Tiziano Treu
Sindacato e rappresentanze aziendali
DOI: 10.1401/9788815412324/c4
A monte di questi problemi e delle diverse alternative indicate stanno infine i rapporti dei nuovi organismi con {p. 185}le strutture tradizionali del sindacato esterno e più in generale i collegamenti degli stessi con i livelli di azione superiori a quello aziendale. Appunto in questi rapporti e collegamenti si rivelano più nette le tensioni insite nella posizione ambivalente dei delegati. Non a caso nel tentativo di risolverle sono fallite o hanno mostrato gravi deficienze esperienze storiche condotte su figure simili, come quella, pur collaudatissima, degli shop stewards inglesi [46]
. Si è sopra indicato come la prospettiva più radicalmente innovatrice indicata dagli istituti in esame stia nella possibilità di superare la tradizionale separazione fra sindacato e lavoratori nel momento delle decisioni. Per questa prospettiva il delegato e il consiglio vengono ad assumere, ben più saldamente dell’assemblea generale, nuove funzioni di aggregazione politica dei lavoratori e insieme di mediazione sullo stesso piano, coprendo un vuoto fra essi e il sindacato esterno solo precariamente riempito dalle strutture aziendali tradizionali. Ma perché questa possibilità, per ora solo postulata, si realizzi, occorre che il sindacato rinunci non solo formalmente a una propria struttura subalterna in azienda, diretta secondo i modi tradizionali, ed eviti di intervenire nei riguardi dei consigli e dei delegati sovrapponendo ad essi la propria logica organizzativa [47]
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Rifiutate dai settori sindacali in esame le forme più evidenti di una simile sovrapposizione (quali, ad esempio, la designazione unilaterale del delegato da parte sindacale, ovvero la sua elezione su liste separate), non sono per ciò solo escluse (e anzi la prassi ne dà già conferma) interferenze più indirette, come un uso rigorosamente determinato in via associativa dei rappresentanti sindacali, unito a un loro potenziamento obiettivo all’interno del Consiglio, forme più o meno palesi di ratifica sindacale dei delegati eletti, o, più in generale, un controllo preventivo informale dei delegati da eleggere tale da equivalere a una precostituzione concordata (interferenza questa facilmente attuabile nella fase di convocazione delle assemblee di reparto, largamente dominata, come si è visto, dalle vecchie strutture) [48]
. Nella stessa logica si inserisce la tendenza a pretendere una sindacalizzazione totale dei nuovi istituti, intendendola schematicamente come unanimità di iscrizione dei loro membri al sindacato e sfruttando il vincolo associativo degli stessi secondo la funzione storicamente ben sperimentata di veicolo di direttive.
Tendenze di questo genere risultano obiettivamente rafforzate in una fase, come la presente, di transizione verso l’unità sindacale, ove alle preoccupazioni, comuni a tutti i sindacati, di conservare la direzione del nuovo istituto, si aggiungono quelle delle singole organizzazioni di consolidare, o almeno di mantenere, le zone di influenza acquisite nelle varie aziende. Ma esse non sono meno {p. 187}pericolose nella stessa prospettiva unitaria, ove questa comportasse, per le ragioni sopra accennate, una ulteriore riduzione degli spazi di autonomia per forme di dissenso o di dialettica organizzata intrasindacale.
È certo comunque che di fronte all’affermarsi di prassi siffatte il fondamento elettivo dei delegati e dei consigli sarebbe meno che mai sufficiente a sottrarli a una completa integrazione nell’organizzazione sindacale esterna secondo la regola delle esperienze passate. Il rapporto di questi istituti con il sindacato riprodurrebbe immutato il contenuto meramente strumentale proprio di tutta la esperienza delle sezioni sindacali e continuerebbe ad essere privilegiato, agli effetti decisionali, rispetto al legame con i gruppi omogenei di lavoratori in azienda. Con la conseguenza che si ricreerebbero i presupposti della impasse storica riscontrata nelle sezioni, e la nuova struttura perderebbe i caratteri di originalità e di autonomia necessari a svolgere utili funzioni di mediazione politica e ad operare come fattore di rinnovamento dello stesso sindacato.
