Sergio Brillante
«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c4
Galassi Paluzzi trovò giustificate le osservazioni del collaboratore e ne trasmise il contenuto a Siciliani. L’autore accettò sì di attenuare i toni [51]
, ma non volle rinunciare alla nozione – storicamente inattaccabile – di «tradimento», perché nel finale della sua relazione sosteneva la necessità «nelle guerre coloniali» di «individuare bene il capo» e «colpirlo all’inizio inesorabilmente» facendo ricorso ad ogni mezzo possibile. Se i Romani avessero preso subito in considerazione l’idea del tradimento, la guerra giugurtina non sarebbe durata così a lungo né avrebbe a tal punto corroso la struttura politica repubblicana. Allo stesso modo avrebbero
{p. 171}dovuto comportarsi gli Italiani. A dire di Siciliani, infatti, la Cirenaica moderna non sarebbe stata sottomessa con tanta difficoltà se «la pattuglia che catturò Omar al Mukhtar nel 1931, avesse avuto la ventura di incontrarlo qualche anno prima». La guerra antica serviva così a presentare come necessaria la poco civile impiccagione del capo senussita e a riflettere sugli errori strategici commessi dagli Italiani, che avrebbero dovuto fare immediato ricorso anche a mezzi disdicevoli, pur di eliminare al più presto il comandante dei ribelli e concludere rapidamente la guerra libica.
La remissività di Momigliano di fronte alle annotazioni di Galassi Paluzzi, su cui ci si è soffermati nel precedente paragrafo, non ha quindi un corrispettivo nell’atteggiamento di Siciliani. Ciò si può chiaramente imputare a una scelta personale e al desiderio del giovane Momigliano di trovare affermazione presso un ente che assicurava pubblico e notorietà, ma è anche il risultato della particolare struttura del sistema in cui tali personalità agivano. A differenza dello studioso piemontese, Siciliani riuscì a tenere testa a Galassi Paluzzi perché avvertiva di trovarsi in una posizione di superiorità rispetto a un istituto culturale che di fatto delegittimava gli approcci scientifici alla storia antica per accordare invece un posto d’onore a chi faceva di una certa idea della storia romana fomite vivo all’azione nel presente. Nella sua vasta attività culturale, l’ISR promosse un approccio anti-intellettuale che trovava la propria cifra nel dilettantismo e nella convinzione che il mimetismo dell’esperienza antica fosse la sola via per comprendere la storia di Roma. Il militare che equiparava i conflitti moderni a quelli antichi aveva maggiore diritto ad esprimersi, rispetto allo studioso che trovava nelle fonti letterarie antiche una definizione dell’Urbe sgradita alla sensibilità contemporanea e quindi meritevole di essere rimossa.

3.3. L’inconcludenza

Dalla rassegna delle attività dell’ISR legate alle politiche coloniali italiane emerge un altro tratto ricorrente, che {p. 172}è quello della loro inconcludenza. Rispetto ai molti piani progettati, pochi sono i risultati e, significativamente, sono coronate da successo unicamente le iniziative che non prevedono altri soggetti o altri luoghi rispetto a quelli interni allo stesso ISR. Pur animando un ente attivo e ben presente nella realtà italiana, Galassi Paluzzi fallisce ogni volta che tenta di rapportarsi alle istituzioni presenti sul territorio coloniale. Sono segnati da insuccesso già il primo dialogo con Melchiori e la collaborazione con l’Istituto Fascista di Cultura a Tripoli e più clamoroso ancora, visto il tempo e le energie impiegati, è il naufragato piano di creazione di sezioni distaccate dell’Istituto a Tripoli e ad Addis Abeba.
Le difficoltà che in entrambi quei casi si rivelarono a Galassi Paluzzi derivavano da unico difetto, la totale ignoranza della realtà nella quale si aspirava a operare. Nel 1934, il rappresentante dell’Istituto di Cultura tripolino fece notare l’inesistenza di un pubblico in colonia attratto da iniziative culturali. Nel 1936, invece, la ricerca di finanziamenti presso il Ministero fu frenata da una nota di Alberto De Stefani, nella quale si avvertiva che le attività cui si sarebbe dovuta dedicare la immaginata sezione etiopica erano già svolte sul territorio coloniale dal Centro Studi fondato in loco da Giotto Dainelli con la collaborazione dell’Accademia d’Italia [52]
.
