Sergio Brillante
«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c4
Si capisce bene che con un tale maestro, la posizione politica di Marrou non era priva di pericoli e tanto più è degna quindi di ammirazione l’espressione della sua critica contro la politica coloniale italiana, che, tuttavia, si segnala anche per l’assenza di una presa di posizione contro il colonialismo in quanto tale. I suoi articoli, infatti, incorniciano la politica imperiale italiana, ma per riflettere soprattutto sulle ripercussioni di tale fenomeno all’interno della società, sull’espressione del consenso e sui rapporti fra capo e massa in un regime che si presenta come un nuovo credo. Ciò potrebbe sorprendere da parte di chi più tardi, nel 1956, si farà coraggioso accusatore dei crimini perpetrati dai Francesi in Algeria [72]
, ma anche in questi scritti più tardi, la polemica è sempre contro le degenerazioni, non contro
{p. 181}il fenomeno stesso. Con una certa coerenza, da un suo primo intervento sul tema nel 1931 e fino all’impegnativo contributo introduttivo nel volume simbolico della denuncia contro la Francia coloniale, La question algérienne, del 1958, Marrou sostiene che il colonialismo europeo possa rappresentare un incremento di civiltà per i popoli africani, a condizione di essere condotto secondo modalità non inumane [73]
. Marrou dà cioè per assodata una sperequazione fra le civiltà, in ragione della quale gli Europei non solo si trovano in una fase più avanzata, ma godono di prestigio presso gli Africani che vogliono pertanto imitarne i costumi e adottarne le qualità morali. Lo studioso francese condanna quindi fermamente tutti quegli atti violenti commessi dai colonizzatori europei, dal momento che impediscono questo processo di assimilazione volontaria. È una visione «missionaria» dei rapporti fra i due soggetti che non solo ha il difetto di farsi arbitrariamente interprete dei pensieri delle popolazioni colonizzate, ma che, interpretando le pratiche di torture e di segregazione perpetrate dagli Europei come delle deviazioni, non considera quanto di strutturalmente violento vi è nel processo coloniale.
Marrou seppe dunque rappresentare una voce critica in momenti di «grande silenzio» [74]
, ma senza che ciò abbia comportato un ripensamento della sua interpretazione del colonialismo come processo positivo messo in atto dall’Europa, culla della civiltà, e dalla Francia, patria dei Diritti dell’uomo. Si tratta evidentemente di stereotipi, la cui forza si dimostra nel non essere intaccati dalle coeve accuse che Marrou era in grado di muovere, ad esempio, contro il ricorso alla tortura nelle carceri algerine. Una volta creato un {p. 182}modello fisso, ciò che devia dal sistema viene considerato una distorsione, invece di essere integrato come elemento che partecipa alla definizione di quello stesso modello.

5. «Debellare superbos»: il timido dissenso di Ettore Ciccotti

Rispetto agli stranieri, la posizione degli studiosi italiani che volevano esprimere un dissenso nei confronti del nuovo impero, salvaguardando però il loro ruolo all’interno della società, fu segnata necessariamente da maggiori rischi e inevitabili compromissioni. Rischi, perché l’espressione del dissenso, anche quando dissimulata, non era certo vista di buon occhio. Basti a dimostrarlo il caso di Piero Treves che, nel 1934, pubblicava un articolo su «La Cultura» contro Cesare e gli storici italiani che ne inneggiavano ciecamente l’operato, provocando la confisca della rivista e la censura del suo contributo [75]
. Si avevano invece compromissioni nei casi in cui si dovevano assecondare le richieste dei gruppi cui si era formalmente affiliati, anche quando esse non corrispondevano alle proprie, private, convinzioni. È il caso di Manara Valgimigli, un esempio di non adesione al regime per molti fra quanti gli furono vicino in quegli anni. La sua firma al Manifesto Croce, il suo prolungato rifiuto della tessera del PNF, la sua amicizia col comunista Marchesi ne facevano uno di quei professori che definivano la particolare fisionomia politica della «non allineata» Facoltà di Lettere dell’Università di Padova. Tuttavia, in quel tornante, non poté esimersi dal dettare un’iscrizione che ricordasse il dono della fede nuziale come «oro alla patria», fatto dalle donne familiari dei docenti dell’Università [76]
.
