Luigi Mengoni
Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c12
La teoria classica, legata all’ipotesi del proprietario imprenditore, ritiene che dal complesso dei motivi che determinano l’azione umana sia possibile astrarre il motivo del profitto personale e considerarlo la chiave dell’attività economica. Esso induce il proprietario a rischiare la sua ricchezza nell’impresa e, una volta avvenuta questa scelta, lo spinge ad applicare il massimo delle sue capacità abilità e diligenza in modo da conseguire il massimo rendimento dell’impresa. Nella fase attuale dell’economia questa teoria dovrebbe produrre le conseguenze indicate dalle profezie di Burnham: cioè la rivoluzione dei managers, intesa come progressiva espropriazione dei vecchi proprietari e spostamento della proprietà verso la nuova classe che esercita il controllo [35]
. Questa rivoluzione non
{p. 350}è avvenuta e niente lascia supporre che avverrà. Certo non si può dire che nell’animo dei managers dimori uno sviscerato amore verso gli azionisti: essi sono profondamente convinti che le pretese della proprietà in materia di dividendi non sono sostenibili al di là di una certa misura, non molto superiore al tasso legale di remunerazione del denaro. Ma è pur vero che, nel contrasto con gli azionisti, essi non pongono, almeno in prima linea, una questione di interesse personale di natura pecuniaria.
Che la teoria classica del profitto non sia più adeguata non significa che l’attività di gestione della moderna impresa non sia diretta alla realizzazione di un profitto; ma fin qui la motivazione del profitto non ha una connessione essenziale col sistema capitalistico perché è razionalmente connaturata a ogni tipo di impresa, privata o pubblica. La differenza, rispetto alla teoria classica, sta nel fatto che i nuovi dirigenti non considerano il profitto dell’impresa principalmente come strumento di arricchimento personale, né a favore degli azionisti né a favore di se stessi [36]
. Non a favore degli azionisti, perché non si considerano al servizio di costoro, bensì al servizio dell’impresa, con la quale tendono a identificarsi secondo un processo psicologico che è un corollario del processo di burocratizzazione del potere economico. Non a favore di se stessi, sia per la remora morale che deriva dalla coscienza di gestire la ricchezza altrui, sia perché – al di là di una certa misura che assicuri largamente la soddisfazione dei bisogni personali e familiari [37]
– l’incremento {p. 351}ulteriore del guadagno pecuniario può costituire un incentivo solo in una società dove la ricchezza rappresenta la fonte principale del potere e del prestigio sociale. La posizione sociale, il potere e il prestigio della nuova classe dei dirigenti d’industria dipendono direttamente, senza riguardo al guadagno personale, dal livello dei profitti dell’impresa. La misura convenzionale del successo dell’impresa è diventata la stessa misura del loro successo personale. La potenza dell’uomo di affari di un secolo o anche di mezzo secolo fa era misurata dall’entità del suo patrimonio personale; la potenza del consigliere delegato di una moderna società per azioni è misurata dall’entità del capitale sociale. Qui si coglie la spiegazione, in chiave psicologica, dell’accumulazione interna dei profitti [38]
; e qui riceve umana concretezza l’astratto «interesse dell’impresa in sé», al quale la concezione istituzionalistica della società per azioni subordina, come a un valore superiore, l’interesse comune dei soci.
A queste conclusioni erano già pervenuti, in via di congettura, Berle e Means nel 1932. «È probabile – essi scrivevano – che, nell’analisi dei motivi psicologici che determinano i gruppi di controllo delle grandi società, si potrà imparare di più studiando i motivi di un Alessandro Magno in cerca di nuovi mondi da conquistare, che dalla considerazione dei motivi di un piccolo commerciante dei tempi di Adamo Smith» [39]
.