L’iterazione dello scacco subìto lascia capire che l’inconcludenza dell’ISR non è casuale, ma il sintomo di una irrazionalità di fondo nell’elaborazione di proposte culturali dedicate alla colonia. Nell’entusiasmo irriflessivo per le possibilità rappresentate da quelle nuove regioni, spesso presentate come paradisiache, Galassi Paluzzi si lascia andare a sogni megalomani di conquiste culturali, senza prendere il tempo di analizzare realmente la situazione. Di fatto, era influenzato anche lui da quell’euforia colonialista imperante nell’Italia degli anni Trenta, che idealizzava ammirata l’uomo capace di piegare alle sue volontà una terra vergine, dal fascino esotico.
Questo difetto di metodo non era peraltro che un’altra faccia della smodata ambizione che l’ISR dimostrò anche {p. 173}in altre occasioni e che fece fallire anche iniziative non proiettate verso l’esterno e rispetto alle quali non mancava peraltro una certa esperienza, come si può osservare a proposito della Bibliografia dell’Africa romana. In tal caso, pesò la mancata interpretazione del lavoro come un prodotto scientifico, che ha necessariamente bisogno di essere attentamente ponderato prima di essere intrapreso. Non ci si chiese ad esempio se altri stessero svolgendo il medesimo progetto, come si scoprirà poi solo in corso d’opera per quanto riguarda l’Egitto, generando un primo rallentamento. Né ci si interrogò realmente sulla struttura e l’ampiezza di un’opera del genere, che non può essere se non periodica, poiché la materia cresce nel momento stesso in cui la si maneggia, se non altro per la pubblicazione contestuale di nuovi lavori sull’argomento. La Bibliografia dell’Africa romana, però, era intesa soprattutto come uno strumento funzionale a nutrire la coscienza coloniale italiana, realizzato nel nome di Roma da parte di chi riteneva di essere l’unico deputato a farlo. L’idea di afferrare l’insieme del sapere su un argomento così ampio («il lavoro dovrà presentare i caratteri della perfezione»), nello spazio di due volumi da realizzare in tre anni, elargendovi lodi agli amici di Roma e biasimi ai suoi nemici, rifletteva su un piano limitato e concreto la medesima sensazione di onnipotenza che il fascismo applicava nei suoi programmi politici.
Questo atteggiamento antiscientifico e ideologico, condizionato da una diffusa ed esagerata sensazione di grandezza, peraltro, faceva sì che anche le iniziative «riuscite» non possano oggi che essere considerate come dei fallimenti. È il caso del volume sull’Africa romana, unico prodotto editoriale significativo realizzato dall’ISR sull’argomento. Il libro voleva essere un manuale di riferimento in cui si trovassero illustrati tutti i «vari aspetti che caratterizzarono la penetrazione e l’affermazione della civiltà di Roma in Africa», come diceva Galassi Paluzzi reclamizzando il prodotto [53]
. Molti recensori, però, non mancarono di metterne in luce le gravi lacune. Persino un collaboratore dell’ISR, quale Aristide Calderini, {p. 174}fece notare che, in realtà, più che una storia dell’Africa romana il volume si limitava ad illustrare unicamente «alcuni aspetti» di quella. Di lì, lo studioso passava poi all’esame critico della sezione archeologica del libro, la più limitata, anche perché vi mancava completamente la discussione della documentazione papirologica, sicché «si sarebbe desiderato che il volume avesse o escluso addirittura l’Egitto oppure ne avesse completato la rappresentazione» [54]
.
