«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c4
Galassi Paluzzi trovò
giustificate le osservazioni del collaboratore e ne trasmise il contenuto a
Siciliani. L’autore accettò sì di attenuare i toni
[51]
, ma non volle rinunciare alla nozione – storicamente inattaccabile – di
«tradimento», perché nel finale della sua relazione sosteneva la necessità «nelle
guerre coloniali» di «individuare bene il capo» e «colpirlo all’inizio
inesorabilmente» facendo ricorso ad ogni mezzo possibile. Se i Romani avessero preso
subito in considerazione l’idea del tradimento, la guerra giugurtina non sarebbe
durata così a lungo né avrebbe a tal punto corroso la struttura politica
repubblicana. Allo stesso modo avrebbero
¶{p. 171}dovuto comportarsi
gli Italiani. A dire di Siciliani, infatti, la Cirenaica moderna non sarebbe stata
sottomessa con tanta difficoltà se «la pattuglia che catturò Omar al Mukhtar nel
1931, avesse avuto la ventura di incontrarlo qualche anno prima». La guerra antica
serviva così a presentare come necessaria la poco civile impiccagione del capo
senussita e a riflettere sugli errori strategici commessi dagli Italiani, che
avrebbero dovuto fare immediato ricorso anche a mezzi disdicevoli, pur di eliminare
al più presto il comandante dei ribelli e concludere rapidamente la guerra libica.
La remissività di Momigliano di
fronte alle annotazioni di Galassi Paluzzi, su cui ci si è soffermati nel precedente
paragrafo, non ha quindi un corrispettivo nell’atteggiamento di Siciliani. Ciò si
può chiaramente imputare a una scelta personale e al desiderio del giovane
Momigliano di trovare affermazione presso un ente che assicurava pubblico e
notorietà, ma è anche il risultato della particolare struttura del sistema in cui
tali personalità agivano. A differenza dello studioso piemontese, Siciliani riuscì a
tenere testa a Galassi Paluzzi perché avvertiva di trovarsi in una posizione di
superiorità rispetto a un istituto culturale che di fatto delegittimava gli approcci
scientifici alla storia antica per accordare invece un posto d’onore a chi faceva di
una certa idea della storia romana fomite vivo all’azione nel presente. Nella sua
vasta attività culturale, l’ISR promosse un approccio anti-intellettuale che trovava
la propria cifra nel dilettantismo e nella convinzione che il mimetismo
dell’esperienza antica fosse la sola via per comprendere la storia di Roma. Il
militare che equiparava i conflitti moderni a quelli antichi aveva maggiore diritto
ad esprimersi, rispetto allo studioso che trovava nelle fonti letterarie antiche una
definizione dell’Urbe sgradita alla sensibilità contemporanea e quindi meritevole di
essere rimossa.
3.3. L’inconcludenza
Dalla rassegna delle attività
dell’ISR legate alle politiche coloniali italiane emerge un altro tratto ricorrente,
che ¶{p. 172}è quello della loro inconcludenza. Rispetto ai molti
piani progettati, pochi sono i risultati e, significativamente, sono coronate da
successo unicamente le iniziative che non prevedono altri soggetti o altri luoghi
rispetto a quelli interni allo stesso ISR. Pur animando un ente attivo e ben
presente nella realtà italiana, Galassi Paluzzi fallisce ogni volta che tenta di
rapportarsi alle istituzioni presenti sul territorio coloniale. Sono segnati da
insuccesso già il primo dialogo con Melchiori e la collaborazione con l’Istituto
Fascista di Cultura a Tripoli e più clamoroso ancora, visto il tempo e le energie
impiegati, è il naufragato piano di creazione di sezioni distaccate dell’Istituto a
Tripoli e ad Addis Abeba.
Le difficoltà che in entrambi
quei casi si rivelarono a Galassi Paluzzi derivavano da unico difetto, la totale
ignoranza della realtà nella quale si aspirava a operare. Nel 1934, il
rappresentante dell’Istituto di Cultura tripolino fece notare l’inesistenza di un
pubblico in colonia attratto da iniziative culturali. Nel 1936, invece, la ricerca
di finanziamenti presso il Ministero fu frenata da una nota di Alberto De Stefani,
nella quale si avvertiva che le attività cui si sarebbe dovuta dedicare la
immaginata sezione etiopica erano già svolte sul territorio coloniale dal Centro
Studi fondato in loco da Giotto Dainelli con la collaborazione dell’Accademia d’Italia
[52]
.
