Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c12
Con ciò non si intende negare rilevanza all’interesse dei prestatori di lavoro al risultato dell’impresa. Esso deve essere riconosciuto in vista della reintegrazione del lavoratore nel processo produttivo e della giusta ripartizione della ricchezza prodotta. Qui si discute la forma del riconoscimento, cioè il modo della partecipazione dei lavoratori al livello della direzione economico-finanziaria dell’impresa. La partecipazione non può essere configurata come contitolarità della direzione, perché il potere di codecisione non può andare disgiunto dall’accettazione di una correlativa responsabilità economica, che i lavoratori non vogliono, né possono assumere
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L’espansione della tutela giuridica del lavoro organizzato nel campo della gestione economico-finanziaria dell’impresa, cioè in un campo che trascende la disciplina dei rapporti di lavoro, è giustificabile solo nei limiti della ¶{p. 366}costituzione di un organo di controllo esterno alla struttura della società per azioni, investito di un complesso di diritti di informazione e di consultazione nei rapporti con la direzione
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. Deve qui rimanere impregiudicata la questione se in tale organo debbano essere ammessi anche rappresentanti della direzione, come accade per esempio in Francia. Importa piuttosto osservare che esso risponde a finalità essenzialmente diverse dal controllo degli azionisti sugli amministratori. Quest’ultimo dovrebbe riattivare, secondo schemi diversi da quelli classici, la partecipazione dei portatori del capitale alla formazione della volontà sociale. Invece il controllo esercitato, nell’interesse dei lavoratori, dai consigli di gestione si prospetta come limite esterno della volontà dell’imprenditore, cioè come fattore di sviluppo, al livello delle singole imprese, di un potere di equilibrio dei lavoratori nella loro posizione contrattuale nei confronti dell’imprenditore
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Nessun beneficio duraturo, che contribuisca a migliorare il tono e l’atmosfera regnanti nell’industria, si potrebbe attendere dai consigli di gestione se l’istituzione di essi non fosse strumentalmente collegata con gli organismi sindacali o, peggio, fosse pensata come elemento di rottura dell’opposizione sindacale
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. La struttura sociale dell’industria è così fatta che solo sul piano sindacale può trovare piena realizzazione l’aspirazione dei lavoratori a ottenere un controllo sul potere di iniziativa economica: aspirazione la cui legittimità è difficilmente contestabile, se è vero che «il controllo della produzione della ricchezza è il controllo della stessa vita umana»
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. In ultima istanza, la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese è meno un problema di riforma del diritto dell’impresa e più un problema di rafforzamento del potere contrattuale dei sindacati, di allargamento del contenuto della contrattazione collettiva e insieme di adattamento di essa alle diverse situazioni delle singole imprese
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. Le procedure di informazione-consultazione possono svolgere utilmente una funzione preparatoria di avvicinamento dei rispettivi punti di vista, migliorando il clima e la psicologia dei rapporti sociali nell’industria e insieme mettendo i lavoratori in condizione di inserire nell’organizzazione sindacale un elemento dialettico che contribuisca a preservarla dal pericolo della degenerazione nel funzionarismo burocratico.
In questo campo non sembra si possano attendere ¶{p. 368}maggiori risultati dall’istituzione dei consigli di gestione: l’esperienza di altri paesi dimostra che essi non sono in grado di esercitare direttamente una influenza apprezzabile sulla soluzione dei problemi economici fondamentali, che sorgono al livello dell’alta direzione dell’impresa: pianificazione centrale, investimenti, determinazione dei costi e dei prezzi, ecc. Il vero campo di azione dei consigli, concepiti come strumenti di realizzazione di una comunione di scopo, e quindi di un rapporto di collaborazione organica tra la direzione e i lavoratori, si trova al livello della produzione. Esso è definito da un diverso ordine di problemi, che toccano direttamente l’organizzazione di lavoro creata dall’imprenditore. A questo livello si può mettere mano a una riforma del diritto dell’impresa che temperi il contrasto tra le due parti del contratto di lavoro con gli elementi di un rapporto associativo
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fondato sul riconoscimento di un comune interesse della direzione e dei lavoratori alla massima produttività del lavoro.
