Sindacato e rappresentanze aziendali
DOI: 10.1401/9788815412324/c4
Nei rapporti del delegato con il
gruppo, la mancanza
¶{p. 181}di un rapporto volontario, costituito
attorno a scelte politiche comuni, fra i componenti di questo può risultare alla lunga
un punto di debolezza rispetto alle vecchie formule associative e facilitare ancor più
quella dispersione di responsabilità già verificatasi negli organismi tradizionali
(specie nella CI), se il valore unificante del gruppo non si riscopre e si attiva
continuamente in una effettiva gestione comune degli interessi espressi al suo interno
[39]
. Una simile dispersione può essere addirittura facilitata dallo stesso
processo di unità sindacale, che, se elimina le chiusure e gli elementi frenanti
connessi alle divisioni associative, ne attutisce pur sempre i possibili effetti
dinamici sulla articolazione democratica dell’azione sindacale in azienda (anche se
questi non sono sempre realisticamente riscontrabili nella nostra esperienza recente).
Un correttivo istituzionale per contrastare la tendenza a una involuzione burocratica
dei delegati sta nella revocabilità programmaticamente attribuita alla loro posizione
[40]
. Ma un simile correttivo ha valore prevalentemente negativo, o addirittura
solo formale, se non è accompagnato da una effettiva presenza e controllo dei
rappresentanti nella direzione e nelle scelte del gruppo. Mentre in mancanza di queste
condizioni esso può costituire al contrario solo una ragione di instabilità e di
inferiorità della nuova struttura nei riguardi di quelle consolidate, specie delle CI e
del sindacato provinciale. In realtà appare chiaro che il mantenimento di una effettiva
articolazione democratica di questi, come di ogni organismo rappresentativo, non può
garantirsi sul mero piano delle soluzioni organizzativo-istituzionali. A queste spetta
il compito fondamentale di non creare ostacoli a ¶{p. 182}tale
articolazione, tenendo costantemente aperti i flussi di comunicazione fra rappresentanti
e rappresentati e quindi le possibilità di un reale confronto di posizioni fra essi.
L’uso di queste possibilità e quindi il significato effettivo della formula
istituzionale non sono verificabili se non in una prospettiva più vasta, dipendendo in
modo determinante dall’intera impostazione funzionale dell’attività sindacale e dalle
scelte politiche fondamentali di cui si alimenta
[41]
.
Parimenti delicati e di incerto
equilibrio si annunciano i rapporti degli istituti in esame con le altre forme
rappresentative tuttora sussistenti in azienda e, soprattutto, con il sindacato esterno.
Si è visto come la situazione di inferiorità in cui si trovano i delegati rispetto alle
CI e alle rappresentanze aziendali sindacali, pur essendo negata programmaticamente dai
metalmeccanici (ma i rappresentanti sindacali sono stati voluti in sede di
contrattazione nazionale)
[42]
, è tutt’ora lungi dall’essere superata nella prassi. È chiaro che una tale
disparità di trattamento comporta un’obiettiva riduzione dello spazio istituzionale già
precario assunto dal nuovo istituto ed è destinata a condizionarne sempre più
pesantemente con il tempo le possibilità di sviluppo. Nella misura in cui limita le
occasioni di gestire completamente le azioni sindacali in azienda anche nei confronti
della controparte, rischia di mettere in evidenza nel delegato prevalentemente le
funzioni di tramite o di collettore di proposte già proprie delle vecchie strutture
[43]
. Tanto più che nella trattazione delle questioni sindacali
¶{p. 183}generali assunte dal consiglio nei riguardi dell’azienda il
delegato può verificare il significato politico della sua azione ben più ampiamente e
con maggior consistenza che non nell’iniziativa isolata all’interno del singolo reparto.
È bensì vero che nella politica e nell’esperienza dei metalmeccanici i rappresentanti
aziendali — almeno per la FIM e per la FIOM — tendono a superare la loro originaria
configurazione rigidamente paritetica e dipendente dalle diverse affiliazioni sindacali
per essere designati unitariamente dallo stesso consiglio dei delegati al suo interno.
