Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c12
Nell’analisi marxista la categoria degli amministratori di società non proprietari non ha autonomia, è una classe secondaria e derivata, una sovrastruttura della classe capitalista. Nell’assetto contemporaneo questi uomini rappresentano un nuovo tipo sociale, sempre più differenziato. Naturalmente vi è tuttora un notevole grado di compenetrazione tra le due classi, soprattutto nei paesi dove il processo di separazione della proprietà dal controllo delle grandi imprese industriali si trova prevalentemente nella fase intermedia detta del «controllo di minoranza», mentre la fase finale, costituita dal dominio assoluto degli amministratori, si intravvede appena in poche grandissime
¶{p. 340}società
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. Inoltre, come è stato giustamente osservato, i nuovi dirigenti industriali europei «hanno in gran parte le stesse origini e gli stessi atteggiamenti sociali degli imprenditori che sostituiscono»
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, il che è una conseguenza dello spirito di casta che una lunga tradizione storico-culturale alimenta nelle classi superiori delle società europee, così diverse sotto questo profilo dalla società americana. Tutto ciò esclude la possibilità di isolare la nuova classe dei dirigenti industriali con un taglio radicale, come pretendeva Burnham nel noto libro pubblicato quasi ventanni fa. La cautela contro eccessive schematizzazioni deve essere una regola generale nell’analisi dell’attuale struttura di classe, che è molto più complicata e più fluida rispetto al quadro tradizionale. Ma, dopo queste precisazioni, rimane la constatazione che, nell’esercizio del potere direttivo dell’impresa, i nuovi dirigenti manifestano in misura progressiva punti di vista, attitudini e motivazioni psicologiche diverse da quelle caratteristiche dell’imprenditore classico.
3. L’indebolimento dei limiti del potere economico propri del sistema classico.
Il potere di cui è investita questa nuova classe è molto più grande, benché sotto altri aspetti incontri alcuni limiti sconosciuti nel sistema classico. Anzitutto si è indebolito il fattore di controllo che un tempo limitava severamente le decisioni dell’imprenditore circa gli investimenti di capitale
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. Questo fattore, noto ¶{p. 341}sotto il nome di «giudizio del mercato», è stato largamente neutralizzato dalla politica di autofinanziamento praticata dai gruppi direttivi delle grandi società dopo l’esperienza delle difficoltà finanziarie create dalla grande depressione economica. La crisi del 1929 ha segnato il tramonto del banchiere come simbolo del potere economico
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e il suo posto è stato preso dai dirigenti delle grandi imprese industriali, i quali dispongono di ingenti fonti interne di capitale costituite mediante l’accantonamento di una larga quota dei profitti. Mano a mano che la voce degli azionisti nella deliberazione dei dividendi diventava sempre più debole, la tendenza della grande impresa all’autogenerazione del capitale si è sviluppata in proporzioni massicce. I dati raccolti per gli Stati Uniti da una inchiesta eseguita nel 1953 per conto della National City Bank
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sono impressionanti. Ma l’opinione avanzata nel 1940 da due studiosi americani, secondo cui la politica di autofinanziamento sarebbe peculiare delle società americane e non troverebbe riscontro nei paesi europei
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, è infondata così per gli anni precedenti come, e soprattutto, per gli anni successivi alla seconda guerra mondiale. Dal bilancio della massima società per azioni inglese – la Imperial Chemical Industries – pubblicato nel 1954, risultava che, nel periodo 1945-52, essa aveva investito in nuove attrezzature produttive la somma di 213 milioni di sterline: di questa somma, 153 milioni (oltre il 71%) erano stati tratti da fonti interne delle società, cioè erano costituiti da profitti non distribuiti
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. Non posseggo dati precisi per l’Italia, ma è fuori dubbio che anche le nostre ¶{p. 342}imprese accumulano risolutamente, e ne è indice, tra l’altro, la frequenza e la vivacità con cui nella più recente letteratura giuridica viene trattato il problema della liceità delle riserve occulte
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. Nella fase attuale la politica di autofinanziamento delle grandi società per azioni non è determinata soltanto dallo scopo di porre l’impresa in grado di fronteggiare le difficoltà finanziarie nei periodi di depressione, di garantire dividendi stabili e di assicurare l’amministrazione contro il pericolo di “scalate”, ma è orientata verso finalità di espansione dell’impresa, di aumento della potenza e del successo dell’organizzazione, da cui dipendono la potenza e il successo degli uomini che la dirigono. Questa constatazione non implica una valutazione critica, e anzi, sotto certi aspetti, si può riconoscere che la tendenza ha effetti favorevoli sul progresso del benessere generale. Ma si pone il problema se sia compatibile col principio democratico il fatto che la nuova classe dei dirigenti industriali abbia un potere tanto grande nella decisione della questione fondamentale della vita del paese: quanto del reddito nazionale accumulare e quanto invece consumare, e come, dove, quando e in quale genere di produzione impiegare la ricchezza accumulata
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.