Questi due possibili scenari – rischio e compromissione – coesistono nell’itinerario di Ettore Ciccotti. Pur essendo {p. 183}stato, come si è visto (cap. II, § 4.1), membro attivo del PSI e grande sostenitore di una politica di pace e disarmo internazionale, a partire dal 1914 iniziò progressivamente a schierarsi su posizioni più militariste e reazionarie. Prese posizione a favore dell’intervento con sempre maggiore convinzione via via che il conflitto avanzava e le sue dichiarazioni in favore della guerra gli valsero il plauso di Mussolini, che gli chiese, con successo, di contribuire al «Popolo d’Italia» [77]
. Poi, nel 1917, redasse il manifesto del Fascio Parlamentare di Difesa Nazionale [78]
e promosse un progetto di legge A pro dei militari combattenti per il quale ottenne gli apprezzamenti di Enrico Corradini [79]
. In questo mutamento di campo un ruolo importante fu svolto senz’altro dall’insistenza fatta nel contesto bellico sul «dovere patriottico», che travagliò i socialisti e che in Ciccotti si saldò alle posizioni filorisorgimentali proprie della sua giovinezza e della sua famiglia. A questo elemento è poi da aggiungere anche una borghese esigenza d’ordine, che, costantemente espressa nelle prose di Ciccotti, portò lo studioso a percepire sempre più i moti popolari e le forze di opposizione come fattori disgreganti del corpo sociale. Il tutto si legò infine al suo antiparlamentarismo e alla sua sfiducia nelle classi lavoratrici come soggetto politico, tipica anche dei maggiori esponenti dell’elitismo italiano, con cui Ciccotti collaborava e di cui condivideva le idee [80]
. Di tali elementi si nutrì quindi la sua difesa dell’operato fascista e fu anche per tali ragioni che egli ottenne la nomina a senatore nel settembre 1924, poco dopo l’omicidio Matteotti. Tuttavia, anche tale collocazione politica non sarà mantenuta a lungo dal Ciccotti, ed è proprio dal Senato che, a partire dal 1925, egli inizierà a manifestare apertamente il suo dissenso nei {p. 184}confronti del regime e a criticare coraggiosamente le politiche mussoliniane [81]
. Si trattava di una polemica che non poteva durare e che, in ogni caso, era del tutto inutile in quella sede e Ciccotti presto la abbandonò, isolandosi completamente.
Nel 1935, tuttavia, tornò a far sentire la propria voce, sia pure unicamente con un monosillabo. Insieme a solo altri diciassette senatori votò, infatti, in maniera contraria al decreto legge con cui si autorizzavano spese militari straordinarie per la campagna di Etiopia [82]
. A promuovere il progetto era Thaon di Revel, che aveva messo la questione all’ordine del giorno per il 9 dicembre 1935, sottolineando che in quell’occasione il Senato del Regno era tutto insieme unito contro le sanzioni e «pienamente solidale con il capo del Governo». Tutto ciò che il Senato, già destituito di molte delle sue prerogative, poteva ormai fare si limitava a un concorde assenso delle politiche fasciste [83]
. Ben si comprende allora quanto anche un singolo rifiuto potesse turbare l’armonia del coro.

5.1. Il monosillabo

La forza dirompente della presa di posizione di Ciccotti si può misurare dai tentativi fatti da alcuni dei suoi colleghi di dissuaderlo da quel voto contrario, come sappiamo da una lettera conservata fra le carte dello studioso oggi depositate presso l’Archivio di Stato di Potenza. Il mittente è Salvatore Barzilai, il quale, dopo essere stato fra i fondatori del Partito Repubblicano, si trovò sempre più vicino al fascismo negli anni Trenta, soprattutto per quanto riguarda l’opposizione {p. 185}alle sanzioni. Scrivendo a Ciccotti il giorno prima della seduta, questi tentò di dissuaderlo dal pronunciare il «monosillabo». Affermava di fare quel tentativo dopo molti altri, ma confidava nel fatto che l’amico sarebbe stato maggiormente disposto ad ascoltarlo, essendo anche lui uomo di sinistra e non iscritto al PNF. Provò quindi a convincere Ciccotti che solo votando in favore di quell’ordine del giorno, lo studioso avrebbe potuto riacquistare nell’assemblea il suo antico prestigio e, attraverso di esso, la sua antica facoltà di riuscire a dire «cose che gli altri si limitarono a pensare». Ciccotti gli rispose però che, pur essendo tendenzialmente disposto a «non creare alcuna difficoltà a chi ha la responsabilità diretta del Governo in momenti difficili», non avrebbe potuto cedere su tale argomento, «malgrado il boicottaggio esercitato contro di me» [84]
.
