Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c12
Dal punto di vista logico-giuridico tale soluzione – recentemente accolta, come tutti sanno, dal legislatore germanico – è viziata da una confusione dell’impresa con
¶{p. 360}l’imprenditore
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e da un conseguente artificioso allargamento del contenuto istituzionale dell’impresa in guisa da inserirvi anche gli azionisti, in una innaturale giustapposizione con i lavoratori che è stata presentata e giustificata come un «salto al di sopra della fossa dei fronti di classe»
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. Ma in una formula del genere francamente non si riesce a vedere altro che puro velleitarismo. L’eliminazione della lotta di classe, intesa come lotta per la conquista dello Stato, è un obiettivo da perseguire con ogni sforzo, ma il raggiungimento di esso non postula l’abbandono ¶{p. 361}della concezione che fonda il rapporto di lavoro in una situazione di conflitto di interessi. Questo non è un concetto reazionario e nemmeno marxista: è semplicemente la constatazione di una realtà connaturata all’attuale sistema economico. Marxista è soltanto la valutazione di tale realtà come antagonismo assoluto e irreconciliabile
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, tale da non poter essere risolto se non con la distruzione di una parte e l’identificazione dell’altra con lo Stato.
A lungo andare gli interessi delle due parti trovano un punto di coincidenza nell’obiettivo di una più alta produttività, e in questa direzione l’antica opposizione deve essere rimpiazzata da una larga misura di cooperazione
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. Ma nel quadro di valutazioni più immediate a breve termine rimane inevitabilmente una serie di divergenze di interessi in ordine alla divisione del prodotto finale, al livello dei prezzi, all’introduzione di nuove macchine, all’entità numerica del personale e via dicendo
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. Questo complesso conflitto di interessi è strutturalmente insuperabile e la soluzione di esso, in modo da realizzare una giusta tutela dell’interesse dei lavoratori, deve essere affidata a un rafforzamento del potere contrattuale dei sindacati.
Se ci si pone sulla via delle riforme attuate dalle leggi germaniche del 1951 e 1952 sulla «codecisione», allora, da un lato, si indebolisce l’opposizione sindacale che è una garanzia essenziale di democrazia nell’industria, dall’al¶{p. 362}tro si mina alla base l’istituto della società anonima, che è tipicamente uno strumento di realizzazione di un unico interesse, l’interesse comune dei soci, e come tale non tollera nel seno degli organi sociali posizioni individuali di conflitto di interessi. Immessi nei consigli di amministrazione delle società, i delegati dei lavoratori si troveranno di fronte a una alternativa di lealtà insopportabile. Quale atteggiamento dovranno assumere, per esempio, in occasione di uno sciopero dei lavoratori da essi rappresentati? Se decidono di appoggiare lo sciopero, la loro posizione nei confronti della direzione diventa evidentemente insostenibile; se viceversa decidono di appoggiare la resistenza della direzione alle rivendicazioni degli scioperanti, l’accusa di tradimento, da parte dei lavoratori, li colpirà pesantemente. Il Tribunale del lavoro della Baviera ha stabilito che essi devono rimanere neutrali
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: ma, adattandosi a una soluzione di compromesso tra le due lealtà, senza servire attivamente né l’una né l’altra, i rappresentanti dei lavoratori si squalificano.
Nella prospettiva di tale necessità di scelta tra due opposti doveri di fedeltà, nella quale si tende a compromettere i rappresentanti dei lavoratori negli organi direttivi della società per azioni, col risultato inevitabile di imporre una regola di subordinazione degli interessi del lavoro all’interesse dell’impresa, si coglie forse il punto critico più acuto del principio della codecisione, così come è stato concepito e realizzato in Germania
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. Ma vi è un altro profilo, sotto il quale trova conferma il giudizio negativo. L’inserimento di un diritto di codecisione dei lavoratori pregiudicherebbe la soluzione di quello che è il vero problema posto dalla realtà attuale del mondo azionario: il problema della legittimazione del potere degli amministratori nei rapporti con i proprietari dei beni investiti ¶{p. 363}nell’impresa sociale. La rottura dell’originario collegamento della proprietà col potere economico si è prodotta senza che rimanesse ai proprietari, i quali sopportano il rischio dell’impresa, un potere di controllo sulle decisioni con cui i nuovi dirigenti non proprietari interpretano l’interesse della società. La riforma della disciplina giuridica della società per azioni deve proporsi di rendere possibile un controllo degli azionisti sull’attività della direzione, così che il potere degli amministratori – non più sussumibile sotto il concetto di mandato – ne riesca giuridicamente qualificato come potere fiduciario, il cui titolo di investitura e di permanente legittimazione nei rapporti interni sociali è costituito pur sempre dalla proprietà
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.
