approccio globale al curricolo e l’allineamento di hardware e software, bisogna progettare un intero sistema delle attività. Tuttavia la questione nel nostro paese è scarsamente dibattuta, in quanto da qualche decennio è stata data la priorità all’istituto scolastico che raggruppa non scuole ma plessi o, nel caso del livello superiore, sedi o indirizzi, puntando sui grandi aggregati e svilendo le scuole come unità di base. Il tutto senza avere a disposizione evidenze scientifiche circa l’impatto di questa strutturazione dimensionale – che può andare da 800 fino a 2.500 alunni – in termini di benessere e apprendimenti.


7. Lo spazio e la differenziazione dell’insegnamento

Dunque la dimensione è connessa alla densità della popolazione scolastica. Qui, allora, è interessante richiamarci a quanto teorizzato da Émile Durkheim, ritenuto il fondatore della sociologia. Questo autore aveva colto che il conflitto sociale – generato dalla densità e dall’egualitarismo di condizione della popolazione aggregata nei grandi centri urbani – poteva essere superato adottando un tipo di solidarietà che aveva definito organica, basata sulla differenziazione sociale del lavoro. In altre parole, aveva capito che ognuno {p. 234}poteva dare il proprio contributo specializzandosi in un certo tipo di attività: di infermiere, di falegname, di operaio, di medico, di sarto, di commerciante e così via. In questo modo ognuno poteva offrire il proprio contributo sociale, mentre al tempo stesso ciascuno poteva essere socialmente riconosciuto per il suo apporto, limitando così i possibili conflitti da competizione. La metafora è quella dell’organismo umano: ciascun organo – il fegato, la milza, i polmoni, il cuore, le braccia e così via – svolge il proprio ruolo specifico per il bene dell’intero corpo. In questa visione, inoltre, ciascuno poteva capire quale fosse il suo ruolo, la propria particolare vocazione. Durkheim [26]
in definitiva risolveva il problema del conflitto dovuto alla concentrazione – la densità – di soggetti in uno spazio ristretto, valorizzando la differenziazione del lavoro e le singole vocazioni. Si potrebbe allora applicare questa teorizzazione sulla densità sociale, alla densità scolastica, una densità, come abbiamo visto, che comunque gli ambienti formativi, seppure spazialmente ampliati, dovranno sempre governare, in quanto forieri di conflitti finanche nella gestione della classe. Così alla differenziazione sociale del lavoro può far da riscontro l’indirizzo della differenziazione dell’insegnamento applicando su piccola scala, cioè al livello micro della scuola, quanto Durkheim applicava su grande scala, al livello macro della società. Si tratta allora di far tesoro di pratiche didattiche personalizzate, di potenziare la peer education, sia a livello dei gruppi-classe che nell’intera scuola, dove i più grandi insegnano ai più piccoli e i più competenti in un settore aiutano i meno competenti, dove si riconoscono talenti, potenzialità, bisogni, interessi, magari utilizzando sistemi di profilazione, dove – per dirla con la fondatrice dell’indirizzo pedagogico della Differentiated Instruction [27]
– «ciascuno è incontrato là dov’è». Ciò vuol dire realizzare anche un contesto nel quale, ad esempio, si fanno attività diverse in contemporanea e dove si hanno margini {p. 235}di scelta piuttosto ampi. In generale questa prospettiva di solidarietà organica a livello micro potrebbe effettivamente contribuire a realizzare climi di comunità in grado di dare un contributo per migliorare la qualità dell’offerta formativa e per affrontare anche i fenomeni conflittuali che affliggono le nostre scuole e le nostre classi realizzando effettivamente contesti inclusivi.
Note
[24] D.W. Meier, The Big Benefits of Smallness, in «Educational Leadership», 54, 1, Alexandria, VA, ASCD, 1996, pp. 12-15.
[25] M. Klonsky e S. Klonsky, Small Schools: Public School Reform Meets the Ownership Society, New York-London, Routledge, 2008; Orsi, L’ora di lezione non basta, cit.
[26] É. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, Milano, Edizioni di Comunità, 1989 (ed. or. 1893).
[27] C.A. Tomlinson, How to Differentiate Instruction in Academically Diverse Classrooms, Alexandria, VA, ASCD, 2017.