Per quanto riguarda i problemi dell’organizzazione tecnica del lavoro e degli incentivi non credo si possa andare molto più in là del diritto di iniziativa consultiva ¶{p. 369}già riconosciuto alle attuali commissioni interne dall’accordo interconfederale 8 maggio 1953. Si dovrebbe invece arrivare all’instaurazione di un diritto di codecisione nell’ambito dei problemi che attengono all’ordine sociale della comunità di lavoro nell’impresa: formazione dei regolamenti d’impresa, disciplina di fabbrica, formazione delle squadre, assegnazione dei compiti e dei turni di lavoro, igiene e sicurezza del lavoro, determinazione dei periodi di ferie ecc., e infine l’organizzazione e la gestione dei servizi sociali. In questa direzione sono stati compiuti passi significativi in altri paesi a noi vicini, i cui modelli sollecitano uno sforzo più deciso per dare ai lavoratori un vivo senso di partecipazione attiva e responsabile alla vita dell’organismo produttivo in cui sono inseriti.
Ma nessuna riforma è possibile da un giorno all’altro con un decreto. È necessaria una opera preliminare diretta a stimolare l’iniziativa spontanea degli imprenditori, a promuovere un mutamento di attitudini dei sindacati, a migliorare l’educazione e la sensibilità dei lavoratori, a creare un fondo di idee, di costumi, di esperienze e di consensi, nel quale l’intervento legislativo possa inserirsi come la sanzione e il perfezionamento giuridico di una nuova struttura sociale già in atto.
Note
[64] Lo scarso entusiasmo dei lavoratori inglesi per la prospettiva di assumere diritti di codedsione è rilevato da Crosland, The Future of Socialism, cit., pp. 359, 364. Cfr. anche Ferri, op. cit., p. 48. Nella stessa Germania resperienza successiva alle leggi sulla Mitbestimmung non è del tutto positiva. Dopo le elezioni del consiglio di azienda nella «Westphalen Hutte» (dicembre 1955), che hanno avuto risultati disastrosi, l’organo di informazioni intemazionali della confederazione dei sindacati tedeschi (D. G. B. Nouvelles) ha pubblicato un articolo del dott. Koch, «direttore del lavoro» della «Hoesch-Werke AG», in cui la cogestione viene difesa di fronte alle accuse di fallimento, e si tenta di circoscrivere il significato di quelle elezioni dandone una spiegazione collegata a una particolare situazione dell’azienda in questione. L’articolo è riprodotto, in traduzione italiana, nel «Bollettino di studi e statistiche» della Cisl, 1956, pp. 291 ss., con una premessa nella quale si dichiara che «dalla lettura dello stesso articolo risulta ulteriormente e in modo più approfondito suffragata la perplessità dei sindacati dei paesi anglosassoni – inglesi e americani soprattutto, e anche della Cisl italiana – sui vantaggi per il movimento operaio e sindacale della cogestione». In una conferenza tenuta all’Università di Colonia (un riassunto mi è stato cortesemente fornito dalla Divisione dei Problemi del Lavoro della CECA) il prof. Koenig ha rivelato i risultati di un’inchiesta da lui condotta in varie imprese tedesche, da cui appare che lo stato d’animo dei lavoratori della «Westphalen Hutte» non sarebbe un caso isolato. Secondo K. la legge sulla codecisione ha provocato inquietudine e risentimento tra gli operai. Essi dimostrano scarsa fiducia nei loro rappresentanti e soprattutto nel «direttore del lavoro», considerato di condizione sociale superiore, insomma «uno che è passato dall’altra parte» (sull’elezione del direttore del lavoro come possibile causa di risentimento tra i lavoratori cfr. Crosland, The Future of Socialism, cit., p. 361). Si riconosce bensì che il direttore del lavoro e i comitati d’impresa sono riusciti a ottenere salari più elevati, ma i nuovi benefici sono costituiti in larga parte da premi di produzione, mentre gli operai preferiscono salari globali meno elevati, purché la parte fissa, cioè il salario base, sia più sostanziosa. La conclusione di K. è che la legge sulla codecisione non ha trovato profonda rispondenza nella coscienza dei lavoratori: è stata concepita su un piano troppo elevato e non ha tenuto conto dei loro veri desideri. Nel 1951 era stata condotta una inchiesta tra i dipendenti di una grande impresa in merito alla legge allora in preparazione. Il 49% aveva risposto di considerarla favorevole ai lavoratori; il 26% di considerarla sfavorevole; il 25% di non avere alcuna opinione. Nel 1955, nella stessa impresa, le percentuali sono state rispettivamente: 9%, 72%, 19%. Per un panorama generale degli sviluppi dell’idea della codecisione cfr. lo studio pubblicato dal Bit, La collaboration dans l’industrie, Genève, 1951, e l’inchiesta dell’Institut de droit et d’economie comparés de la faculté de droit et des Sciences politiques de Strasbourg, diretta da David, La partecipation des travailleurs à la gestion des entreprises privées dans les principaux pays d’Europe occidentale, Paris, 1954.
