«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c4
Si capisce bene che con un tale
maestro, la posizione politica di Marrou non era priva di pericoli e tanto più è degna
quindi di ammirazione l’espressione della sua critica contro la politica coloniale
italiana, che, tuttavia, si segnala anche per l’assenza di una presa di posizione contro
il colonialismo in quanto tale. I suoi articoli, infatti, incorniciano la politica
imperiale italiana, ma per riflettere soprattutto sulle ripercussioni di tale fenomeno
all’interno della società, sull’espressione del consenso e sui rapporti fra capo e massa
in un regime che si presenta come un nuovo credo. Ciò potrebbe sorprendere da parte di
chi più tardi, nel 1956, si farà coraggioso accusatore dei crimini perpetrati dai
Francesi in Algeria
[72]
, ma anche in questi scritti più tardi, la polemica è sempre contro le
degenerazioni, non contro
¶{p. 181}il fenomeno stesso. Con una certa
coerenza, da un suo primo intervento sul tema nel 1931 e fino all’impegnativo contributo
introduttivo nel volume simbolico della denuncia contro la Francia coloniale,
La question algérienne, del 1958, Marrou sostiene che il
colonialismo europeo possa rappresentare un incremento di civiltà per i popoli africani,
a condizione di essere condotto secondo modalità non inumane
[73]
. Marrou dà cioè per assodata una sperequazione fra le civiltà, in ragione
della quale gli Europei non solo si trovano in una fase più avanzata, ma godono di
prestigio presso gli Africani che vogliono pertanto imitarne i costumi e adottarne le
qualità morali. Lo studioso francese condanna quindi fermamente tutti quegli atti
violenti commessi dai colonizzatori europei, dal momento che impediscono questo processo
di assimilazione volontaria. È una visione «missionaria» dei rapporti fra i due soggetti
che non solo ha il difetto di farsi arbitrariamente interprete dei pensieri delle
popolazioni colonizzate, ma che, interpretando le pratiche di torture e di segregazione
perpetrate dagli Europei come delle deviazioni, non considera quanto di strutturalmente
violento vi è nel processo coloniale.
Marrou seppe dunque rappresentare
una voce critica in momenti di «grande silenzio»
[74]
, ma senza che ciò abbia comportato un ripensamento della sua interpretazione
del colonialismo come processo positivo messo in atto dall’Europa, culla della civiltà,
e dalla Francia, patria dei Diritti dell’uomo. Si tratta evidentemente di stereotipi, la
cui forza si dimostra nel non essere intaccati dalle coeve accuse che Marrou era in
grado di muovere, ad esempio, contro il ricorso alla tortura nelle carceri algerine. Una
volta creato un ¶{p. 182}modello fisso, ciò che devia dal sistema viene
considerato una distorsione, invece di essere integrato come elemento che partecipa alla
definizione di quello stesso modello.
5. «Debellare superbos»: il timido dissenso di Ettore Ciccotti
Rispetto agli stranieri, la
posizione degli studiosi italiani che volevano esprimere un dissenso nei confronti del
nuovo impero, salvaguardando però il loro ruolo all’interno della società, fu segnata
necessariamente da maggiori rischi e inevitabili compromissioni. Rischi, perché
l’espressione del dissenso, anche quando dissimulata, non era certo vista di buon
occhio. Basti a dimostrarlo il caso di Piero Treves che, nel 1934, pubblicava un
articolo su «La Cultura» contro Cesare e gli storici italiani che ne inneggiavano
ciecamente l’operato, provocando la confisca della rivista e la censura del suo contributo
[75]
. Si avevano invece compromissioni nei casi in cui si dovevano assecondare le
richieste dei gruppi cui si era formalmente affiliati, anche quando esse non
corrispondevano alle proprie, private, convinzioni. È il caso di Manara Valgimigli, un
esempio di non adesione al regime per molti fra quanti gli furono vicino in quegli anni.
La sua firma al Manifesto Croce, il suo prolungato rifiuto della tessera del PNF, la sua
amicizia col comunista Marchesi ne facevano uno di quei professori che definivano la
particolare fisionomia politica della «non allineata» Facoltà di Lettere dell’Università
di Padova. Tuttavia, in quel tornante, non poté esimersi dal dettare un’iscrizione che
ricordasse il dono della fede nuziale come «oro alla patria», fatto dalle donne
familiari dei docenti dell’Università
[76]
.
Questi due possibili scenari –
rischio e compromissione – coesistono nell’itinerario di Ettore Ciccotti. Pur essendo
¶{p. 183}stato, come si è visto (cap. II, § 4.1), membro attivo del PSI
e grande sostenitore di una politica di pace e disarmo internazionale, a partire dal
1914 iniziò progressivamente a schierarsi su posizioni più militariste e reazionarie.
