«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c4
La denuncia fatta da Ciccotti
arrivava troppo tardi e l’anacronismo della sua protesta fu crudelmente rilevato da
Luigi Federzoni che, in qualità di presidente del Senato, rispose allo studioso, con
una lunga lettera l’8 giugno 1937. Egli rimise in riga il suo interlocutore,
ricordandogli proprio la sua posizione nei confronti della guerra d’Etiopia.
Disponendo di sole cento copie del volume linceo inneggiante al
¶{p. 186}nuovo impero, Federzoni precisò di non averlo calcolato fra
i destinatari dell’omaggio non perché non iscritto al PNF – sadica messa in chiaro
della situazione cui Ciccotti aveva prudentemente solo alluso attraverso il
riferimento antiquario ai pedarii –, ma perché non aveva
cooperato in alcun modo «all’azione coloniale dell’Italia in generale e all’impresa
etiopica in particolare». Si trattava di una trasparente allusione alla posizione
assunta dallo storico nel 1935, anche allora sotto la medesima presidenza; il
dissenso non poteva essere negato di diritto nell’aula del Senato, ma lo era di fatto
[86]
.
5.2. L’opposizione del senatore
La necessità di salvaguardare
almeno la parvenza delle vecchie istituzioni è tipica dei cambi di regime basati
sull’accentramento del potere. Ciò può dare luogo a sovrapposizioni di funzioni e
contraddizioni formali fra vari enti senza che però vi sia mai un contrasto nei
fatti, perché chiunque si trovi inserito in quel sistema riconosce la verità di un
codice non scritto che dirime ogni questione.
A differenza della Camera dei
Deputati, il Senato era ancora formalmente sottoposto allo Statuto Albertino. Nel
tentativo di autolegittimarsi come forza rivoluzionaria e conservatrice insieme, il
fascismo non aveva infatti riformato la Camera Alta e ciò, insieme alla durata
vitalizia della carica, garantì la persistenza al suo interno di un piccolo numero
di senatori liberali che attraversò il Ventennio senza mai abbandonare il proprio
posto. Si trattava naturalmente di una libertà nominale più che effettiva. Il
controllo sull’Istituto era garantito anzitutto dal suo svuotamento di significato,
con il trasferimento effettivo delle sue funzioni fondamentali (potere legislativo)
ad altri enti, ma anche con altri strumenti, quali la creazione dell’Unione
Nazionale Fascista del Senato, il controllo della composizione del gruppo dei
¶{p. 187}senatori attraverso progressive «infornate» e la attenta
cura nella scelta di presidenti di sicura fedeltà, i quali, come si è visto,
sapevano all’occorrenza anche esercitare forme di pressione sui dissidenti
[87]
.
Incurante del funzionamento
de facto dell’Istituto, Ciccotti
sfruttò questa incoerenza del sistema e si avvalse della possibilità di esprimere
liberamente il suo voto, ancora formalmente garantita ai senatori. Le conseguenze di
quel gesto potevano risolversi nella forma privata del «boicottaggio», ma certamente
non tradursi in una condanna pubblica e, mostrando una notevole forza d’animo,
Ciccotti ritenne di poter tollerare tale trattamento.
Si tratta di una maniera di
concepire il proprio ruolo politico all’interno del regime, che Ciccotti stesso rese
esplicita in un documento che egli volle accompagnasse la sua attestazione di
giuramento al fascismo in quanto docente universitario. Così scriveva nel 1931:
Sono chiamato, almeno ne’ termini dell’ordine costituzionale esistente, a giudicare con la parola e col voto a tutti gli eventuali disegni, progetti, iniziative ed impreveduti svolgimenti, che, come membro del Senato, io sono legalmente doverosamente chiamato a criticare, a respingere, ad emendare e possibilmente abrogare con la parola e col voto [88] .