In secondo luogo è in gran parte cessato un altro limite del potere economico: la concorrenza sul mercato dei prodotti. Nel sistema classico i risultati generali dell’economia non dipendevano dalla decisione cosciente di alcuni imprenditori: ciascuno decideva per sé e la coordinazione delle singole decisioni al fine del massimo beneficio generale era affidata al regolatore automatico stimolato dalla mano invisibile della concorrenza. I dirigenti delle grandi imprese moderne dispongono invece di un potere sul mercato
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. Essi sono in grado di influire in misura notevole sui prezzi, sui salari, sulla quantità e sulla qualità ¶{p. 343}della domanda, e le loro decisioni dipendono dalla rappresentazione di determinati risultati che si intendono raggiungere nell’ambito della collettività generale
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. Il potere di pianificazione delle imprese assume così i caratteri del potere politico
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.
4. I nuovi limiti: l’intervento dello Stato nell’economia e lo sviluppo dei poteri di equilibrio.
Tuttavia, questo potere non è illimitato. Esso incontra tre ordini di limitazioni: le prime due sono costituite da fattori istituzionali, risultanti dall’evoluzione dell’organizzazione politico-giuridica della società; la terza è un portato dell’organizzazione interna dell’impresa.
La classe capitalistica, intesa come classe detentrice del potere economico, sta scomparendo e viene rimpiazzata dai comitati direttivi delle grandi società per azioni
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. Ma sulla scena economica è intanto comparso un altro attore di primo piano: lo Stato. Esso comprime il potere dei dirigenti delle grandi imprese in varie maniere: con lo strumento del sequestro fiscale di una parte dei profitti, con un complesso apparato di controlli amministrativi, e infine attraverso l’intervento diretto nella produzione.
Il vasto problema della impresa pubblica non può essere qui nemmeno sfiorato. Nel quadro di questa lezione si impone però una precisazione sotto il profilo dell’incidenza delle pubbliche imprese sul processo di trasformazione del potere economico. La nazionalizzazione di alcune industrie e il trasferimento di altre sotto la direzione di enti pubblici hanno diminuito il potere economico privato e aumentato il potere dell’autorità statale. Ma ¶{p. 344}all’origine della politica di trasferimento allo Stato della proprietà di una parte dell’assetto produttivo del paese sta la premessa, ormai superata, di una stretta correlazione tra proprietà legale e controllo dei mezzi di produzione. Si comincia a riconoscere che il cambiamento della proprietà non è condizione necessaria, e comunque non è sufficiente per promuovere un effettivo controllo dello Stato sull’economia ai fini della pianificazione dell’attività economica. Se poi la considerazione si sposta all’altro aspetto del problema del potere, che concerne la concentrazione del potere all’interno delle singole unità produttive e le conseguenze che ne derivano sul piano delle relazioni sociali nell’industria (relazioni tra direzione e lavoratori), anche qui la questione della titolarità pubblica o privata della proprietà appare ora meno importante di altri fattori. L’esperienza delle nazionalizzazioni in Inghilterra e in Francia ha dimostrato (con sorpresa dei socialisti) che l’impresa pubblica e l’impresa privata si trovano di fronte a problemi molto simili. L’elemento per cui esse si differenziano esercita scarsa influenza sul comportamento delle rispettive direzioni, il quale è determinato da ciò che i due tipi di impresa hanno in comune: l’organizzazione industriale per una produzione su larga scala. I membri dei boards delle public corporations inglesi stanno manifestando un’affinità di temperamento con gli uomini che dirigono le grandi imprese private forse maggiore di quanto essi stessi vorrebbero avere. Una constatazione analoga è emersa in un recente convegno di studi tenuto a Grenoble sulle imprese nazionalizzate in Francia. L’impostazione iniziale, che mirava a istituire una gestione delle imprese nazionalizzate conforme all’interesse pubblico e non più asservita alla molla del profitto, è stata superata dalla forza delle esigenze pratiche