Prese posizione a favore dell’intervento con sempre maggiore convinzione via via che il
conflitto avanzava e le sue dichiarazioni in favore della guerra gli valsero il plauso
di Mussolini, che gli chiese, con successo, di contribuire al «Popolo d’Italia»
[77]
. Poi, nel 1917, redasse il manifesto del Fascio Parlamentare di Difesa Nazionale
[78]
e promosse un progetto di legge A pro dei militari
combattenti per il quale ottenne gli apprezzamenti di Enrico Corradini
[79]
. In questo mutamento di campo un ruolo importante fu svolto senz’altro
dall’insistenza fatta nel contesto bellico sul «dovere patriottico», che travagliò i
socialisti e che in Ciccotti si saldò alle posizioni filorisorgimentali proprie della
sua giovinezza e della sua famiglia. A questo elemento è poi da aggiungere anche una
borghese esigenza d’ordine, che, costantemente espressa nelle prose di Ciccotti, portò
lo studioso a percepire sempre più i moti popolari e le forze di opposizione come
fattori disgreganti del corpo sociale. Il tutto si legò infine al suo
antiparlamentarismo e alla sua sfiducia nelle classi lavoratrici come soggetto politico,
tipica anche dei maggiori esponenti dell’elitismo italiano, con cui Ciccotti collaborava
e di cui condivideva le idee
[80]
. Di tali elementi si nutrì quindi la sua difesa dell’operato fascista e fu
anche per tali ragioni che egli ottenne la nomina a senatore nel settembre 1924, poco
dopo l’omicidio Matteotti. Tuttavia, anche tale collocazione politica non sarà mantenuta
a lungo dal Ciccotti, ed è proprio dal Senato che, a partire dal 1925, egli inizierà a
manifestare apertamente il suo dissenso nei ¶{p. 184}confronti del
regime e a criticare coraggiosamente le politiche mussoliniane
[81]
. Si trattava di una polemica che non poteva durare e che, in ogni caso, era
del tutto inutile in quella sede e Ciccotti presto la abbandonò, isolandosi
completamente.
Nel 1935, tuttavia, tornò a far
sentire la propria voce, sia pure unicamente con un monosillabo. Insieme a solo altri
diciassette senatori votò, infatti, in maniera contraria al decreto legge con cui si
autorizzavano spese militari straordinarie per la campagna di Etiopia
[82]
. A promuovere il progetto era Thaon di Revel, che aveva messo la questione
all’ordine del giorno per il 9 dicembre 1935, sottolineando che in quell’occasione il
Senato del Regno era tutto insieme unito contro le sanzioni e «pienamente solidale con
il capo del Governo». Tutto ciò che il Senato, già destituito di molte delle sue
prerogative, poteva ormai fare si limitava a un concorde assenso delle politiche fasciste
[83]
. Ben si comprende allora quanto anche un singolo rifiuto potesse turbare
l’armonia del coro.
5.1. Il monosillabo
La forza dirompente della presa
di posizione di Ciccotti si può misurare dai tentativi fatti da alcuni dei suoi
colleghi di dissuaderlo da quel voto contrario, come sappiamo da una lettera
conservata fra le carte dello studioso oggi depositate presso l’Archivio di Stato di
Potenza. Il mittente è Salvatore Barzilai, il quale, dopo essere stato fra i
fondatori del Partito Repubblicano, si trovò sempre più vicino al fascismo negli
anni Trenta, soprattutto per quanto riguarda l’opposizione
¶{p. 185}alle sanzioni. Scrivendo a Ciccotti il giorno prima della
seduta, questi tentò di dissuaderlo dal pronunciare il «monosillabo». Affermava di
fare quel tentativo dopo molti altri, ma confidava nel fatto che l’amico sarebbe
stato maggiormente disposto ad ascoltarlo, essendo anche lui uomo di sinistra e non
iscritto al PNF. Provò quindi a convincere Ciccotti che solo votando in favore di
quell’ordine del giorno, lo studioso avrebbe potuto riacquistare nell’assemblea il
suo antico prestigio e, attraverso di esso, la sua antica facoltà di riuscire a dire
«cose che gli altri si limitarono a pensare». Ciccotti gli rispose però che, pur
essendo tendenzialmente disposto a «non creare alcuna difficoltà a chi ha la
responsabilità diretta del Governo in momenti difficili», non avrebbe potuto cedere
su tale argomento, «malgrado il boicottaggio esercitato contro di me»
[84]
.