Le riforme dell’attuale regime legale, che appaiono necessarie o opportune a questo scopo, non possono essere qui nemmeno sommariamente indicate
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. In sostanza esse mirano a creare le condizioni di una effettiva partecipazione degli azionisti alla formazione delle deliberazioni assembleati, indipendentemente dal presupposto classico della frequenza fisica della maggioranza di essi nell’assemblea: ciò che implica una nuova rigorosa disciplina delle deleghe di voto, collegata a un divieto più ampio delle partecipazioni reciproche e a un sistema di larga pubblicità dei dati e dei programmi della gestione sociale. In tal modo verrebbe riattivato – in una nuova forma ¶{p. 364}mediata – il freno del potere economico costituito dal rischio del capitale, e sarebbe ristabilita su basi economiche, e non semplicemente di ordine morale e sociale, la correlazione tra potere e responsabilità.
Ma la ricostituzione dell’equilibrio tra potere di iniziativa economica e rischio del capitale non sarebbe possibile se negli organi di formazione della volontà sociale fosse immessa una rappresentanza dei lavoratori, privi di partecipazione al capitale e quindi costituzionalmente portati a spingere la direzione sul piano di valutazioni collegate esclusivamente con l’interesse al risultato della impresa, senza considerazione per l’interesse dei portatori del capitale di rischio.
10. I consigli di gestione come organi di controllo dell’organizzazione del lavoro.
Con ciò non si intende negare rilevanza all’interesse dei prestatori di lavoro al risultato dell’impresa. Esso deve essere riconosciuto in vista della reintegrazione del lavoratore nel processo produttivo e della giusta ripartizione della ricchezza prodotta. Qui si discute la forma del riconoscimento, cioè il modo della partecipazione dei lavoratori al livello della direzione economico-finanziaria dell’impresa. La partecipazione non può essere configurata come contitolarità della direzione, perché il potere di codecisione non può andare disgiunto dall’accettazione di una correlativa responsabilità economica, che i lavoratori non vogliono, né possono assumere
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Note
[55] Cfr. Libonati, op. cit., pp. 897, nota 2; 920, nota 37; Nikisch, Le questioni giuridico-sociali dell’ordinamento delle forme d’impresa, in «Nuova riv. dir. comm.», 1953, I, p. 213; Garrigues, Aspetto giuridico dell’impresa, ivi, 1949, I, p. 54. La confusione tra impresa e imprenditore (nei casi in cui l’impresa sia esercitata da una società) è considerata da Fanelli, Introduzione alla teoria giuridica dell’impresa, Milano, 1950, p. 78, una conseguenza inevitabile della concezione istituzionalistica dell’impresa, formulata dalla dottrina del diritto del lavoro per mettere in rilievo la funzione organizzativa che il rapporto di lavoro assume in quanto si svolge nell’impresa. In altre parole, la concezione istituzionalistica della società per azioni è ritenuta un aspetto logicamente complementare della concezione istituzionalistica dell’impresa. Questa valutazione non è esatta. Quando la dottrina della «comunità d’impresa» designa come membri della comunità l’imprenditore e i suoi dipendenti, che con lui collaborano per uno scopo comune costituito dal risultato economico della produzione, essa allude all’imprenditore non nel senso dell’art. 2082 c.c. (per cui la qualità di imprenditore può competere sia a una persona fisica sia a una persona giuridica), bensì nel senso di «capo dell’impresa» (art. 2086), qualità che può essere rivestita solo da una persona fisica. Se imprenditore è una società per azioni, entrano a far parte della «comunità di lavoro e d’impresa», insieme con i lavoratori, solo le persone fisiche preposte all’esercizio dell’impresa (amministratori della società e direttori); non anche la collettività degli azionisti, che costituisce l’elemento materiale della persona giuridica-società cui viene giuridicamente riferita l’attività d’impresa e così la qualità di imprenditore nei rapporti esterni. Tra la concezione istituzionalistica dell’impresa e la concezione istituzionalistica della società per azioni non v’è un rapporto di logica complementarità, ma piuttosto un salto logico coperto da un equivoco terminologico. Del resto, è abbastanza noto che la concezione istituzionalistica della società per azioni si è storicamente sviluppata nel quadro di ideologie e di direttive politico-sociali non propriamente coincidenti con quelle che hanno ispirato l’idea della comunità d’impresa nell’ambito del diritto del lavoro.
