Viaggio nelle character skills
DOI: 10.1401/9788815366962/c1
Dell’irrompere delle non
cognitive skills sulla scena della formazione e dell’attenzione crescente
prestata nei maggiori centri di elaborazione educativa e scolastica (ad es., come appena
ricordato, l’OECD) finora poco è filtrato da noi a livello di opinione pubblica
scolastica nella quale resta centrale e monolitica la convinzione che la nozione di
competenza, intesa come esito tangibile della padronanza pratica del sapere, e la sua
misurazione siano da considerare il baricentro di ogni progetto innovativo. Con le
non cognitive skills siamo oltre questo scenario definito negli
anni Novanta e centrato sull’egemonia del potenziamento cognitivo. Via via sono apparsi
evidenti i limiti di questo approdo alla competenza, che rischia di restare gracile e
infruttuoso se non è sostenuto dalla valorizzazione della dimensione sociale ed emotiva.
In importanti documenti dell’OECD, ad esempio, è ormai esplicito il riconoscimento che
«most schools are places that are both intensely social and intensely emotional»
[13]
.
¶{p. 33}
Per quanto lo sfondo teorico resti
improntato a un funzionalismo di marca economicista – preparare meglio il «cittadino
produttore» a rispondere alle necessità del mercato del lavoro («As individuals and jobs
are becoming increasingly interconnected, complex, and collaborative, socio-emotional
characteristics are expected to become ever more important»)
[14]
– l’attenzione alle non cognitive skills apre uno
scenario parzialmente inedito anche se non privo di qualche incognita, come si dirà
nella parte conclusiva del saggio.
Mentre la costruzione della
competenza poggiava su una concezione dell’uomo come parte di un sistema da organizzare
nel segno della massima efficienza ed efficacia, le non cognitive
skills considerano l’esperienza umana a più vasto raggio. In essa non
solo hanno diritto di cittadinanza anche altre esperienze vitali oltre a quelle
finalizzate alla conoscenza, ma proprio queste sono in grado di dare maggiore spessore
alla competenza stessa.
Siamo dentro un orizzonte che, senza
negare il precedente, lo oltrepassa e lo arricchisce in una direzione nuova, come
documenta, ad esempio, anche la proposta della global competence
definita in sede OECD come «un obiettivo di apprendimento» grazie al quale le persone
competenti a livello globale sono in grado di esaminare questioni locali, globali e
interculturali, comprendere e apprezzare diverse prospettive e visioni del mondo,
interagire con successo e rispetto per gli altri e intraprendere azioni responsabili
verso la sostenibilità e il benessere collettivo.
Segnali di riposizionamento
educativo con analoghe finalità giungono anche da altri ambienti tradizionalmente non
insensibili alle influenze dell’OECD. Ne è un esempio il Rapporto dell’Unione europea
dedicato al rafforzamento e consolidamento dei servizi dedicati alla prima infanzia (0-6
anni) intitolato Proposal for Key Principles of a Quality Framework for Early
Childhood Education and Care (2014, in traduzione italiana ¶{p. 34}Un
quadro europeo per la qualità dei servizi educativi e di
cura per l’infanzia: proposta di principi chiave)
[15]
.
Rispetto a documenti precedenti il
Quality Framework si distanzia da una visione dei servizi per
l’infanzia quale strumento per garantire principalmente le pari opportunità lavorative
tra uomini e donne. Risulta inoltre messo in secondo piano il punto di vista
strettamente economicista, in base al quale gli effetti positivi dei servizi educativi
per l’infanzia sugli apprendimenti e sull’inclusione sociale vengono considerati come
strumenti per una gestione efficace ed efficiente delle politiche del lavoro. Nel
documento emerge, viceversa, in modo chiaro ed esplicito, la messa al centro del bambino
quale soggetto di diritto: un cittadino a tutti gli effetti, cui va garantito il diritto
all’educazione. I servizi per l’infanzia, l’impegno per renderne universale
l’accessibilità e migliorare la qualità, vengono dunque riconsiderati e affermati
all’interno di una cornice non solo organizzativa, ma esplicitamente educativa.