È di questa sua presa di posizione che ci si ricorderà ancora due anni dopo, quando Ciccotti scrisse al segretario generale del Senato lamentandosi di non aver ricevuto una delle copie del volume celebrativo Dal Regno all’Impero [85]
, inviate in dono al Senato dall’Accademia dei Lincei. Si trattava naturalmente di poco più di un pretesto, per mezzo del quale Ciccotti voleva far notare la gerarchia e la disparità di trattamento creatasi all’interno della Camera Alta fra quanti erano iscritti al PNF o membri dell’Unione Fascista del Senato e quanti – pochi – non lo erano; «il che può darsi – commentò ironicamente Ciccotti – sia fatto per richiamare il Senato ad una tradizione, del resto dubbia, del Senato Romano, di non so quale periodo, ove vi sarebbe stata una categoria di senatori di second’ordine detti pedarii».
La denuncia fatta da Ciccotti arrivava troppo tardi e l’anacronismo della sua protesta fu crudelmente rilevato da Luigi Federzoni che, in qualità di presidente del Senato, rispose allo studioso, con una lunga lettera l’8 giugno 1937. Egli rimise in riga il suo interlocutore, ricordandogli proprio la sua posizione nei confronti della guerra d’Etiopia. Disponendo di sole cento copie del volume linceo inneggiante al
{p. 186}nuovo impero, Federzoni precisò di non averlo calcolato fra i destinatari dell’omaggio non perché non iscritto al PNF – sadica messa in chiaro della situazione cui Ciccotti aveva prudentemente solo alluso attraverso il riferimento antiquario ai pedarii –, ma perché non aveva cooperato in alcun modo «all’azione coloniale dell’Italia in generale e all’impresa etiopica in particolare». Si trattava di una trasparente allusione alla posizione assunta dallo storico nel 1935, anche allora sotto la medesima presidenza; il dissenso non poteva essere negato di diritto nell’aula del Senato, ma lo era di fatto [86]
.
Note
[72] H.-I. Marrou, France, ma patrie…, in «Le Monde», 5 aprile 1956. Cfr. S. Rey, Ne pas quitter «la terre d’Afrique». Les Antiquisants, l’Algérie française et la déclaration du 23 mai 1956, in «Anabases», 15, 2012, pp. 71-84.
[73] H.-I. Marrou, Le problème colonial et l’idée de civilisation, in «Politique», giugno 1931, pp. 588-609 (poi in Crise de notre temps et réflexion chrétienne, Paris, Beauchesne, 1978, pp. 159-174, la citazione che segue nel testo è a p. 165); Id., Colonisation et décolonisation, in J. Dresch et al., La question algérienne, Paris, Éditions de Minuit, 1958, pp. 7-30.
[74] Così Vidal-Naquet (in Marrou, Crise de notre temps et réflexion chrétienne, cit., pp. 195-199) a proposito dell’articolo del 1956, ma l’espressione può valere anche per i suoi scritti sul colonialismo italiano.
[75] C. Franco, Piero Treves: «Interpretazioni di Giulio Cesare», in «Quaderni di Storia», 37, 1993, pp. 115-126.
[76] A. Ventura, Carlo Anti rettore magnifico e la sua Università, in Carlo Anti. Giornate di studio nel centenario della nascita, Trieste, LINT, 1992, pp. 155-222: 180.
[77] ASP, Fondo Pedio, Carte E. Ciccotti, b. 31, fasc. 20, doc. 130 (15 dicembre 1915).
[78] E. Ciccotti, Cronache quadriennali di politica italiana ed estera. 1919-1923, Milano, Unitas, 1924, pp. 49-54.
[79] ASP, Fondo Pedio, Carte E. Ciccotti, b. 31, fasc. 29, doc. 42 (22 dicembre 1917). Cfr. APCD, 20 dicembre 1917, p. 15284.
[80] Con Vilfredo Pareto, in particolare, Ciccotti fondò la benemerita Biblioteca di storia economica.
[81] E. Ciccotti, Socialismo e libertà. Scritti e discorsi, a cura di T. Pedio, Bari, Levante, 1983.
[82] Gli altri furono M. Abbiate, L. Albertini, A. Bergamini, A. Bollati, A. Capece Minutolo di Bugnano, A. Casati, E. Catellani, B. Croce, L. Della Torre, L. Einaudi, L. Gavazzi, A. Loria, A. Marghieri, G. Sanarelli, E. Scalini, C. Sforza, V. Volterra (elencati in una delle liste dei senatori «dissidenti» prodotte sotto la presidenza Suardo; cfr. online: urly.it/3s6c8, 11 febbraio 2023).
[83] APS, 9 dicembre 1935, pp. 1553-1557: 1556.
[84] ASP, Fondo Pedio, Carte E. Ciccotti, bb. 31-34.
[85] L. Federzoni, Dal Regno all’Impero, Roma, Bardi, 1937.
[86] I documenti citati sono nel fascicolo personale di Ciccotti presso l’Archivio del Senato (online: urly.it/3nc7s, 11 febbraio 2023).