Sergio Brillante
«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c3
Non mancarono poi anche occasioni di svago in cui cementare l’amicizia del gruppo, come il momento di riposo alla «mensa archeologica» all’ombra di «una vite di soli cinque anni, dalla quale pendevano sulle nostre teste grappoli giganteschi, dagli squisiti acini porporini grossi come noci» [53]
. O come la visita a un ufficiale di stanza «in
{p. 129}posizioni avanzate» e a sua moglie, che «aveva la forza di vivere fra autentici selvaggi, e che ci offrì, con grazia tutta italiana, una colazione fatta con le sue mani». O, infine, come la bevuta di champagne del 13 settembre e il brindisi fatto in quell’occasione in onore di De Sanctis, salutato dai membri della compagnia, «dolentissimi» di non averlo fra loro, come «uno dei pionieri dell’esplorazione cirenaica» [54]
.

3.4. I risultati

Arrivato in tempo a Gottinga per tenere la sua conferenza sulla storia della lingua greca grazie al sistema di trasporti messo a sua disposizione dal governo italiano, Wilamowitz era «raggiante di gioia» e «si comportò come uno scolaro birichino» [55]
. Il viaggio aveva chiaramente rappresentato una gradevole esperienza e lo studioso non mancò di manifestare pubblicamente la sua riconoscenza per l’occasione datagli e, una volta tornato a Berlino, tributare i suoi elogi all’attività di scavo condotta dai colleghi italiani. Anzitutto, si recò dall’ambasciatore italiano, il quale rese poi nota la conversazione da lui avuta con lo studioso in un telegramma inviato al Ministero delle Colonie e poi trasmesso all’Ufficio Scuole di Micacchi il 3 ottobre:
Wilamowitz, che è considerato un’alta personalità scientifica della Germania, mi ha espresso sua soddisfazione per recente viaggio in Cirenaica dove, insieme ad altri tedeschi, fu invitato da quel Governo. Wilamowitz ha espresso sua ammirazione per il modo regolamentare con cui sono condotti gli scavi che hanno dato, e si spera daranno impensate ricchezze archeologiche. Egli considerava molto opportuno divisione [sic] dei due Governi della {p. 130}Tripolitania e della Cirenaica e riteneva fatale che un giorno ad essi si aggiungesse Tunisia «perché né la forza né più che altro transitori contrasti violentano la legge della natura». Su tutto deplorava contrabbando di armi russe (?) che giungevano in Cirenaica.
Wilamowitz rievocava così la vecchia ferita italiana per non aver ottenuto la colonia tunisina improvvisamente accaparrata dai Francesi nel 1881 – il cosiddetto «schiaffo di Tunisi» – con delle espressioni talmente decise che l’ambasciatore sentì il bisogno di virgolettarle. Non si fatica tuttavia a credere a tali parole non solo per il tradizionale antigallicismo di Wilamowitz, ma anche perché dei toni simili si leggono in uno scritto di poco successivo al viaggio, intitolato Africa Italiana. Il filologo vi formulò la previsione che anche a Tripoli
presto si stabiliranno i laboriosi contadini italiani, come già a Tunisi ce ne sono decine di migliaia, nell’antica provincia romana d’Africa, di cui Tripoli non era che un lembo. La natura non riconosce l’arbitrio di una separazione politica, e il futuro dovrà un giorno dare il paese a coloro che lo coltivano col loro lavoro [56]
.
Lo studioso invocava quindi un argomento geografico che era tipico della propaganda colonialista italiana [57]
, ma che già prefigura la futura insistenza del discorso tedesco sul concetto di Lebensraum.
Le parole scambiate con l’ambasciatore, pur non avendo carattere esclusivamente privato, non possono neanche considerarsi come propriamente pubbliche. Il momento dell’illustrazione del proprio viaggio e dei risultati raggiunti dall’archeologia italiana presso una più ampia platea arrivò il 3 novembre con la pubblicazione di un articolo per la «Deutsche Allgemeine Zeitung» dotato di un titolo italiano scritto in caratteri latini contrastanti con i gotici poi utilizzati {p. 131}nel testo: il già ricordato Africa Italiana [58]
. Lo scopo dello scritto era ringraziare il governo dell’invito, elogiare gli scavi compiuti dai colleghi e celebrare i risultati ottenuti dall’azione coloniale italiana. A differenza del suo altro intervento sul tema, esaminato qui di seguito, questo scritto giornalistico non è dedicato solamente al resoconto del suo viaggio, ma a discutere genericamente dell’Africa Italiana; non a caso vi si parla anche della Tripolitania, peraltro con riferimento al recente convegno internazionale, dove Wilamowitz non si era recato. La collocazione giornalistica rende evidente l’obiettivo postosi dal filologo con questo scritto: mostrare all’opinione pubblica tedesca gli effetti benefici della colonizzazione italiana in Nordafrica dalla sua duplice posizione di intellettuale e testimone oculare.
