Sergio Brillante
«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c4
I collaboratori dell’ISR non erano gli unici a leggere le iniziative colonialiste del fascismo alla luce della storia romana, promuovendo illegittime sovrapposizioni fra antico e nuovo impero. Il filologo Nicola Festa tradusse in latino i discorsi mussoliniani relativi alla fondazione dell’impero [58]
e lo storico Ettore Pais, in seguito all’annessione dell’Etiopia, avrebbe voluto proporre al Senato la restaurazione del «rito classico del trionfo» facendo sfilare per le strade della capitale il bottino conquistato e i nemici soggiogati [59]
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Se gli studiosi italiani erano più facilmente acquiescenti, è il caso di chiedersi, anche alla luce delle critiche svolte da Syme, quale fosse lo sguardo rivolto dagli stranieri a questo culto della romanità e alle sue declinazioni imperialiste. Un caso particolare, in tale contesto, è rappresentato dagli allievi della École Française de Rome, giovani brillanti che avevano l’occasione di soggiornare per più anni nella prestigiosa sede di Palazzo Farnese al fine di portare avanti le loro ricerche sulla storia romana e italiana. Si tratta di persone che conoscono bene la lingua italiana e guardano con attenzione all’attualità politica di un paese che in quegli anni sperimenta un modello governativo considerato innovativo e guardato con simpatia da alcuni gruppi politici francesi [60]
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Fra i più attenti osservatori della politica coloniale in tale ambiente vi fu Henri-Irénée Marrou (1904-1977), storico di Roma antica e membro di organizzazioni politiche di stampo cattolico, che, fra il 1930 e il 1937, visse ininterrottamente in Italia, prima a Roma e poi a Napoli, per lavorare alla sua tesi di laurea sul rapporto fra Agostino e la cultura antica [61]
. Il 5 maggio 1936, quando Mussolini annunciò la vittoria sull’Etiopia, Marrou era in Piazza Venezia e, nella sua descrizione dell’evento consegnata alle pagine della rivista francese «Esprit», si soffermò sui due soggetti coinvolti in quella scenografia: la folla «trepidante» che acclama, «non certo per costrizione», e il capo, illuminato da una «sfera luminosa, enorme, posta dietro di lui all’altezza della testa [che] gli faceva da aureola, quella stessa aureola che si trova sulle effigi dell’Imperatore al tempo del Basso Impero» [62]
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Analogie fra Mussolini e gli imperatori romani non erano inusuali anche fra gli stranieri e, come ogni recupero del classico, potevano essere impiegate a fini diversi. Negli Stati Uniti il classicista Kenneth Scott sosteneva che ogni atto delle politiche mussoliniane trovava un suo precedente nelle riforme augustee e vedeva in ciò il segno di una continuità dell’impero romano e dell’identità «genetica» dei due leader [63]
. In territorio francese, invece, Léon Blum riprese l’immagine in senso critico e, nel contesto del dibattito sulle sanzioni votate contro l’Italia per aver mosso guerra contro un paese membro della Società delle Nazioni, aveva parlato del capo del governo italiano come di un imperatore antico ai giochi del circo; «penché sur l’Europe, abaissera-t-il le pouce pour ordonner la mort ou le lèvera-t-il pour faire grâce?» [64]
. Anche Marrou adottò un punto di vista critico, ma in lui l’analogia si precisava sul piano storico attraverso il riferimento al tipo di potere rivestito dagli imperatori romani nella tarda età imperiale, capi politici rivestiti di un’aurea religiosa e adorati dai sudditi come divinità. Lungi dall’essere una boutade erudita, tale interpretazione era prima di tutto l’eredità di una posizione assunta ufficialmente dalla Chiesa cattolica, che, durante certe fasi di frizione con il regime fascista, qualificò quest’ultimo come una «vera e propria statolatria pagana», uno Stato animato da uomini che, «disprezzando il lume della sapienza evangelica, si sforzano di far risorgere gli errori dei pagani [ethnicorum errores] e il loro tenore di vita» [65]
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Su questa linea si pose Marrou, che vedeva nel fascismo una perversione del sentimento religioso. Se il cattolicesimo era per lui continua ricerca e incessante interrogazione di sé, la «statolatria» fascista era invece annullamento della volontà e della facoltà critica tipica dell’essere umano, interamente {p. 178}disciolto nel corpo statale. Quella che il fascismo pretendeva era una «fede cieca […]; il fedele non sa mai dove va né a cosa dedica la sua volontà».