Ma anche così essi risultano individuati e legittimati ad agire in base a una scelta a
due livelli, che rende il loro legame con i gruppi operai indiretto e l’esercizio dei
loro poteri delegati ancora meno controllabile da questi. Al contrario, in un simile
contesto risulta tanto più facile che prenda rilievo il loro rapporto con il sindacato
esterno e che la loro azione, o addirittura la loro nomina, ricada di fatto in un
sostanziale controllo delle strutture tradizionali secondo la regola delle esperienze passate
[44]
. Con il persistere di una simile tendenza tali figure potrebbero delineare
progressivamente un gruppo informale fra i delegati, provvisto di poteri cruciali,
capace di riprodurre, questa volta all’interno del consiglio, le trame dell’affiliazione
e della struttura sindacale e di garantire nei termini tradizionali la direzione delle
più rilevanti iniziative in azienda. Considerazioni non dissimili valgono per i membri
di Commissione interna, che, come si diceva, persistono in larga misura a svolgere
compiti sindacali di primo piano nell’azione aziendale, consolidati nelle tradizionali
posizioni di potere e sottratti ormai completamente a una verifica diretta del loro
mandato da parte dei lavoratori. Anche la loro presenza all’interno del consiglio dei
delegati tende ad assumere rilievo di gruppo informale, riconosciuto come tale
dall’azienda e legato da ¶{p. 184}rapporti privilegiati con il
sindacato. La singolarità della posizione appare tanto maggiore nella prospettiva,
presente soprattutto nella CGIL, di una eventuale definitiva sopravvivenza dell’istituto
(sia pure con compiti ridimensionati), che riconfermerebbe il pluralismo delle forme di
rappresentanza dei lavoratori in azienda, già radicato nella nostra tradizione. Quale
che sia il fondamento storico di un simile pluralismo
[45]
, tutta la nostra esperienza recente dimostra quanto la delimitazione dei
compiti della CI sia aleatoria teoricamente e soprattutto difficile da attuare in
concreto andando contro a una tradizione che la vede largamente protagonista dell’azione
sindacale in azienda. Basta questo per avvertire che la permanenza dell’istituto si pone
ancora una volta come un punto centrale di contraddizione nel problema delle
rappresentanze sindacali aziendali, capace di condizionare pesantemente le direttive di
evoluzione dei delegati e dei loro consigli, così come condizionò i tentativi di avvio
delle sezioni sindacali.
A monte di questi problemi e delle
diverse alternative indicate stanno infine i rapporti dei nuovi organismi con
¶{p. 185}le strutture tradizionali del sindacato esterno e più in
generale i collegamenti degli stessi con i livelli di azione superiori a quello
aziendale. Appunto in questi rapporti e collegamenti si rivelano più nette le tensioni
insite nella posizione ambivalente dei delegati. Non a caso nel tentativo di risolverle
sono fallite o hanno mostrato gravi deficienze esperienze storiche condotte su figure
simili, come quella, pur collaudatissima, degli shop stewards inglesi
[46]
. Si è sopra indicato come la prospettiva più radicalmente innovatrice
indicata dagli istituti in esame stia nella possibilità di superare la tradizionale
separazione fra sindacato e lavoratori nel momento delle decisioni. Per questa
prospettiva il delegato e il consiglio vengono ad assumere, ben più saldamente
dell’assemblea generale, nuove funzioni di aggregazione politica dei lavoratori e
insieme di mediazione sullo stesso piano, coprendo un vuoto fra essi e il sindacato
esterno solo precariamente riempito dalle strutture aziendali tradizionali. Ma perché
questa possibilità, per ora solo postulata, si realizzi, occorre che il sindacato
rinunci non solo formalmente a una propria struttura subalterna in azienda, diretta
secondo i modi tradizionali, ed eviti di intervenire nei riguardi dei consigli e dei
delegati sovrapponendo ad essi la propria logica organizzativa
[47]
.
¶{p. 186}
Note
[39] Inoltre il delegato non può non essere condizionato, pure in negativo, dal livello medio di coscienza politica e conflittuale del gruppo che esprime. Anche per tale ragione acquista tanto maggiore importanza la necessità di inserire o collegare la figura e la sua attività in istituti più ampi, quali il consiglio di fabbrica e le stesse strutture extra-aziendali. Simili rilievi risultano espressi sovente dagli interessati già nella nostra sommaria rilevazione; ma vedili altresì sottolineati nella recente ricerca di Aglieta, Bianchi, Merli-Brandini, I delegati operai, Roma, 1970, pp. 103 sgg.
[40] Questo carattere di revocabilità è sottolineato da quasi tutti i documenti dei metalmeccanici menzionati nel n. 1 del presente capitolo.
[41] Così, fra i molti, con particolare chiarezza, l’intervento di Ronconi, nella tavola rotonda su I nuovi strumenti del rapporto sindacatolavoratori, in «Quaderni di Rassegna sindacale», cit., p. 16.