Per ragioni analoghe verrebbe ad alterarsi anche il significato effettivo dell’attività contrattuale esercitabile dai delegati e dai consigli. Caduto lo strumento di controllo esterno sulla contrattazione in azienda previsto per un decennio dalle clausole di rinvio, la medesima direzione dall’esterno dell’iniziativa contrattuale sui luoghi di lavoro continuerebbe ad essere realizzata in via interna dal sindacato territoriale usando dei propri poteri associativi [49]
. E una simile direzione esterna modificherebbe in radice la posizione dei delegati nel consiglio, elidendo o attenuando la loro responsabilità verso i gruppi che li esprimono e ostacolando la elaborazione in quella sede di {p. 188}politiche sindacali che trovino negli interessi degli stessi gruppi il loro punto di partenza, sia pure da valutarsi in sintesi successive più ampie.
Alla soluzione delle alternative indicate è legato in modo determinante il problema della proiezione delle nuove strutture al di fuori dell’azienda e dell’ambito di tematica ad essa direttamente attinente. Si tratta di un quesito cui non si può ovviamente rispondere in questa sede e che del resto non è stato oggetto ancora di analisi e di valutazioni definitive. Certo sembra escluso che una risposta adeguata possa consistere in una mera trasposizione della formula dei delegati e dei consigli a livello extra-aziendale, ad esempio, sostituendo in tutto o in parte, come si è proposto, i vecchi organismi direttivi dei sindacati territoriali (zonali e provinciali per ora) con nuove strutture elette direttamente dai consigli di fabbrica [50]
. A parte l’ostacolo già rilevato della non generale estensibilità in modo significativo dei delegati a tutte le unità produttive, simili organismi elettivi, per la loro stessa posizione extra-aziendale, non riprodurrebbero automaticamente in sé quei fattori di dinamismo democratico impliciti nella connessione strutturale dei delegati con i singoli gruppi omogenei di lavoratori. Così pure verrebbe a mancare ad essi la verifica diretta dell’assemblea, che, con il suo allargarsi ad ambiti più vasti del gruppo omogeneo e ancor più dell’azienda, diventa sempre meno agevole quale strumento decisionale e rischia di logorarsi, secondo quanto risulta già dall’esperienza [51]
. In realtà ancora una volta il problema {p. 189}dell’allargamento dei nuovi organismi oltre la dimensione aziendale non si risolve nei meri aspetti strutturali e organizzativi, ma attiene più generalmente ai profili funzionali degli stessi istituti. Per impostarlo in modo effettivamente innovativo occorre superare il presupposto, radicato anche nella esperienza sindacale più avanzata, secondo cui le competenze di tali organismi vanno di per sé ristrette a materie rivendicative attinenti alla realtà aziendale, mentre le linee generali dell’azione sindacale e specialmente le più vaste questioni politiche restano riservate alla elaborazione e alla decisione delle strutture tradizionali esterne. Una simile rigida distinzione di ambiti, già messa in crisi dalle esperienze del ’68-’69 in larghi settori della società, e per altro verso contestata dai sindacati nei confronti dei partiti, deve cadere anche all’interno dello stesso sindacato [52]
, cosicché l’intera sua strategia di azione possa avvalersi di un confronto fra tutte le posizioni espresse ai vari livelli. In tale prospettiva potrà essere necessaria una revisione delle varie strutture sindacali esterne come quella sopra indicata, ma sarà soprattutto indispensabile permettere all’interno degli organismi di fabbrica lo sviluppo di queste più vaste competenze, impostando anche su di esse collegamenti fra le varie aziende e con realtà istituzionali non operaie [53]
{p. 190}e soprattutto, in negativo, non bloccando i flussi di informazioni essenziali a un intervento efficace in materia. Quest’ultimo punto è tanto più importante in quanto le informazioni di cui si tratta sono di norma accentrate, in parte per tradizione e in parte per necessità istituzionale, e non possono essere verificate dalle rappresentanze di fabbrica con sicurezza neppur lontanamente pari alle notizie relative alla realtà aziendale e contrattuale. D’altra parte in mancanza di tali condizioni l’ambivalenza dei nuovi istituti rischia di risolversi con il prevalere della loro tendenza alla frammentazione aziendalistica e corporativa o con un loro progressivo insterilimento tale da renderle inadatte anche ad avviare un processo di rinnovamento del sindacato.