[65] È questa la cosiddetta «soluzione dualistica» sostenuta (ma ormai senza probabilità di successo) da una parte autorevole della dottrina germanica: cfr. Ballerstedt, in «Juristenzeitung», 1951, p. 493; Reinhard, Die für die Ordnung der Wirtschaft massgebenden Rechtsgrundsätze und die Recbtsform der Mitbestimmung, in Festscrift f. Nipperdey, München-Berlin, 1955, pp. 245 ss.; Köhler, Unternehmensverfassung und Aktienrechtsreform, in «Juristenzeitung», 1956, pp. 137 ss. Nell’articolo del Reinhard, pp. 243-4, vedi anche la confutazione del sofisma, che pretende di derivare il diritto di condirezione dell’impresa dal diritto dei lavoratori a partecipare al profitto dell’impresa. L’altra soluzione, accolta dal legislatore germanico, è detta «integrante»: cfr. Schilling, La partecipazione sotto l’aspetto del diritto sociale, in «Nuova riv. dir. comm.», 1955, I, pp. 25 ss.
[66] Sul piano della gestione economico-finanziaria dell’impresa non può rendersi operante la «comunità di lavoro e d’impresa» (che emerge solo sul piano dei rapporti organizzativi interni dell’impresa), e domina invece il dualismo tra imprenditore e lavoratori in quanto parti di un contratto di scambio. Si pensi, a modo di esempio, alla tradizionale opposizione tra i punti di vista della direzione e dei lavoratori nella considerazione del salario, che dalla prima è valutato come un costo di produzione, mentre dai secondi è valutato come reddito, e quindi come titolo di partecipazione al profitto dell’impresa. Perdo l’attribuzione ai consigli di gestione di poteri consultivi e di controllo nel campo della gestione economico-finanziaria dell’impresa non mi pare concepibile se non in funzione della tutela di un interesse di parte, ossia in funzione di un rafforzamento della posizione contrattuale dei lavoratori. Da questo punto di vista appare più coerente la configurazione dei consigli di gestione come organi con composizione omogenea (composti da soli rappresentanti dei lavoratori), mentre la soluzione che li configura come organi misti risponde piuttosto all’altro profilo, certo il più importante, sotto il quale i consigli di gestione sono chiamati ad operare come organi della comunità d’impresa.
[67] Cfr. Mortati, Il lavoro nella Costituzione, in «Dir. lav.», 1954, I, p. 182; Fraisse e Guibourg, op. cit., in «Esprit», 1953, p. 803, in nota: «L’expérience des Comités d’entreprise a manifesté que cette institution n’était bénéfique pour les ouvriers que là où les délégués ont été soigneusement encadrés et soutenus par leurs syndicats. Ailleurs, ils n’ont été trop souvent que des otages ou des complices».
[68] Cfr. Hayek, Verso la schiavitù, Milano, 1948, p. 78.
[69] È questa la via alla democrazia industriale sperimentata negli Stati Uniti d’America e nei paesi scandinavi. Crosland, op. ult. cit., p. 349, lamenta la lentezza dello sviluppo in questo senso dell’azione delle Trade Unions.
[70] La necessità di temperare, per quanto è possibile, il contratto di lavoro col contratto di società è affermata da Pio XI nell’enciclica Quadragesimo Anno (n. 30), e ribadita da Pio XII in un radiomessaggio pronunciato il 1° settembre 1944. Dal punto di vista tecnico-giuridico va precisato che il temperamento non implica una modificazione dello schema causale del contratto di lavoro che rimane essenzialmente modellato sullo stampo del concetto di «scambio», bensì soltanto l’introduzione nella disciplina normativa del rapporto di un momento associativo collegato al fatto che esso si svolge come elemento costitutivo della struttura organizzativa dell’impresa. Appunto questo fatto, ossia l’incorporazione dei lavoratore in una organizzazione di persone cooperanti per uno scopo economico di produzione, conferisce al rapporto di lavoro, considerato nella fase esecutiva, un profilo associativo (funzionale a un interesse comune delle parti) che manca nella fase costitutiva. Uno spunto in questo senso del Santoro-Passarelli, Nozioni di diritto del lavoro10, Napoli, 1958, p. 63, è stato sviluppato da Mancini, op. cit., p. 114; e v. anche Greco, Corso, cit., pp. 51 ss. L’accennata costruzione dogmatica sfrutta la tendenza della moderna disciplina giuridica del rapporto di lavoro ad atteggiarsi in maniera autonoma rispetto alla fonte contrattuale: cfr. Pugliatti, Proprietà e lavoro nell’impresa, in «Riv. giur. lav.», 1954, I, pp. 139 ss.