[42] In quella sede «l’aver evitato ogni riferimento alla figura del delegato ed aver imboccato la strada di un riconoscimento dei soli rappresentanti per ognuno dei tre sindacati appare dunque — osserva la Castellina (Il movimento dei delegati, cit.) — piuttosto una scelta che una prudente e voluta astensione». La stessa scelta è implicita, come si diceva, nello statuto dei lavoratori.
[43] Sono queste del resto le funzioni tuttora emergenti di regola dalla prima contrattazione aziendale in materia e da una sommaria valutazione della prassi. Per una analisi di questa iniziale esperienza contrattuale vedi lo scritto di Romagnoli, Sviluppi recenti della contrattazione aziendale, cit., pp. 617 sgg.
[44] Un rilievo simile si trova, ad esempio, in Aglieta, Bianchi, Merli Brandini, I delegati operai, cit., p. 109, i quali rilevano appunto come a questo livello la posizione della figura e i suoi rapporti con le strutture tradizionali siano «complicati dalla necessità di assicurare un’equa rappresentanza alle forze sindacali».
[45] Secondo un recente tentativo di interpretazione (Baglioni, L’istituto della commissione interna e la questione della rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, cit., pp. 190 sgg.), questo pluralismo sarebbe particolarmente congeniale al tipo di sindacalismo espresso dalla più recente esperienza italiana, caratterizzato da obiettivi di tutela conflittuale delle condizioni professionali dei lavoratori e insieme da un atteggiamento antagonistico nei riguardi del presente assetto sociale. Alla CI, in quanto istituto di rappresentanza generale dei lavoratori e manifestazione del principio «plebiscitario», sarebbe prevalentemente affidato il primo compito, mentre il perseguimento di obiettivi antagonistici dovrebbe spettare essenzialmente al sindacato, in quanto parte più attiva o avanguardia della classe operaia. Senza voler discutere nel merito tale ipotesi, importa però ribadire che nella nostra più recente esperienza proprio figure organizzative espressione della generalità dei lavoratori hanno assunto funzioni dirompenti nei riguardi di equilibri sindacali e politici esistenti, superando così nettamente un’azione di mera tutela minimale dei diritti dei dipendenti. In realtà tali figure, in particolare delegati e consigli, tendono a rappresentare, come si dirà oltre nel testo, nuove forme di aggregazione dei lavoratori e in questo senso di avanguardia, fondate sulla partecipazione diretta dei lavoratori all’azione sindacale e non ristrette dal legame associativo. Di un simile fenomeno, anche se la sua consistenza dovrà essere verificata in un periodo di tempo più lungo, non può non tenersi conto nel valutare le prospettive della rappresentanza operaia nei luoghi di lavoro.
[46] Anche se questi, a differenza dell’iniziale esperienza italiana, sono espressione diretta degli iscritti ai sindacati nei posti di lavoro. Sulle attuali caratteristiche strutturali della figura e sui suoi rapporti con i sindacati territoriali vedi i recenti Research Papers di McCarthy (The Role of Shop Stewards in British Industriai Relations, n. 1, London, 1967, spec. pp. 4 sgg) e di McCarthy-Parker (Shop Stewards and Workshop Relations, n. 10, London. 1968, spec. pp. 34 sgg.) preparati per la Royal Commission on Trade Unions and Employers’ Associations.
[47] Si tratta di una condizione minima per creare una effettiva nuova dialettica sindacale. Da più parti — com’è noto — si è peraltro ritenuto essenziale, per una piena espressione delle potenzialità dei nuovi istituti, un loro sviluppo in strutture proprie, anche extra-aziendali, distinte da quelle sindacali, sul modello consiliare, che «possano costituire la premessa di una strategia politica di più ampia portata, di una strategia che si proponga la conquista non solo di «più potere in fabbrica», ma «del potere»: così, in particolare, Castellina, Il movimento dei delegati, cit., p. 25. Un rischio di queste proposte, da molti messo in rilievo, è di lasciare irrisolto «il problema della saldatura fra massa dei lavoratori e sindacato di tipo nuovo» o anzi di riportarne indietro la soluzione «creando una divisione istituzionale fra organizzazione operaia espressa dal basso — nuova, unitaria — e sindacato»: così C. Perna, nel resoconto sulla Montedison di Portomarghera, in «Quaderno di Rassegna sindacale», cit., p. 85, e anche Garavini, Strutture dell’autonomia operaia sul luogo di lavoro, ibidem, pp. 25 sgg., nonché la relazione di Lama, al comitato direttivo della CGIL, del dicembre 1970, cit., e Antoniazzi, Per lo sviluppo dei consigli, cit., p. 11.