[56] Schilling, L’evoluzione del diritto delle società nel dopoguerra in Germania, in «Riv. soc.», 1957, p. 187. Cfr. anche il citato rapporto della commissione di studi del Congresso dei giuristi tedeschi (Untersuchungen zur Reform des Unternehmensrechts), p. 40.
[57] Questa valutazione sta all’origine dell’aspro giudizio pronunciato sulla concezione istituzionalistica dell’impresa da Lyon Caen, Manuel de droit du travail et de la sécurité sociale, Paris, 1955, p. 223. «... il y a sans dout là une mystification, inconsciente ou consciente, mystification qui tend à atténuer l’acuité des luttes sociales et à faire oublier aux salariés leurs véritables intérêts». Di «mistificazione» parlano anche Fraisse e Guisbourg, Human relations: progrès ou mystification?, in «Esprit», 1953, p. 797.
[58] Soltanto sotto questo profilo, cioè al livello della produzione, è possibile, a mio modo di vedere, la coesistenza col contratto di lavoro (configurato come contratto di scambio) della «comunità d’impresa» (cfr. più avanti).
[59] Cfr. Crosland, The Future of Socialism, cit., pp. 345 s. (v. anche p. 202).
[60] M Schilling, op. loc. cit.
[61] Secondo Friedmann, in «Columbia Law Rev.», 1957, p. 183, il banco di prova dell’esperimento tedesco sarà disponibile soltanto al sopravvenire di un periodo di depressione economica, quando occorrerà decidere quale genere di zavorra gettare dalla nave in tempesta. Cfr. anche Ascarelli, in «Riv. trim. dir. proc. civ.», 1957, p. 1098.
[62] La stessa commissione di studi del Congresso dei giuristi tedeschi pone come fondamento dell’impresa il concetto di proprietà (Untersuchungen cit., p. 16: «Die rechtliche Grundlage der Wirtschaftseinheit “Unternehmen” ist das Eigentum»); ma è già stata rilevata la difficoltà di conciliare questa posizione con l’adesione alle concezioni che stanno a base della Mitbestimmung (Libonati, op. cit., p. 901, nota 12).
[63] Cfr. Ascarelli, I problemi delle società anonime per azioni, in «Riv. soc.», 1956, pp. 3 ss.; Id., Disciplina delle società per azioni e legge antimonopolistica, in «Riv. trim. dir. proc. civ.», 1955, pp. 273 ss.; Ferri, Potere e responsabilità, cit., in «Riv. soc.», 1956, pp. 51 ss.; Cottino, Convenzioni di voto, cit., pp. 289 ss., con osservazioni, sostanzialmente adesive, al progetto di legge Ascarelli, pubblicato in «Riv. soc.», 1956, p. 604, sul quale v. pure Messineo, Due disegni di legge in tema di società, ivi, pp. 648 ss. Sul proxy-system americano, considerato come base di una nuova corporate o shareholder democracy, cfr. Emerson e Latcham, Shareholder Democracy (A broader Outlook for Corporations), Cleveland, 1954; Garret, Attitudes on Corporate Democracy. A critical Analysis, in «Northwersten University Law Rev.», 1956, n. 51, pp. 310 ss. (su cui v. Bernini, La rivoluzione degli azionisti, in «Riv. dir. civ.», 1957, I, p. 594); Aranow e Einhorn, Proxy Contests for Corporate Control, New York, 1957. Per un inquadramento delle proxy-rules, e in genere del controllo pubblicistico imperniato sulla Securities Exchange Commission, nella teoria del potere di equilibrio, cfr. Galbraith, Capitalismo americano, cit., pp. 161 ss. Si veda ancora, da ultimo, la breve esposizione di Tunc, La protezione dell’azionista: l’esempio degli Stati Uniti d’America, in «Nuova riv. dir. comm.», 1957, I, pp. 97 ss.