8. Il problema di una nuova costituzione economica.

Le conseguenze, sul piano sociale, di questa trasformazione psicologica sono indubbiamente positive. La massimizzazione del profitto non è più perseguita con l’aggressività del primo capitalismo; l’azione verso questo obiettivo dei nuovi dirigenti è moderata da considerazioni di fair-play, di ragionevolezza e anche di equità [40]
. Si è pure osservato {p. 352}che in una situazione di oligopolio ciascuna impresa attribuisce importanza non tanto al livello assoluto, quanto al livello relativo dei profitti: l’incremento del profitto diventa meno interessante al di là della misura necessaria per «tenere il passo» con le grandi rivali. Questa moderazione è anzitutto il risultato dei mutamenti tecnici ed economici (allungamento dei processi di produzione, interdipendenza crescente delle varie industrie, struttura monopolistica o oligopolistica del mercato, ecc.), i quali impongono alle direzioni delle grandi imprese di tenere conto, nel calcolo del profitto, di un complesso di previsioni corrispondenti a periodi sempre più lunghi. Ma entra in gioco anche un altro fattore, costituito da un senso di responsabilità sociale e di rispetto della persona umana, di cui non erano dotati i capitani d’industria dell’epoca precedente.
In Italia questo fenomeno, che un autore americano ha descritto come progressiva formazione di una «coscienza di gruppo» nella sfera del potere delle grandi imprese [41]
, è meno accentuato, sia per le diverse condizioni connesse a un sistema economico meno dinamico, sia perché nella psicologia dei nostri dirigenti non operano gli impulsi morali che nei paesi anglosassoni derivano dal sottofondo ideologico del puritanesimo protestante [42]
. Tuttavia si notano anche da noi alcune manifestazioni caratteristiche, quali la pratica delle cosiddette «relazioni umane» e la disposizione delle direzioni ad ascoltare e esaminare i reclami di coloro che si ritengono ingiustamente danneggiati da un atto di esercizio del potere. Ciò denota la consapevolezza che il potere deve trovare un contrappeso nello sviluppo di un’etica corrispondente. Ma la valutazione del fenomeno assumerebbe un aspetto negativo se {p. 353}fosse esatta l’interpretazione che lo presenta come pretesa del potere economico delle grandi imprese di legittimarsi sulla base della coscienza morale di coloro che ne sono investiti [43]
. Allora il concetto di «coscienza di gruppo», in cui le più recenti indagini esprimono la rivoluzione psicologica intervenuta nelle sfere direttive della grande industria, non sarebbe, in definitiva, che l’applicazione al problema politico dell’impresa del concetto di dispotismo illuminato [44]
.
È, questo, un atteggiamento che il potere assoluto, quando è detenuto da uomini forniti di cervello, tende ad assumere per contenere e svalutare le forze contrarie che {p. 354}si sprigionano per naturale reazione e cercano di organizzarsi come contrappesi esterni allo scopo di ottenere la costituzionalizzazione del potere. Di fronte allo sviluppo di queste forze costituzionali, il potere cerca di ammantarsi dei pretesti dell’utilità, del benessere, del progresso, insomma di una sorta di moralità burocratica, garantita dal distacco del potere dall’originario fondamento di diritto personale (nel nostro caso, dalla proprietà) e sostanziata dall’assorbimento di alcuni ideali che alimentano il clima sociale in cui il potere storicamente si svolge: nel nostro caso, l’ideale del benessere dei lavoratori, ed ecco la politica sociale praticata dalle grandi imprese; gli ideali filantropici e soprattutto di incremento della cultura, ed ecco le fondazioni di beneficenza, create dalle grandi imprese e alimentate continuamente con una parte dei profitti, nelle quali gli studiosi americani stanno scoprendo uno dei principali strumenti di difesa e di consolidamento del potere dei gruppi direttivi dell’industria [45]
.
Per quanto sincera ed elevata possa essere la nuova coscienza che viene progressivamente formandosi nei corpi direttivi delle grandi imprese, per quanto favorevoli possano risultarne le conseguenze in relazione al benessere della collettività, questa coscienza non può costituire un criterio di soluzione del problema del potere economico. Venuta meno la soluzione, di natura deterministica, offerta dal modello della concorrenza, il problema si ripropone come problema giuridico. La coscienza morale dei gruppi direttivi delle imprese non è suscettibile di consolidarsi in norma giuridica [46]
; e anche se ciò fosse possibile, non basterebbe, perché l’inserimento dell’impresa nell’ordinamento giuridico della comunità politica non può essere concepito semplicemente in termini di assoggettamento del potere economico a un complesso di obbligazioni volte a garantirne l’armonizzazione con de
{p. 355}terminate finalità di interesse generale. Collegato ormai a funzioni che trascendono la sfera privata degli interessi della proprietà, il potere delle grandi imprese non può legittimarsi se non attraverso un mutamento di struttura [47]
, inserendosi organicamente in un nuovo ordinamento costituzionale dell’economia che realizzi la partecipazione di tutti i gruppi sociali alla determinazione dei contenuti del bene comune nel dato momento storico e a stabilire in che cosa deve consistere il progresso della collettività [48]
.{p. 356}
Note
[35] Burnham, La rivoluzione dei tecnici (non esatta traduzione dell’inglese The Managerial Revolution), Milano, 1946, p. 113. Per una breve, ma efficace critica cfr. Crosland, Il passaggio dal capitalismo, cit., pp. 65 s.