Nella logica così accennata è chiaro infine come lo stesso coordinamento delle iniziative sindacali non possa risultare da un processo di direzione burocratica da parte delle vecchie strutture territoriali sulle nuove, ma attraverso sintesi e confronti politici successivi a livelli sempre più ampi dell’organizzazione, quali andranno storicamente configurandosi con l’estendersi del processo unitario, anche in forme direttamente riconducibili a una elezione da parte degli organismi di fabbrica. In modo non difforme va affrontata e soddisfatta l’esigenza, messa in rilievo nella concezione associativa del sindacato, ma fondamentale nell’intera esperienza sindacale, di dare a tale azione una identità di contenuto e di obiettivi che la qualifichi come unitaria e che motivi un’adesione significativa dei lavoratori. Questa identità non può assumersi garantita e condivisa per il mero fatto della iscrizione a un’organizzazione preesistente, che non riveste un valore di per sé privilegiato e preclusivo. Per non rivelarsi illusoria o peggio ancora strumentale e mistificante, l’identità sindacale e politica deve risultare da una verifica continua,
{p. 191}attuata con la partecipazione di tutti i lavoratori, delle linee direttive che la definiscono, degli strumenti e delle forme organizzative che devono attuarla [54]
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Note
[46] Anche se questi, a differenza dell’iniziale esperienza italiana, sono espressione diretta degli iscritti ai sindacati nei posti di lavoro. Sulle attuali caratteristiche strutturali della figura e sui suoi rapporti con i sindacati territoriali vedi i recenti Research Papers di McCarthy (The Role of Shop Stewards in British Industriai Relations, n. 1, London, 1967, spec. pp. 4 sgg) e di McCarthy-Parker (Shop Stewards and Workshop Relations, n. 10, London. 1968, spec. pp. 34 sgg.) preparati per la Royal Commission on Trade Unions and Employers’ Associations.
[47] Si tratta di una condizione minima per creare una effettiva nuova dialettica sindacale. Da più parti — com’è noto — si è peraltro ritenuto essenziale, per una piena espressione delle potenzialità dei nuovi istituti, un loro sviluppo in strutture proprie, anche extra-aziendali, distinte da quelle sindacali, sul modello consiliare, che «possano costituire la premessa di una strategia politica di più ampia portata, di una strategia che si proponga la conquista non solo di «più potere in fabbrica», ma «del potere»: così, in particolare, Castellina, Il movimento dei delegati, cit., p. 25. Un rischio di queste proposte, da molti messo in rilievo, è di lasciare irrisolto «il problema della saldatura fra massa dei lavoratori e sindacato di tipo nuovo» o anzi di riportarne indietro la soluzione «creando una divisione istituzionale fra organizzazione operaia espressa dal basso — nuova, unitaria — e sindacato»: così C. Perna, nel resoconto sulla Montedison di Portomarghera, in «Quaderno di Rassegna sindacale», cit., p. 85, e anche Garavini, Strutture dell’autonomia operaia sul luogo di lavoro, ibidem, pp. 25 sgg., nonché la relazione di Lama, al comitato direttivo della CGIL, del dicembre 1970, cit., e Antoniazzi, Per lo sviluppo dei consigli, cit., p. 11.
[48] Per alcune indicazioni sul grado di «dipendenza sindacale» dei delegati, valutata in base a indici diversi, dei delegati in alcune aziende dell’Italia del nord, vedi i primi risultati di una ricerca di Della Rocca e Paci, L’atteggiamento dei delegati verso il sindacato, presentati al seminario di Ancona, cit., in I sindacati nell’economia e nella società italiana.