Ciccotti si faceva forte della
sua formazione di giurista per far notare il controsenso di quel giuramento. «Almeno
ne’ termini dell’ordine costituzionale esistente», esso si risolveva infatti in un
evidente vizio di forma, poiché non poteva garantire completa fedeltà al fascismo
se, in quanto senatore, era in realtà chiamato a discutere le politiche del regime e
¶{p. 188}votarle secondo coscienza. Tuttavia, mentre metteva in luce
tale falla del sistema, lo studioso faceva chiaramente un atto di sottomissione. Il
problema più evidente di un’opposizione tutta interna alle possibilità legali
nominalmente garantite risiedeva, infatti, nella necessità di doversi comunque
adeguare al sistema nel momento in cui la legge stessa venisse modificata. Una volta
divenuto obbligatorio, Ciccotti non poté cioè rifiutare il giuramento al regime.
Secondo le medesime modalità,
anche il rischio assunto da Ciccotti con la sua opposizione all’ordine del giorno
Thaon di Revel si legò a un atto di compromissione. L’11 dicembre, Ciccotti offriva
infatti la propria medaglietta d’oro di senatore in qualità di «oro alla patria»
[89]
. È tuttavia da notare che la maggioranza dei senatori aveva già compiuto
il medesimo gesto nei primi due giorni di dicembre, quando la proposta era stata
informalmente avanzata da Federzoni. Il ritardo di Ciccotti è dovuto verosimilmente
al fatto che nel corso della medesima seduta in cui vennero deliberati finanziamenti
straordinari per le spese militari, il Senato stabiliva anche che ciascun membro
avrebbe consegnato la sua medaglietta. Pur contrario, Ciccotti non poteva infrangere
una risoluzione decisa dalla maggioranza e si adeguò pertanto alla scelta,
vanificando completamente la forza del suo monosillabo.
Nel momento in cui era
subordinata alla legge, ogni possibilità di resistenza al fascismo perdeva di fatto
gran parte della sua forza e la vera opposizione di Ciccotti al regime, ben più che
nella sfera pubblica, poté manifestarsi nei suoi studi.
5.3. L’opposizione dello studioso
Nel 1938, per la collana
einaudiana dei Saggi, da poco inaugurata, venne pubblicata
quella che sarà l’ultima monografia di Ettore Ciccotti, un Profilo di
Augusto
[90]
. Ognuno ¶{p. 189}dei dati bibliografici appena evocati
ha la sua importanza per comprendere il contesto in cui si inseriva quel libro. La
casa editrice e la collana sono infatti già di per sé rivelatrici della sua
collocazione politica. La serie dei Saggi, apertasi nel 1936
con il Voltaire, politico dell’Illuminismo di Raimondo Craveri,
mirava proprio alla pubblicazione di titoli che rivalutassero correnti di pensiero
estranee alla cultura fascista. Inoltre, è il caso di ricordare che Luigi Einaudi,
per la cui «Rivista di Storia Economica» Ciccotti aveva già pubblicato un lavoro
sulle leggi matrimoniali augustee (1937, n. 4), era anch’egli qualificato come
senatore «dissidente», non iscritto al PNF e contrario all’ordine del giorno Thaon
di Revel. Non si saprebbe dire se l’idea di un volume su Augusto fosse dell’autore o
dell’editore, ma la sua data di pubblicazione ne chiarisce l’origine. I mesi a
cavallo fra il 1937 e il 1938 sono quelli del bimillenario augusteo, il momento in
cui l’esaltazione incondizionata del princeps raggiunse il suo
culmine, unendo diverse voci in un unico e, sostanzialmente, monocorde elogio; con
l’eccezione di Ciccotti.
L’operazione compiuta dallo
studioso nel suo libro può essere individuata nell’inserire l’operato di Augusto nel
divenire storico, piuttosto che isolarlo da quello in modo da poterlo più facilmente
innalzare. Volgendosi verso il passato, Ciccotti dimostrava quanto l’azione del
princeps fosse stata in realtà debitrice dei germi prodotti
in età repubblicana. Così era ad esempio per i poeti e gli scrittori cosiddetti
«augustei», formatisi negli anni della res publica, nonostante
Augusto vantasse il fiorire delle arti e delle lettere sotto il suo governo.