[36] Daix, in «Esprit», 1956, p. 686, osserva che «la prépondérance de techniciens aux postes-clefs a conduit les sodétés à des décisions qui tendent moins à l’accroissement de la fortune des particuliers qu’à l’augmentation de la puissance de la firme».
[37] Non si intende qui prendere posizione circa la questione se la misura attuale delle remunerazioni percepite dagli amministratori sia giustificata in rapporto al livello dei dividendi e dei salari. V. in argomento Vigreux, op. cit., pp. 68 ss., 205 ss.; Drucker, op. cit., pp. 122 ss. La questione è considerata anche nel progetto di legge Ascarelli, art. 11 (in «Riv. soc.», 1956, p. 606).
[38] Cfr. Strachey, op. cit, pp. 208, 219; Craveri, op. cit., pp. 38, 46.
[39] Berle e Means, The Modern Corporation and Private Property, New York, 1932, p. 350.
[40] Crosland, The Future of Socialism, cit., pp. 36 s.
[41] Berle jr., La rivoluzione capitalistica, cit., p. 57 ss. Nella letteratura giuridica cfr. Ballerstedt, Unternehmen und Wirtscha/tsverfassung, in «Juristenzeitung», 1951, p. 486.
[42] Per una serena valutazione, dal punto di vista cattolico, dei rapporti tra lo spirito dell’impresa e gli ideali puritani (dove la passione per il progresso del benessere collettivo è stimolata dalla condanna morale del povero), cfr. Dumas, Les chrétiens devant l’argent, in «Esprit», 1953, pp. 617 ss.
[43] È appunto l’interpretazione di Berle, piena di fiducia nella disposizione dei nuovi dirigenti a sottomettersi a «un sistema etico-filosofico che serva come fondamento, che completi e che infine controlli ogni organizzazione pratica degli affari»: a tal punto che, alla fine, il libro del Berle assume un tono apologetico, pervaso dalla visione dei nuovi managers come i moderni costruttori dell’agostiniana città di Dio: «la società per azioni è ora essenzialmente un’istituzione politica non dipendente dallo Stato», destinata ad assumere, nella società futura, la funzione «di giudicare che cosa è e che cosa dovrebbe essere il progresso di un grande paese» (op. cit., pp. 56, 163, 167; e v. Friedmann, in «Columbia Law Rev.», 1957, p. 171). In definitiva simili valutazioni esprimono una totale sfiducia nella possibilità di sviluppo di un sistema di poteri di equilibrio, capaci di controbilanciare dall’esterno il potere delle direzioni delle grandi società per azioni: «il solo controllo reale che guidi o limiti la loro azione economica e sociale è l’etica, per quanto tacita e non definitiva, degli uomini che le compongono» (p. 168). Mentre la «rivoluzione dei managers» annunciata da Bumham è pur sempre una rivoluzione di classe (ma una rivoluzione burocratica, in luogo della rivoluzione proletaria profetizzata da Marx, cioè, come è stato detto, «una rivoluzione di palazzo di uno strato della classe dominante contro l’altro»), nella visione di Berle il dominio dei managers assume il carattere rivoluzionario del «carisma». Carismatico è appunto il potere che non conosce se non determinazioni intrinseche e limitazioni proprie, e che si manifesta partendo da una «metanoia» centrale nella mentalità dei dominati (Weber, Carismatica e i tipi del potere, in Nuova collana di economisti, vol. XII, Torino, 1934, pp. 184, 187). La «meta-noia» dell’uomo moderno, su cui si fonda l’investitura carismatica che Berle riconosce ai nuovi dirigenti, consisterebbe nel superamento del timore dei nostri padri di fronte alle società per azioni (considerate come macchine prive di anima: cfr. Ripert, Aspects juridiques du capitalisme moderne, Paris, 1946, p. 122) e nella formazione dell’opposta convinzione che la sorte delle libertà e della dignità individuali nella società futura sia legata alla mancanza di controlli esterni sulle grandi organizzazioni industriali.