[49] Un altro strumento di controllo dall’esterno sulla iniziativa contrattuale in azienda consiste nella stessa scelta dei temi e degli obiettivi generali di contrattazione operata dai sindacati territoriali, il cui contenuto non può non condizionare nel merito le decisioni degli organismi di fabbrica. Va da sé che il coordinamento organico di queste scelte risponde a un’esigenza imprescindibile di strategia sindacale; ma la questione aperta è di definire i modi di tale coordinamento, evitando che si esprimano in mere direttive burocratiche e accentrate.
[50] La proposta emerge chiaramente nell’assemblea nazionale della FIM e nel congresso della FIOM del luglio 1970, citati, e viene in seguito ripresa da altri documenti di categoria. Più vaghi sono gli accenni a una partecipazione dei delegati alle strutture extra-aziendali del sindacato, nel dibattito al comitato centrale della CGIL del dicembre 1970 (citato a nota 10) e nelle stesse tesi per la II Conferenza nazionale unitaria dei metalmeccanici, parte II, ove si parla di rappresentanze esterne dei delegati, nella fase di transizione all’unità, come strutture parallele ai comitati direttivi sindacali unitari zonali o provinciali (vedi ora, in appendice, le risoluzioni finali della conferenza).
[51] Tanto più quando l’assemblea non si giovi immediatamente della spinta di precise rivendicazioni contrattuali e delle relative azioni di lotta, che hanno costituito l’occasione più proficua del suo impiego. A ciò si aggiunga che ben pochi tentativi si sono registrati finora di impiegare tale strumento al di fuori di simile contesto, su temi più vasti e lato sensu politici.
[52] In ambito sindacale una simile necessità è sottolineata con particolare insistenza dalla FIM, nel quadro di una generale accentuazione del ruolo politico autonomo del sindacato, che contraddistingue la recente evoluzione ideologica di questa organizzazione. In proposito vedi, da ultimo, gli scritti di Antoniazzi, Bentivogli, Corato, nel dossier su I consigli di fabbrica, in «Dibattito sindacale», cit., pp. 5 sgg.; e, in genere, per la evoluzione della FIM sul tema citato, Sciavi, Le due CISL, cit., pp. 25 sgg. e Castellina, Il convegno della FIM: la scoperta della politica, in «Il Manifesto», 1970, n. 7-8, p. 19. Il tema della funzione politica dei delegati e dei consigli è ripreso radicalmente dalle diverse tesi che assegnano a tali istituti il compito di formare una organizzazione della classe operaia atta ad esprimerne un potere politico diretto al di fuori della rete democratica istituzionale (vedi nota 47).
[53] Così, in generale, gli scritti indicati alla nota precedente; cui aggiungi Galli, Relazione alla commissione nazionale di organizzazione della FIOM (dic. 1970), in «Esperienze e orientamenti», 1970, dicembre, cit., p. 8. Una simile proiezione dei consigli fuori dell’azienda, tale da farli diventare progressivamente la base istituzionale per una nuova configurazione dei sindacati territoriali, è suscettibile di estendere la crisi del procedimento associativo a tutta la struttura sindacale, alterandone in modo ancora più radicale la natura, e riconducendola integralmente a una formula aperta di partecipazione.
[54] In una simile prospettiva il momento dialettico rispetto alla generalità indifferenziata dei lavoratori, necessario per una verifica politicamente significativa e per una azione efficace, sarebbe costituito non da organismi controllati istituzionalmente dagli «iscritti» (i quali potranno agire all’interno del fenomeno), ma da strutture organizzative espresse da tutti i lavoratori che le scelgono e ne sostengono l’azione. La stessa unitarietà o pluralità di queste strutture (niente esclude che possano riprodursi all’interno del movimento forme organizzative diverse), dipenderà di volta in volta dai risultati storici di tale verifica condotta a partire dalla fabbrica.