È di questa sua presa di
posizione che ci si ricorderà ancora due anni dopo, quando Ciccotti scrisse al
segretario generale del Senato lamentandosi di non aver ricevuto una delle copie del
volume celebrativo Dal Regno all’Impero
[85]
, inviate in dono al Senato dall’Accademia dei Lincei. Si trattava
naturalmente di poco più di un pretesto, per mezzo del quale Ciccotti voleva far
notare la gerarchia e la disparità di trattamento creatasi all’interno della Camera
Alta fra quanti erano iscritti al PNF o membri dell’Unione Fascista del Senato e
quanti – pochi – non lo erano; «il che può darsi – commentò ironicamente Ciccotti –
sia fatto per richiamare il Senato ad una tradizione, del resto dubbia, del Senato
Romano, di non so quale periodo, ove vi sarebbe stata una categoria di senatori di
second’ordine detti pedarii».
La denuncia fatta da Ciccotti
arrivava troppo tardi e l’anacronismo della sua protesta fu crudelmente rilevato da
Luigi Federzoni che, in qualità di presidente del Senato, rispose allo studioso, con
una lunga lettera l’8 giugno 1937. Egli rimise in riga il suo interlocutore,
ricordandogli proprio la sua posizione nei confronti della guerra d’Etiopia.
Disponendo di sole cento copie del volume linceo inneggiante al
¶{p. 186}nuovo impero, Federzoni precisò di non averlo calcolato fra
i destinatari dell’omaggio non perché non iscritto al PNF – sadica messa in chiaro
della situazione cui Ciccotti aveva prudentemente solo alluso attraverso il
riferimento antiquario ai pedarii –, ma perché non aveva
cooperato in alcun modo «all’azione coloniale dell’Italia in generale e all’impresa
etiopica in particolare». Si trattava di una trasparente allusione alla posizione
assunta dallo storico nel 1935, anche allora sotto la medesima presidenza; il
dissenso non poteva essere negato di diritto nell’aula del Senato, ma lo era di fatto
[86]
.
Note
[72] H.-I. Marrou, France, ma patrie…, in «Le Monde», 5 aprile 1956. Cfr. S. Rey, Ne pas quitter «la terre d’Afrique». Les Antiquisants, l’Algérie française et la déclaration du 23 mai 1956, in «Anabases», 15, 2012, pp. 71-84.
[73] H.-I. Marrou, Le problème colonial et l’idée de civilisation, in «Politique», giugno 1931, pp. 588-609 (poi in Crise de notre temps et réflexion chrétienne, Paris, Beauchesne, 1978, pp. 159-174, la citazione che segue nel testo è a p. 165); Id., Colonisation et décolonisation, in J. Dresch et al., La question algérienne, Paris, Éditions de Minuit, 1958, pp. 7-30.
[74] Così Vidal-Naquet (in Marrou, Crise de notre temps et réflexion chrétienne, cit., pp. 195-199) a proposito dell’articolo del 1956, ma l’espressione può valere anche per i suoi scritti sul colonialismo italiano.
[75] C. Franco, Piero Treves: «Interpretazioni di Giulio Cesare», in «Quaderni di Storia», 37, 1993, pp. 115-126.
[76] A. Ventura, Carlo Anti rettore magnifico e la sua Università, in Carlo Anti. Giornate di studio nel centenario della nascita, Trieste, LINT, 1992, pp. 155-222: 180.
[77] ASP, Fondo Pedio, Carte E. Ciccotti, b. 31, fasc. 20, doc. 130 (15 dicembre 1915).
[78] E. Ciccotti, Cronache quadriennali di politica italiana ed estera. 1919-1923, Milano, Unitas, 1924, pp. 49-54.
[79] ASP, Fondo Pedio, Carte E. Ciccotti, b. 31, fasc. 29, doc. 42 (22 dicembre 1917). Cfr. APCD, 20 dicembre 1917, p. 15284.
[80] Con Vilfredo Pareto, in particolare, Ciccotti fondò la benemerita Biblioteca di storia economica.
[81] E. Ciccotti, Socialismo e libertà. Scritti e discorsi, a cura di T. Pedio, Bari, Levante, 1983.
[82] Gli altri furono M. Abbiate, L. Albertini, A. Bergamini, A. Bollati, A. Capece Minutolo di Bugnano, A. Casati, E. Catellani, B. Croce, L. Della Torre, L. Einaudi, L. Gavazzi, A. Loria, A. Marghieri, G. Sanarelli, E. Scalini, C. Sforza, V. Volterra (elencati in una delle liste dei senatori «dissidenti» prodotte sotto la presidenza Suardo; cfr. online: urly.it/3s6c8, 11 febbraio 2023).
[83] APS, 9 dicembre 1935, pp. 1553-1557: 1556.
[84] ASP, Fondo Pedio, Carte E. Ciccotti, bb. 31-34.
[85] L. Federzoni, Dal Regno all’Impero, Roma, Bardi, 1937.
[86] I documenti citati sono nel fascicolo personale di Ciccotti presso l’Archivio del Senato (online: urly.it/3nc7s, 11 febbraio 2023).