[44] Cfr. Drucker, Società futura, cit., pp. 138 ss.
[45] Cfr. Friedmann, op. cit., pp. 157 ss.
[46] Friedmann, op. cit., p. 185. Opposta, naturalmente, la valutazione di Berle, Rivoluzione capitalistica, cit., p. 65, ma in termini che confermano la rinuncia dell’autore (che pure è professore di diritto) alle preoccupazioni del giurista.
[47] In opposizione al punto di vista classico, accettato anche dal marxismo (cfr. Strachey, op. cit., pp. 97 s.), oggi si riconosce sempre più la possibilità di influire sullo sviluppo economico e di correggerne le tendenze mediante fattori di ordine istituzionale risultanti dalle strutture politico-giuridiche della società. Vedi i cenni in questo senso di Ascarelli, Cooperativa e società (concettualismo giuridico e magia delle parole), in «Riv. soc.», 1957, p. 434, in nota.
[48] Il riconoscimento dell’inattualità dell’alternativa tra proprietà privata e proprietà pubblica dei mezzi di produzione, tra Stato capitalistico e Stato collettivistico, e la sostituzione ad essa dell’istanza di un ordinamento costituzionale dell’economia, che realizzi una divisione del potere economico tra i vari gruppi sociali collegati al fenomeno della grande impresa, è l’idea centrale del recente studio di Craveri, La disintegrazione della proprietà, cit., spec. pp. 82 ss. Questo orientamento sta affermandosi anche tra i teorici del laburismo inglese, e ne è testimonianza significativa il volume più volte citato di Crosland, nel quale la richiesta di un ulteriore trasferimento alla collettività statale della proprietà produttrice del reddito è quasi abbandonata, in netto contrasto con le posizioni di Strachey (e, ancor più, di Bevan). Tuttavia il problema della proprietà rimane, e nella valutazione di esso persiste un motivo di dissenso anche con le tendenze revisioniste da cui è ispirata la tesi di Craveri. Il concetto di «impresa anonima» (sul quale cfr. anche Mossa, L’impresa anonima della società per azioni, in «Nuova riv. dir. comm.» 1954 I, pp. 1 ss.) è accettabile solo come descrizione della tendenza della grande impresa a spersonalizzare la proprietà dei mezzi di produzione e a sostituire alla gestione dei proprietari la gestione burocratica dei nuovi dirigenti-non proprietari. Non è accettabile, invece, ove venga proposto come strumento di una valutazione giuridica che sanzioni l’estromissione dei proprietari dall’impresa e la riduzione del diritto di proprietà a un puro diritto a un valore (una «legalizzazione» in questi termini della nuova realtà è espressamente proposta da Drucker, op. cit., p. 454, sul riflesso che «nella natura dell’investimento non v’è assolutamente nulla che esiga o giustifichi diritti di proprietà, cioè diritti di controllo»; più cauto Crosland, The Future of Socialism, cit., p. 356, di cui non sembra contestabile il rilievo che «there is nothing to-day in the nature of investment or the function of the capital market which gives the investor any natural “right” to sole legal control»). Il nuovo ordinamento costituzionale dell’economia deve essere costruito senza che vada perduta l’essenza della proprietà, e questa esigenza sembra chiaramente compresa anche nell’«ideale» di Crosland, op. ult. cit., p. 496, formulato in termini difficilmente conciliabili con l’ortodossia socialista (lo stesso autore riconosce che si tratta di una «unpopular solution amongst the traditionalists of the Left»). La rielaborazione della dogmatica giuridica in questo senso è però appena agli inizi: v. alcuni spunti nei citati studi di Ballerstedt e di Krause, nonché, ma in direzione diversa, in Köhler, Betrieb und Unternehmen in wirtschaftsverfassungsrechtlicher Sicht, in «Juristenzeitung», 1953, pp. 713 ss. (e ancora ivi, 1955, p. 592), con l’avvertenza, peraltro, che lo sforzo ricostruttivo della dottrina tedesca è oggi pregiudicato dal dato positivo introdotto dalle leggi sulla Mitbestimmung.