È appunto a partire da queste posizioni che Marrou fu portato a guardare con attenzione le politiche coloniali italiane, momento massimo del consenso al regime e ipso facto della perdita di umanità da parte del popolo italiano, come mise in evidenza nei suoi vari articoli scritti prima per «Politique» e poi per «Esprit», quasi nella funzione di corrispondente dalla penisola. In Italie prolétaire et fasciste, lo studioso prese le mosse dall’appellativo con cui Mussolini si era rivolto alla piazza nel discorso di mobilitazione per la guerra d’Etiopia il 2 ottobre 1935 – «Italia proletaria e fascista», appunto – al fine di denunciare il progressivo impoverimento della classe media italiana. L’eccessiva fiscalità, causata dalle sanzioni e dalle operazioni belliche, creava infatti «una piramide solidamente organizzata» con i «gerarchi di ogni grado» da un lato e una immensa plebe immiserita e privata di ogni potere, dall’altro [66]
. Nel contributo riguardante la proclamazione dell’impero, evocato in precedenza, Marrou si concentrava invece sul ruolo assegnato alla donna dalla propaganda ufficiale messa in campo negli anni della guerra d’Etiopia [67]
. Tale figura ritornava a svolgere il ruolo che era il proprio a Roma o a Sparta nell’antichità, madre «al servizio dello stato guerriero» che affronta con abnegazione il sacrificio dei figli soldati. In entrambi gli scritti, Marrou sottolineava quindi la disumanizzazione imposta dal regime in modo particolare alle categorie sociali più deboli, a cui si imponeva un ruolo prestabilito e dai tratti fissi.
Si trattava di posizioni coraggiose che Marrou sentiva di dover esprimere ricorrendo a uno pseudonimo, Henri Davenson, come forma di tutela. Non solo, infatti, criticava il regime risiedendo in Italia, ma metteva anche a repentaglio la sua stessa carriera universitaria, ancora sul nascere, per il fatto di scrivere tali saggi mentre svolgeva una tesi sotto la {p. 179}direzione di Jérôme Carcopino (1881-1970) [68]
. Quest’ultimo era infatti vicino agli ambienti dell’estrema destra francese (il che lo porterà alla testa dell’Educazione Nazionale sotto Vichy) e appoggiava esplicitamente la politica coloniale italiana. Pur cercando di mantenere una posizione sempre volutamente ambigua nei riguardi del fascismo, Carcopino si espose infatti pubblicamente in una sola occasione, quando sottoscrisse il Manifeste des intellectuels français pour la Défense de l’Occident, redatto dall’esponente dell’Action Française Henri Massis. Il documento, diffuso il 4 ottobre 1935, chiedeva l’abolizione delle sanzioni contro l’Italia che, mettendo sullo stesso piano «le supérieur et l’inférieur, le civilisé et le barbare», avrebbero spinto le nazioni europee a schierarsi nel campo del «barbaro» e «portare così alla definitiva rovina la parte più preziosa del nostro universo», cioè quell’Occidente di cui l’Italia era considerata parte non secondaria; «on veut lancer les peuples européens contre Rome». Anche se non immediatamente, Carcopino sottoscrisse questo documento – del che proverà poi a giustificarsi in una tarda autobiografia apologetica [69]
– e in quegli stessi anni non trascurò anche di prendere parte attiva ad iniziative ufficiali organizzate dall’Italia sul tema del colonialismo. In particolare, partecipò ai due convegni Volta del 1932 e del 1938, incontri organizzati dalla Reale Accademia d’Italia e {p. 180}generosamente finanziati dalla Società Generale Edison di Elettricità, e lì espose il suo pieno sostegno al colonialismo europeo, purché praticato nelle forme che a suo dire erano state proprie di Cesare [70]
. L’impero doveva essere garanzia di pace e stimolare l’integrazione delle élite coloniali nel sistema della madrepatria, di modo che esse potessero portare nuova linfa nel sistema, come era accaduto in seguito alla conquista delle Gallie nel I secolo a.C. Carcopino tentava così di armonizzare gallicismo e cesarismo, di continuare ad ammirare Roma senza sottovalutare il ruolo di primo piano che nella sua storia avevano svolto i Galli, la cui esaltazione era al suo apice in Francia nella prima metà del Novecento, per riflusso contro Napoleone III e per effetto dei lavori storiografici di Camille Jullian [71]
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Si capisce bene che con un tale maestro, la posizione politica di Marrou non era priva di pericoli e tanto più è degna quindi di ammirazione l’espressione della sua critica contro la politica coloniale italiana, che, tuttavia, si segnala anche per l’assenza di una presa di posizione contro il colonialismo in quanto tale. I suoi articoli, infatti, incorniciano la politica imperiale italiana, ma per riflettere soprattutto sulle ripercussioni di tale fenomeno all’interno della società, sull’espressione del consenso e sui rapporti fra capo e massa in un regime che si presenta come un nuovo credo. Ciò potrebbe sorprendere da parte di chi più tardi, nel 1956, si farà coraggioso accusatore dei crimini perpetrati dai Francesi in Algeria [72]
, ma anche in questi scritti più tardi, la polemica è sempre contro le degenerazioni, non contro
{p. 181}il fenomeno stesso. Con una certa coerenza, da un suo primo intervento sul tema nel 1931 e fino all’impegnativo contributo introduttivo nel volume simbolico della denuncia contro la Francia coloniale, La question algérienne, del 1958, Marrou sostiene che il colonialismo europeo possa rappresentare un incremento di civiltà per i popoli africani, a condizione di essere condotto secondo modalità non inumane [73]
. Marrou dà cioè per assodata una sperequazione fra le civiltà, in ragione della quale gli Europei non solo si trovano in una fase più avanzata, ma godono di prestigio presso gli Africani che vogliono pertanto imitarne i costumi e adottarne le qualità morali. Lo studioso francese condanna quindi fermamente tutti quegli atti violenti commessi dai colonizzatori europei, dal momento che impediscono questo processo di assimilazione volontaria. È una visione «missionaria» dei rapporti fra i due soggetti che non solo ha il difetto di farsi arbitrariamente interprete dei pensieri delle popolazioni colonizzate, ma che, interpretando le pratiche di torture e di segregazione perpetrate dagli Europei come delle deviazioni, non considera quanto di strutturalmente violento vi è nel processo coloniale.