In realtà, come sempre accade in casi di viaggi sottoposti a rigido controllo delle autorità locali, lo scritto svolge sostanzialmente la funzione di cassa di risonanza della propaganda sostenuta dai paesi ospitanti. Oltre alle osservazioni personali sui monumenti, sulla natura e sulla storia della regione, nell’articolo di Wilamowitz risuonano infatti i temi più tradizionali della propaganda colonialista, già utilizzati nel corso della guerra italo-turca, come i riferimenti all’indolenza araba («l’arabo smuove appena la terra per raccogliere quel tanto di orzo che gli occorre per la pura e semplice sussistenza», p. 169), l’idea che grande ricchezza al paese possa venire dalla coltivazione degli olivi e degli olivastri oltre che da fantomatici scambi commerciali con le carovaniere del Sudan. Sono poi presenti anche temi propagandistici più nuovi e introdotti nel discorso coloniale dal fascismo. Si vantano l’attività dei coloni e lo sviluppo agricolo già raggiunto dalla regione, si sottolinea la comodità del nuovo servizio ferroviario e ci si scaglia violentemente contro la resistenza organizzata dalla «confraternita dei Senussi, che […] alimenta un fanatismo ostinato e xenofobo»; essa è difficile da combattere, ma «il suo potere dev’essere spezzato» attraverso «una lotta implacabile e che richiede energiche iniziative accanto ad una continua guerriglia» (p. {p. 132}170). Con questa volontà di esaltazione dell’azione italiana in genere, e non solo di quella dispiegata negli scavi archeologici, si accorda la conclusione dello scritto che ripone la speranza per la rifioritura del paese, com’era al tempo dei Greci, nell’azione della «nuova Italia» (das neue Italien). Lo studioso ripete pertanto sulle colonne del quotidiano «il grido che lì [a Cirene] egli ha levato insieme con gli altri studiosi e ufficiali: “evviva l’Africa Italiana”» [59]
. Anche le parti più specificamente dedicate agli scavi archeologici non esaltano tanto i risultati o il metodo impiegato, quanto piuttosto il sostegno assicurato a quelli dalle istituzioni. «Il governo italiano non bada a spese», scrive esplicitamente Wilamowitz, consigliando anche di attirare nella città «il flusso dei globetrotters americani, che ogni anno vanno in Egitto». Proprio in vista di un maggiore sfruttamento turistico di quel sito, lo studioso lancerà da quel giornale anche un appello per una campagna che stava molto a cuore a Micacchi e agli archeologi italiani, e che, come vedremo, avrà un seguito significativo: lo spostamento della città di Cirene in una zona nuova, in modo da eliminare ogni difficoltà posta allo scavo delle vestigia antiche. «Tutto ciò che è d’ostacolo alla riscoperta archeologica dell’antica città deve essere rimosso».
Wilamowitz si sarebbe, poi, più compiutamente concentrato sulla storia antica di Cirene e sui reperti da lui personalmente osservati nel corso di un’altra occasione, di sapore più scientifico. Tenne infatti il 15 novembre «nella nuova aula dell’Università di Berlino» una conferenza organizzata dall’Accademia delle Scienze di quella città, che sarebbe poi stata pubblicata l’anno dopo in un opuscolo autonomo [60]
. Si trattava di un discorso che ripercorreva in maniera sicura tutta la storia di Cirene fin dai suoi primordi. Dopo alcune pagine dedicate al racconto della fondazione, la relazione proseguiva concentrandosi particolarmente sulla storia culturale della città, sul fiorire di miti epici locali e sulle scuole filosofiche della città, sul loro rapporto con {p. 133}l’insegnamento platonico e sul ruolo di Aristippo. Un rigoglio culturale interrotto alla fine del IV secolo a.C., quando Cirene perse l’indipendenza, sottoposta al dominio straniero dei Lagidi; primo e chiaro germe di decadenza, secondo il tedesco prussiano amante del Carducci, Wilamowitz. A simbolo di questo declino vi è il destino dei grandi intellettuali Callimaco ed Eratostene, che poterono proseguire i loro studi solo trasferendosi dalla loro città d’origine che, evidentemente, non poteva fornire loro i mezzi necessari a tale scopo. Nuove ragioni di declino si assommarono poi con il tempo: il potere romano e lo «sgoverno da vampiri che è caratteristico degli ultimi tempi del regime senatorio»; la rivolta giudaica del 115-117 d.C., condotta in maniera particolarmente violenta e brutale dagli Ebrei «nel loro selvaggio fanatismo» e peraltro malamente domata da «un condottiero senza scrupoli [scil. Lusius Quietus], che era egli stesso un mauro, cioè un libico, e che Traiano, malgrado tale origine, aveva elevato alle più alte cariche» (p. 30); infine, l’«irruzione» dei «barbari», che non poté essere arrestata dall’impegno profuso contro di essa da Sinesio. Lo stato della regione ritornava quindi quello che era stato al tempo della prima colonizzazione greca e ciò preparava il finale della conferenza con un augurio ai lavori ivi inaugurati dalla «nuova Italia» (l’espressione ritorna, sempre in contesti positivi), «che ha preso la deliberazione di rimettere completamente in luce la città di Cirene e di far ciò con tutti i mezzi che sono stati sperimentati nelle ultime generazioni con il lavoro di tutte le nazioni» (p. 34).