Nel 2015 il World Economic
Forum, come è noto, ha pubblicato un Rapporto, New Vision
Education, frutto di una dettagliata analisi della letteratura
disponibile in oltre 100 paesi allo scopo di definire le competenze essenziali del XXI
secolo. La preoccupazione principale del documento è il pieno impiego delle risorse
tecnologiche a fini scolastici («le tecnologie hanno la forza per ridurre i costi e
migliorare la qualità dell’istruzione»). Ma da sole, secondo gli autori del Rapporto,
esse non sono sufficienti a raggiungere l’obiettivo di una formazione il più possibile
completa se non sono integrate con il potenziamento di qualità umane definite in
generale come la comunicazione, la creatività, la persistenza e la collaborazione
[16]
.
Nell’entrare più nel dettaglio il
documento del World Economic Forum individua sei
Character Qualities e cioè sei
¶{p. 35}disposizioni della personalità necessarie per padroneggiare la
realtà e non restarne succubi, specie di quella virtuale: curiosità, spirito di
iniziativa, perseveranza, disponibilità ad adattarsi all’ambiente, capacità di guidare e
mobilitare gli altri, abilità di interagire con altre persone in un modo socialmente ed
eticamente appropriato.
Si tratta di ulteriori segnali che
indicano come, rispetto ai decenni appena trascorsi, stia emergendo in molti e
autorevoli ambienti una proposta non più pilotata solo o principalmente dalla
preoccupazione formativo-professionale, ma anche animata dalla sensibilità educativa
«personalizzata»: senza dimenticare il «mercato» essa manifesta più attenzione per le
dinamiche interne ed esterne delle persone. Detto in altro modo: come formare individui
valorizzati per quel che sono e non solo per quel che producono – «qualcuno» e non
«qualcosa» come suggerisce Robert Spaemann nel suo libro sulla natura della persona
[17]
– capaci di costruire rapporti interpersonali positivi e comunità solidali.
Oltre al profitto si riconoscono il diritto al bene-essere personale, alla capacità di
stare-insieme e a godere dei beni immateriali, come la bellezza e l’amicizia, e la
constatazione che ideali, laici o religiosi, costituiscono un’occasione per dare senso
all’esistenza umana.
Non basta, insomma, ottimizzare il
rapporto tra le persone e la realtà del fare e del produrre, appare sempre più evidente
che questo obiettivo può più facilmente essere a portata di mano se si tiene conto delle
risorse interiori e delle qualità delle relazioni interpersonali.
È appena il caso di ricordare che
questo assunto ha in ambito pedagogico una lunga storia che in questa sede non possiamo
certamente ripercorrere nel dettaglio. Basterà ricordare due soli esempi particolarmente
importanti: Pestalozzi e Montessori. Per quanto riguarda il pedagogista svizzero è
largamente nota la forte influenza esercitata dal suo insegnamento in tutta Europa lungo
l’intero XIX secolo e parte del XX e il fascino esercitato con la valorizzazione della
¶{p. 36}funzione materna. Il perno della pedagogia pestalozziana dice
qualcosa che è ancora attuale oggi, disposto intorno alla trilogia mente-cuore-mano.
L’uomo completo al quale tende l’educazione è l’esito di un armonico triangolo
pedagogico i cui vertici sono le capacità intellettive, le abilità manuali e le buone
disposizioni affettivo-morali. Non basta sapere e neppure non basta saper fare, bisogna
anche sentire ed essere «padroni di sé stessi». Soltanto a queste condizioni è possibile
realizzare compiutamente sé stessi, partecipare alla vita sociale e condividere le
responsabilità della convivenza.
Come poi non ricordare la rilevanza
che Maria Montessori assegna agli aspetti socioaffettivi nell’educazione dei più
piccoli, la cui correlazione con l’apprendimento cognitivo è attentamente indagata dalla
pedagogista marchigiana. Saper riconoscere le emozioni è fondamentale per educare il
bambino alla libertà. Nell’accostarle positivamente, il bambino è aiutato a esprimere il
suo stato d’animo a parole e dunque a incanalarlo positivamente, incoraggiato a mettersi
nei panni degli altri, accompagnato a guardare alla compresenza di più punti di vista,
sostenuto a gestire i momenti di insuccesso e a evitare i sensi di disistima. Celebri
sono le pagine dedicate alla gestione della rabbia dei bambini che riassumono
esemplarmente le sue convinzioni in tema di esperienze socioemotive. «Un bambino padrone
delle proprie emozioni e capace di dar loro un nome, un volto e un percorso evolutivo
(la rabbia arriva, cresce, attacca, svanisce) sarà senz’altro un adolescente sereno e un
adulto equilibrato»
[18]
.