Note
[58] La fondazione dell’impero nei discorsi del Duce alle grandi adunate del popolo italiano con una traduzione latina di Nicola Festa, Napoli, Rispoli anonima, 1937.
[59] R. Visser, The Correspondence of Ettore Pais in the «Segreteria Particolare del Duce. Carteggio Ordinario», in L. Polverini (a cura di), Aspetti della storiografia di Ettore Pais, Napoli, ESI, 2002, pp. 159-175: 166. L’idea fu inizialmente rifiutata, ma nel primo anniversario dell’impero si fecero effettivamente sfilare le truppe sotto l’arco di Costantino.
[60] Cfr. S. Rey, Écrire l’histoire ancienne à l’École Française de Rome (1873-1940), Rome, EFR, 2012.
[61] Su di lui, cfr. P. Riché, Henri Irénée Marrou. Historien engagé, Paris, Cerf, 2003 e H.-I. Marrou, Carnets posthumes, a cura di F. Marrou-Flamant, Paris, Cerf, 2006.
[62] H.-I. Marrou, Le fascisme italien et la femme, in «Esprit», 45, giugno 1936, pp. 425-431: 429 (traduzione nostra, qui e per gli altri testi francesi citati in questo paragrafo).
[63] K. Scott, Mussolini and the Roman Empire, in «The Classical Journal», 27, 1932, pp. 645-657.
[64] «Le Populaire», 22 settembre 1935, citato in P. Milza, L’Italie fasciste devant l’opinion française, Paris, Armand Colin, 1967, pp. 190-191.
[65] Così, rispettivamente, nelle encicliche di Pio XI, Non abbiamo bisogno (1931) e Ingravescentibus malis (1937).
[66] «Esprit», 39, dicembre 1935, pp. 493-495.
[67] Marrou, Le fascisme italien et la femme, cit., pp. 425-431.
[68] Sugli aspetti del pensiero di Carcopino maggiormente presi qui in esame, cfr. S. Israël, Les études et la guerre. Les normaliens dans la tourmente (1939-1945), Paris, rue d’Ulm, 2005; S. Rey, Jérôme Carcopino, un historien dans Rome, in «Anabases», 5, 2007, pp. 191-206; L.-N. Panel, Du disciple au maître. Henri Irénée Marrou et Jérôme Carcopino, in «Cahiers Marrou», 6, 2013, pp. 4-47.
[69] Il Manifeste fu pubblicato inizialmente il 4 ottobre 1935 su «L’Action Française», «Le Temps» e «Le Journal des débats». Fra i primi firmatari figurano Jean Babelon e Auguste Bailly, cui dall’8 ottobre si aggiunge Eugène Cavaignac. Manca invece il nome di Carcopino, che si trova inserito nel nuovo elenco dei firmatari del 31 maggio 1936 apparso su «L’Action Française» e «Le Figaro», accanto a quello di altri antichisti, membri dell’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres (A. Audollent, C. Diehl, P. Fabia, P. Legrand, P. Mazon, A. Meillet, C. Picard, G. Radet). Cfr. J. Carcopino, Souvenirs de sept ans. 1937-1944, Paris, Flammarion, 1953, pp. 22-25.
[70] J. Carcopino, Empire Romain et Europe, in Convegno di scienze morali e storiche. 14-20 novembre 1932. Tema: L’Europa, Roma, R. Accademia d’Italia, 1933, pp. 142-151; Id., L’aptitude des Berbères à la civilisation d’après l’histoire ancienne de l’Afrique du Nord, in Convegno di scienze morali e storiche. 4-11 ottobre 1938-XVI. Tema: L’Africa, Roma, R. Accademia d’Italia, 1939, pp. 621-633.
[71] Cfr. Id., Points de vue sur l’impérialisme romain, Paris, Le Divan, 1934.
[72] H.-I. Marrou, France, ma patrie…, in «Le Monde», 5 aprile 1956. Cfr. S. Rey, Ne pas quitter «la terre d’Afrique». Les Antiquisants, l’Algérie française et la déclaration du 23 mai 1956, in «Anabases», 15, 2012, pp. 71-84.
[73] H.-I. Marrou, Le problème colonial et l’idée de civilisation, in «Politique», giugno 1931, pp. 588-609 (poi in Crise de notre temps et réflexion chrétienne, Paris, Beauchesne, 1978, pp. 159-174, la citazione che segue nel testo è a p. 165); Id., Colonisation et décolonisation, in J. Dresch et al., La question algérienne, Paris, Éditions de Minuit, 1958, pp. 7-30.