Colpisce, nel finale, che l’esaltazione dell’Italia sia limitata al valore dei lavori archeologici intrapresi e in effetti non si sfugge all’impressione che di fronte a questo nuovo pubblico, Wilamowitz sembri più cauto nell’esaltazione dell’attività italiana. Non solo essa è per lo più limitata all’abilità dei colleghi archeologi, ma non mancano dei passi in cui sembra farsi strada qualche sottile critica. Non è verosimilmente da annoverarsi fra queste il riferimento al malgoverno romano, che è invece il sintomo della classica critica wilamowitziana alle decadenti repubbliche. Altre sono le considerazioni che sembrano più decisamente an
{p. 134}dare nel senso di una valutazione non pienamente positiva dell’operato italiano. È il caso del trattamento riservato alla città di Derna, che Wilamowitz dice essere «lodata dagli Italiani come una località molto amena e promettente», anche se nell’antichità «essa è ricordata una sola volta con altri porti di mare» (p. 14, nota 1). E un’altra critica può ravvisarsi nel trattamento riservato alla descrizione degli abitanti locali. Nel corso del testo si dice ad esempio che i Libi dovevano già essere «giunti ad un elevato grado di civiltà», quando i Greci fondarono la loro colonia, come si desumerebbe dal fatto che questi ultimi ereditarono dagli antichi abitanti alcune parole e alcuni toponimi (p. 11). Tale affermazione suona come un appunto sfavorevole alla missione civilizzatrice italiana, rivolta verso un paese già civile. A dimostrazione di ciò, vi è il fatto che essa contraddice quanto detto nella parte iniziale del testo. Lì Wilamowitz aveva infatti affermato che «quando i Greci vi importarono la civiltà» quella regione era occupata da «nomadi [che] andavano errando nelle foreste». La rappresentazione è quasi opposta, ma si capisce che in questo luogo del discorso essa serve a sostenere la frase che segue subito dopo: «In non diversa condizione l’Italia ha trovato la regione, nella quale rinascerà nuova vita» (p. 9). Nelle parole introduttive, tradizionalmente cerimoniose, il filologo si lasciava andare a qualche stortura per rendere omaggio agli Italiani, i quali gli avevano garantito la «gioia» di un viaggio. Tuttavia, ben conoscendosi lo spirito anticlassicista del Wilamowitz il quale non a caso parla anche dei Greci colonizzatori come «ellenici Vichinghi», è legittimo pensare che sia la descrizione dei Libi quale è inserita nel corso del testo quella cui egli più intimamente dava credito. L’esposizione di argomenti linguistici a suo sostegno, al contrario dell’altra visione lasciata senza giustificazione, ne è la prova. Dando spazio ad entrambe le versioni, Wilamowitz tentava di non risultare ingrato, ma nello stesso tempo di non piegarsi eccessivamente al gioco.
Note
[53] Wilamowitz-Moellendorff, Cirene, cit., p. 14.
[54] Accame, Halbherr e De Sanctis pionieri, pp. 197-198. Non si riesce invece a contestualizzare la notizia fornita da F. Solmsen, Wilamowitz in his Last Ten Years, in «Greek Roman and Byzantine Studies», 20, 1979, pp. 89-122: 97, secondo cui il filologo avrebbe presenziato anche alla festosa occasione dell’apertura degli scavi ai turisti.
[55] Così nel ricordo di E. Fraenkel, Wilamowitz, in «Quaderni di Storia», 5, 1977, pp. 101-118: 108. Cfr. Accame, Nuove lettere, p. 206.
[56] Wilamowitz-Moellendorff, Africa italiana, cit., p. 167.
[57] Cfr. R. Rainero, La rivendicazione fascista della Tunisia, Milano, Marzorati, 1978.
[58] Nel seguito cito dalla traduzione italiana ricordata supra, nota 51.
[59] Da p. 171; in corsivo ciò che è in italiano nell’originale.
[60] Cfr. supra, nota 51.