L’iterazione dello scacco
subìto lascia capire che l’inconcludenza dell’ISR non è casuale, ma il sintomo di
una irrazionalità di fondo nell’elaborazione di proposte culturali dedicate alla
colonia. Nell’entusiasmo irriflessivo per le possibilità rappresentate da quelle
nuove regioni, spesso presentate come paradisiache, Galassi Paluzzi si lascia andare
a sogni megalomani di conquiste culturali, senza prendere il tempo di analizzare
realmente la situazione. Di fatto, era influenzato anche lui da quell’euforia
colonialista imperante nell’Italia degli anni Trenta, che idealizzava ammirata
l’uomo capace di piegare alle sue volontà una terra vergine, dal fascino esotico.
Questo difetto di metodo non
era peraltro che un’altra faccia della smodata ambizione che l’ISR dimostrò anche
¶{p. 173}in altre occasioni e che fece fallire anche iniziative non
proiettate verso l’esterno e rispetto alle quali non mancava peraltro una certa
esperienza, come si può osservare a proposito della Bibliografia dell’Africa romana.
In tal caso, pesò la mancata interpretazione del lavoro come un prodotto
scientifico, che ha necessariamente bisogno di essere attentamente ponderato prima
di essere intrapreso. Non ci si chiese ad esempio se altri stessero svolgendo il
medesimo progetto, come si scoprirà poi solo in corso d’opera per quanto riguarda
l’Egitto, generando un primo rallentamento. Né ci si interrogò realmente sulla
struttura e l’ampiezza di un’opera del genere, che non può essere se non periodica,
poiché la materia cresce nel momento stesso in cui la si maneggia, se non altro per
la pubblicazione contestuale di nuovi lavori sull’argomento. La Bibliografia
dell’Africa romana, però, era intesa soprattutto come uno strumento funzionale a
nutrire la coscienza coloniale italiana, realizzato nel nome di Roma da parte di chi
riteneva di essere l’unico deputato a farlo. L’idea di afferrare l’insieme del
sapere su un argomento così ampio («il lavoro dovrà presentare i caratteri della
perfezione»), nello spazio di due volumi da realizzare in tre anni, elargendovi lodi
agli amici di Roma e biasimi ai suoi nemici, rifletteva su un piano limitato e
concreto la medesima sensazione di onnipotenza che il fascismo applicava nei suoi
programmi politici.
Questo atteggiamento
antiscientifico e ideologico, condizionato da una diffusa ed esagerata sensazione di
grandezza, peraltro, faceva sì che anche le iniziative «riuscite» non possano oggi
che essere considerate come dei fallimenti. È il caso del volume
sull’Africa romana, unico prodotto editoriale significativo
realizzato dall’ISR sull’argomento. Il libro voleva essere un manuale di riferimento
in cui si trovassero illustrati tutti i «vari aspetti che caratterizzarono la
penetrazione e l’affermazione della civiltà di Roma in Africa», come diceva Galassi
Paluzzi reclamizzando il prodotto
[53]
. Molti recensori, però, non mancarono di metterne in luce le gravi
lacune. Persino un collaboratore dell’ISR, quale Aristide Calderini,
¶{p. 174}fece notare che, in realtà, più che una storia dell’Africa
romana il volume si limitava ad illustrare unicamente «alcuni aspetti» di quella. Di
lì, lo studioso passava poi all’esame critico della sezione archeologica del libro,
la più limitata, anche perché vi mancava completamente la discussione della
documentazione papirologica, sicché «si sarebbe desiderato che il volume avesse o
escluso addirittura l’Egitto oppure ne avesse completato la rappresentazione»
[54]
.