L’ingresso delle non
cognitive skills nell’agenda educativa contemporanea non rampolla
tuttavia dall’umanesimo pedagogico di cui, pur in modo diverso, Pestalozzi e Montessori
sono espressione. Naturalmente tutte le pedagogie ispirate alla visione integrale
dell’uomo (da quelle personaliste a quelle a impronta fenomenologica) hanno con forza
sottolineato l’importanza educativa della dimensione socioemotiva e di quella
relazionale. Ma, specialmente a partire dalla seconda metà del XX secolo, esse sono
diventate voci di minoranza ¶{p. 37}sovrastate dalle psicopedagogie di
orientamento neocomportamentista e costruttivista, dalle sociologie dell’organizzazione,
dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione e dalle istanze del mondo
economico, teso a sottrarre la scuola al «sapere disinteressato» e a renderla
funzionalmente «utile». Pressioni così forti da ombreggiare anche le pedagogie
democratiche di derivazione deweyana al punto da spingere qualche pedagogista a porre
l’alternativa «mercato o democrazia?»
[19]
.
Queste spinte hanno egemonizzato
anche in Italia – pure storicamente una delle roccaforti della pedagogia centrata sulla
persona – gli scenari scolastici degli ultimi decenni. Il movimento ispirato al
principio dell’efficacia scolastica (School Effectiveness) che si è
sviluppato specialmente nei paesi anglosassoni dopo gli anni Settanta intorno
all’intersezione di comportamentismo/costruttivismo e pratiche manageriali costituisce
il tentativo in larga parte riuscito di creare un modello scolastico basato – detto un
po’ schematicamente – su efficienza organizzativa e performance di apprendimento, l’una
e le altre sottoposte alla vigilanza di rigorose e sofisticate prassi valutative.
Per cogliere la trama culturale che
ha rilanciato le non cognitive skills bisogna esplorare altri
territori di studio, i saggi e le ricerche di quegli studiosi che, nel reagire agli
eccessi di standardizzazione e del ricorso ai test hanno richiamato l’opportunità di
considerare e valorizzare l’ampio spettro di influenze che interagiscono con lo sviluppo
del potenziale cognitivo e condizionano l’identità della persona.
Nei successivi capitoli del libro
vengono illustrate le due principali fonti cui attingere per la comprensione della
genesi e dello sviluppo delle non cognitive skills sulle quali
perciò non ci dilunghiamo e a cui rinviamo per gli opportuni approfondimenti:
a) quella economica con gli studi e le ricerche sulla natura e
sulla formazione del capitale umano e l’incidenza che su di esso hanno sia le
disposizioni innate sia le capacità dipendenti dall’ambiente e dall’educazione
¶{p. 38}(capitolo di Agasisti, Ribolzi e Vittadini);
b) quella psicologica debitrice alle teorie sulla formazione
della personalità, alla nozione di Capitale psicologico e alla motivazione
all’apprendimento (capitolo di Pisanu, Fraccaroli, Gentile e Recchia).
Note
[13] O.P. John e F. De Fruit, Social and Emotional Skills Framework for the Longitudinal Study of Skills Development in Cities, Paris, OECD, 2015.
[14] Ibidem.
[15] A. Lazzari (a cura di), Un quadro europeo per la qualità dei servizi educativi e di cura per l’infanzia: proposta di principi chiave, San Paolo d’Argon, Zereoseiup, 2016.
[17] R. Spaemann, Persone. Sulla differenza tra «qualcosa» e «qualcuno», Roma-Bari, Laterza, 2005.
[18] M. Montessori, La scoperta del bambino, Milano, Garzanti, 1948.
[19] M. Baldacci, La scuola al bivio. Mercato o democrazia?, Milano, Franco Angeli, 2019.