Attraverso tale critica si arriva più facilmente a intuire il difetto principale del volume che molto più dell’Africa romana propriamente detta si occupa in realtà dell’Africa italiana, allora limitata alla sola Libia, o di quelle parti del continente africano su cui l’Italia aveva mire particolari, come l’Egitto, considerato paese di «interesse coloniale» in quanto abitato da una corposa comunità italiana. È questa una particolarità che invero coinvolge tutta la produzione dell’ISR dedicata al tema e di cui gli stessi promotori erano consapevoli. Si ricorderà ad esempio che Galassi Paluzzi, nel presentare il piano della sua bibliografia, aveva detto che vi avrebbe «eccezionalmente» compreso anche Cirenaica ed Egitto [55]
. Da un punto di vista strettamente storico-amministrativo, infatti, con Africa si intende una provincia dell’impero romano ben delimitata al territorio che va da Cartagine alla Tripolitania, cui seguivano le province di Creta et Cyrenaica e dell’Aegyptus. Una tale delimitazione, tuttavia, non si adattava bene ai propositi, insieme scientifici e politici, dell’ISR e fu pertanto chiaramente ignorata.
Di questo aspetto si rese ben conto un recensore d’eccezione del volume quale Ronald Syme, secondo cui, con la sezione archeologica del volume, «we come to Italian Africa properly speaking». La sua recensione è un esercizio di pungente ironia, in cui, più di tutto, è la piattezza contenutistica del volume a non soddisfare: «If the matter of some of them, especially the earlier has long been familiar, the splendid rhetorical style saves them from being lame and tedious» [56]
. Si {p. 175}tratta di un’espressione di cui si può apprezzare la pregnanza se la si legge insieme con un brano tratto dalla prefazione del capolavoro dello storico di origini neozelandesi. Nelle prime pagine de La rivoluzione romana, libro pubblicato nel 1939, Syme sottolinea infatti di aver scientemente adottato uno stile «asciutto e immediato, privo di metafore o astrazioni» con il proposito di opporsi al «panerigirismo, ingenuo o moralistico» che negli ultimi anni aveva caratterizzato la produzione scientifica su Augusto. Concludeva lo storico: «Non è affatto necessario, invece, tessere l’elogio del successo politico né idealizzare uomini che acquistarono ricchezze e onori con la guerra civile» [57]
. Syme riconosce quindi nello stile di scrittura uno dei mezzi attraverso cui poter elevare anche personalità storiche disonorevoli. Si capisce allora meglio quanto pungente sia il sarcastico commento riguardante lo «splendid rhetorical style» del libro dell’Istituto. Di fatto, lo identificava come un libro di regime che aveva trattato in maniera troppo elogiativa un capitolo della storia romana non necessariamente oggetto di lodi.

4. L’impero visto da Palazzo Farnese

I collaboratori dell’ISR non erano gli unici a leggere le iniziative colonialiste del fascismo alla luce della storia romana, promuovendo illegittime sovrapposizioni fra antico e nuovo impero. Il filologo Nicola Festa tradusse in latino i discorsi mussoliniani relativi alla fondazione dell’impero [58]
e lo storico Ettore Pais, in seguito all’annessione dell’Etiopia, avrebbe voluto proporre al Senato la restaurazione del «rito classico del trionfo» facendo sfilare per le strade della capitale il bottino conquistato e i nemici soggiogati [59]
.
{p. 176}
Note
[51] AINSR, Pubblicazioni, b. 58, f. 7 (Africa Romana / I vol. / Autori), cart. Siciliani (7 ottobre 1935).
[52] AINSR, Sezioni, b. 144, f. 27, cart. De Stefani.
[53] «Rassegna», 27 gennaio 1936.
[54] «Aevum», 10, 1936, pp. 413-414.
[55] Cfr. supra, p. 150.
[56] «The Classical Review», 50, 1936, pp. 142-143.
[57] R. Syme, La rivoluzione romana, Torino, Einaudi, 2014, p. XXXIV.
[58] La fondazione dell’impero nei discorsi del Duce alle grandi adunate del popolo italiano con una traduzione latina di Nicola Festa, Napoli, Rispoli anonima, 1937.
[59] R. Visser, The Correspondence of Ettore Pais in the «Segreteria Particolare del Duce. Carteggio Ordinario», in L. Polverini (a cura di), Aspetti della storiografia di Ettore Pais, Napoli, ESI, 2002, pp. 159-175: 166. L’idea fu inizialmente rifiutata, ma nel primo anniversario dell’impero si fecero effettivamente sfilare le truppe sotto l’arco di Costantino.