Volgendo invece lo sguardo verso le epoche posteriori ad Augusto, Ciccotti
sottolineava come proprio nel tempo del princeps si fossero
gettate le basi per la futura decadenza. In questo ambito, l’autore sembra in più
punti voler tracciare delle leggi che deterministicamente conducano necessariamente
le «autocrazie» alla rovina. Se si pensa alle sue difficoltà nell’attività
senatoria, non stupisce che un’esemplificazione di ciò la si possa ritrovare in una
delle riflessioni sul rapporto istaurato fra Augusto e i membri dell’antica classe
dirigente, definito come «uno dei drammi ¶{p. 190}delle autocrazie,
che è pure il dramma di quelli che vi sono assoggettati». Dice infatti Ciccotti:
L’autocrazia, in una certa fase della storia, batte in breccia la feudalità per attirarla nella reggia e farne de’ cortigiani che, fragili e fiacchi sostegni, cedono poi facilmente e traggono in ruina chi li sostiene e che dovrebbero sostenere. In un’altra fase si aggrega, con mezzi artificiosi e illusori, strumenti e proseliti, che mancano di intima vitalità per la più generale compressione di energie, le quali possono essere consistenti e feconde solo in quanto sorgano e crescano nella libera e naturale competizione che le susciti e le alimenti (pp. 90-91).
Per effetto di questo
itinerario, è quindi fatale che il sistema autocratico, logorato nelle basi del suo
potere, dopo un certo tempo crolli.
Anche i riferimenti al
colonialismo fascista che si intravedono nel libro rientrano per l’appunto in questo
schema. Nel volgersi al passato, Ciccotti aveva buon gioco nell’affermare che
l’espansione della potenza romana era sostanzialmente una realizzazione
repubblicana. La pubblicistica servile sul princeps, tutta
presa dall’equiparazione di antico e nuovo impero, fingeva in certi casi di non
accorgersi che il più delle conquiste romane si era realizzato nei tempi della
repubblica (o tutt’al più sotto Traiano). Nell’analisi di Ciccotti, invece, l’impero
era chiaramente definito «l’opera secolare della Repubblica», «l’opera collettiva
del popolo romano sotto l’insegna repubblicana» (p. 103), di cui «l’autocrazia
diveniva poi “l’occupante” e “l’erede”» (p. 105). Augusto non aveva invece
realizzato alcuna conquista e Ciccotti ravvisa in questo particolare una specifica
del suo regime rispetto alla tipologia di governo da esso rappresentato. «Gli
autocrati – afferma infatti lo studioso –, d’ordinario, dovendo farsi perdonare la
confiscata libertà e il potere assoluto, ricorrono a miraggi di conquiste, onde
lampeggiano a’ soggetti beneficii spesso sognati od effimeri e al dominatore ancor
più effimero prestigio» (pp. 61-62). Al contrario, Augusto non poteva che imporsi
con la garanzia della pace su una società ormai stremata dalle guerre civili. Poiché
l’allusione ai «miraggi di conquiste» non s’inseriva
¶{p. 191}nell’analisi dell’operato augusteo, se non e
contrario, la sua presenza non può che spiegarsi con riferimento agli
eventi contemporanei.
Note
[86] I documenti citati sono nel fascicolo personale di Ciccotti presso l’Archivio del Senato (online: urly.it/3nc7s, 11 febbraio 2023).
[87] Cfr. M. Di Napoli, s.v. Senato del Regno, in V. De Grazia e S. Luzzatto, Dizionario del fascismo, Torino, Einaudi, 2005, vol. II, pp. 618-621; Senato della Repubblica, Il totalitarismo alla conquista della Camera Alta, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002.
[88] Il documento è nel fascicolo personale di Ciccotti presso l’Archivio del Senato (cfr. supra, nota 86); cfr. J. Nelis, Ettore Ciccotti’s Profilo di Augusto and the Giuramento of 1931, in «Mediterraneo Antico», 12, 2009, pp. 283-296.
[89] ASP, Fondo Pedio, Carte E. Ciccotti, bb. 31-34.
[90] Cfr. J. Nelis, Impérialisme romain et fascisme, entre adhésion idéologique et opposition à la construction d’un mythe, in «Cahiers de la Méditerranée», 101, 2020, pp. 59-70.