Attraverso tale critica si
arriva più facilmente a intuire il difetto principale del volume che molto più
dell’Africa romana propriamente detta si occupa in realtà dell’Africa italiana,
allora limitata alla sola Libia, o di quelle parti del continente africano su cui
l’Italia aveva mire particolari, come l’Egitto, considerato paese di «interesse
coloniale» in quanto abitato da una corposa comunità italiana. È questa una
particolarità che invero coinvolge tutta la produzione dell’ISR dedicata al tema e
di cui gli stessi promotori erano consapevoli. Si ricorderà ad esempio che Galassi
Paluzzi, nel presentare il piano della sua bibliografia, aveva detto che vi avrebbe
«eccezionalmente» compreso anche Cirenaica ed Egitto
[55]
. Da un punto di vista strettamente storico-amministrativo, infatti, con
Africa si intende una provincia dell’impero romano ben
delimitata al territorio che va da Cartagine alla Tripolitania, cui seguivano le
province di Creta et Cyrenaica e
dell’Aegyptus. Una tale delimitazione, tuttavia, non si
adattava bene ai propositi, insieme scientifici e politici, dell’ISR e fu pertanto
chiaramente ignorata.
Di questo aspetto si rese ben
conto un recensore d’eccezione del volume quale Ronald Syme, secondo cui, con la
sezione archeologica del volume, «we come to Italian Africa properly speaking». La
sua recensione è un esercizio di pungente ironia, in cui, più di tutto, è la
piattezza contenutistica del volume a non soddisfare: «If the matter of some of
them, especially the earlier has long been familiar, the splendid rhetorical style
saves them from being lame and tedious»
[56]
. Si ¶{p. 175}tratta di un’espressione di cui si può
apprezzare la pregnanza se la si legge insieme con un brano tratto dalla prefazione
del capolavoro dello storico di origini neozelandesi. Nelle prime pagine de
La rivoluzione romana, libro pubblicato nel
1939, Syme sottolinea infatti di aver scientemente adottato
uno stile «asciutto e immediato, privo di metafore o astrazioni» con il proposito di
opporsi al «panerigirismo, ingenuo o moralistico» che negli ultimi anni aveva
caratterizzato la produzione scientifica su Augusto. Concludeva lo storico: «Non è
affatto necessario, invece, tessere l’elogio del successo politico né idealizzare
uomini che acquistarono ricchezze e onori con la guerra civile»
[57]
. Syme riconosce quindi nello stile di scrittura uno dei mezzi attraverso
cui poter elevare anche personalità storiche disonorevoli. Si capisce allora meglio
quanto pungente sia il sarcastico commento riguardante lo «splendid rhetorical
style» del libro dell’Istituto. Di fatto, lo identificava come un libro di regime
che aveva trattato in maniera troppo elogiativa un capitolo della storia romana non
necessariamente oggetto di lodi.
4. L’impero visto da Palazzo Farnese
I collaboratori dell’ISR non erano
gli unici a leggere le iniziative colonialiste del fascismo alla luce della storia
romana, promuovendo illegittime sovrapposizioni fra antico e nuovo impero. Il filologo
Nicola Festa tradusse in latino i discorsi mussoliniani relativi alla fondazione dell’impero
[58]
e lo storico Ettore Pais, in seguito all’annessione dell’Etiopia, avrebbe
voluto proporre al Senato la restaurazione del «rito classico del trionfo» facendo
sfilare per le strade della capitale il bottino conquistato e i nemici soggiogati
[59]
.
¶{p. 176}
Note
[51] AINSR, Pubblicazioni, b. 58, f. 7 (Africa Romana / I vol. / Autori), cart. Siciliani (7 ottobre 1935).
[52] AINSR, Sezioni, b. 144, f. 27, cart. De Stefani.
[53] «Rassegna», 27 gennaio 1936.
[54] «Aevum», 10, 1936, pp. 413-414.
[55] Cfr. supra, p. 150.
[56] «The Classical Review», 50, 1936, pp. 142-143.
[57] R. Syme, La rivoluzione romana, Torino, Einaudi, 2014, p. XXXIV.
[58] La fondazione dell’impero nei discorsi del Duce alle grandi adunate del popolo italiano con una traduzione latina di Nicola Festa, Napoli, Rispoli anonima, 1937.
[59] R. Visser, The Correspondence of Ettore Pais in the «Segreteria Particolare del Duce. Carteggio Ordinario», in L. Polverini (a cura di), Aspetti della storiografia di Ettore Pais, Napoli, ESI, 2002, pp. 159-175: 166. L’idea fu inizialmente rifiutata, ma nel primo anniversario dell’impero si fecero effettivamente sfilare le truppe sotto l’arco di Costantino.