[64] Lo scarso entusiasmo dei lavoratori inglesi per la prospettiva di assumere diritti di codedsione è rilevato da Crosland, The Future of Socialism, cit., pp. 359, 364. Cfr. anche Ferri, op. cit., p. 48. Nella stessa Germania resperienza successiva alle leggi sulla Mitbestimmung non è del tutto positiva. Dopo le elezioni del consiglio di azienda nella «Westphalen Hutte» (dicembre 1955), che hanno avuto risultati disastrosi, l’organo di informazioni intemazionali della confederazione dei sindacati tedeschi (D. G. B. Nouvelles) ha pubblicato un articolo del dott. Koch, «direttore del lavoro» della «Hoesch-Werke AG», in cui la cogestione viene difesa di fronte alle accuse di fallimento, e si tenta di circoscrivere il significato di quelle elezioni dandone una spiegazione collegata a una particolare situazione dell’azienda in questione. L’articolo è riprodotto, in traduzione italiana, nel «Bollettino di studi e statistiche» della Cisl, 1956, pp. 291 ss., con una premessa nella quale si dichiara che «dalla lettura dello stesso articolo risulta ulteriormente e in modo più approfondito suffragata la perplessità dei sindacati dei paesi anglosassoni – inglesi e americani soprattutto, e anche della Cisl italiana – sui vantaggi per il movimento operaio e sindacale della cogestione». In una conferenza tenuta all’Università di Colonia (un riassunto mi è stato cortesemente fornito dalla Divisione dei Problemi del Lavoro della CECA) il prof. Koenig ha rivelato i risultati di un’inchiesta da lui condotta in varie imprese tedesche, da cui appare che lo stato d’animo dei lavoratori della «Westphalen Hutte» non sarebbe un caso isolato. Secondo K. la legge sulla codecisione ha provocato inquietudine e risentimento tra gli operai. Essi dimostrano scarsa fiducia nei loro rappresentanti e soprattutto nel «direttore del lavoro», considerato di condizione sociale superiore, insomma «uno che è passato dall’altra parte» (sull’elezione del direttore del lavoro come possibile causa di risentimento tra i lavoratori cfr. Crosland, The Future of Socialism, cit., p. 361). Si riconosce bensì che il direttore del lavoro e i comitati d’impresa sono riusciti a ottenere salari più elevati, ma i nuovi benefici sono costituiti in larga parte da premi di produzione, mentre gli operai preferiscono salari globali meno elevati, purché la parte fissa, cioè il salario base, sia più sostanziosa. La conclusione di K. è che la legge sulla codecisione non ha trovato profonda rispondenza nella coscienza dei lavoratori: è stata concepita su un piano troppo elevato e non ha tenuto conto dei loro veri desideri. Nel 1951 era stata condotta una inchiesta tra i dipendenti di una grande impresa in merito alla legge allora in preparazione. Il 49% aveva risposto di considerarla favorevole ai lavoratori; il 26% di considerarla sfavorevole; il 25% di non avere alcuna opinione. Nel 1955, nella stessa impresa, le percentuali sono state rispettivamente: 9%, 72%, 19%. Per un panorama generale degli sviluppi dell’idea della codecisione cfr. lo studio pubblicato dal Bit, La collaboration dans l’industrie, Genève, 1951, e l’inchiesta dell’Institut de droit et d’economie comparés de la faculté de droit et des Sciences politiques de Strasbourg, diretta da David, La partecipation des travailleurs à la gestion des entreprises privées dans les principaux pays d’Europe occidentale, Paris, 1954.