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. La
¶{p. 345}nuova classe dirigente dell’industria tende a comprendere, con attitudini fondamentalmente simili, i dirigenti sia delle grandi imprese private sia delle imprese pubbliche, e ciò significa che l’impresa pubblica si è rivelata un mezzo di trasformazione della struttura sociale dell’industria meno efficace di quanto si poteva supporre in partenza
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Note
[12] Esistono tuttora grandi società anonime familiari, in cui proprietà e gestione del capitale sono riuniti nelle medesime persone. Tuttavia, le conseguenze sull’evoluzione della nuova classe dirigente dello stato di compenetrazione, cui si accenna nel testo, non devono essere sopravvalutate. Il concetto di «impresa anonima», con cui si suole descrivere la trasformazione in senso burocratico del potere direttivo della grande impresa (e quindi il distacco di esso dai criteri e dalle attitudini del classico imprenditore-proprietario), è applicabile alle grandi società per azioni familiari non meno che alle imprese soggette al dominio di amministratori non-proprietari.
[13] Crosland, Il passaggio dal capitalismo, cit., p. 52. Cfr. anche Ferrarotti, Il dilemma dei sindacati americani, Milano, 1954, pp. 55 ss.
[14] Cfr. Berle jr., La rivoluzione capitalistica del XX secolo, Milano, 1956, p. 34 ss.; Vigreux, Les droits des actionnaires dans les sociétés anonymes. Théorie et realité, Paris, 1953, pp. 123 ss.
[16] Riferiti da Berle, op. cit., pp. 35 ss.
[17] Graham e Dodd, Security Analysis, New York, 1940, pp. 378 s., citati da Hurff, Social Aspects, cit., p. 92, nota 41.
[18] Strachey, op. cit., p. 207. Per la Francia cfr. i dati riferiti da Vigreux, op. cit., pp. 62 ss., e Despax, op. cit., p. 217: l’autofinanziamento rappresentava nel 1952 il 78%, nel 1953 il 72,5% e nel 1954 il 67% del totale degli investimenti privati (1106 miliardi di franchi per il 1954).
[19] Da ultimo cfr. Petitti, Contributo allo studio del diritto dell’azionista al dividendo, Milano, 1957; Rossi, Utile di bilancio. Riserve e dividendo, Milano, 1957.
[20] Per una discussione generale dei vantaggi e degli svantaggi dell’autofinanziamento, cfr. Vigreux, op. cit., pp. 135 ss.
[21] Galbraith, op. cit., pp. 60 ss.
[22] Berle, op. cit., p. 33.
[23] Sul potere politico delle grandi imprese, si veda la relazione (redatta da Ballerstedt) del primo comitato della commissione di studi nominata dal XXXI Congresso dei giuristi tedeschi (Stoccarda, 1951), in Untersuchungen zur Reform des Unternehmensrechts, vol. I, Tübingen, 1955, p. 26; ma soprattutto Friedmann, Corporate Power, Government by private Groups, and the Law, in «Columbia Law Rev.», 1957, pp. 164 ss. Brevi cenni anche nell’articolo di Rossi, Controllo pubblicistico sulle società per azioni, in «Riv. soc.», 1958, pp. 522 ss.
[24] Berle, op. cit., p. 37.
[25] Crosland, The Future of Socialism, pp. 73 s., 466 ss.; Cole, Démocratie à l’échelle humaine, in «Esprit», 1956, p. 739 s.; Rivero, Il funzionamento delle imprese nazionalizzate, in «Nuova riv. dir. comm.», 1956, n. 1, p. 277; Lewis, Recent British Experience in Nationalization, in Monopoly and Competition and their Regulation, a cura di Chamberlin, London, 1954, pp. 459 ss.; Jeanneney, Nationalization in France, ivi, p. 481.
[26] Così stando le cose, Crosland, op. ult. cit., pp. 482, 487 ss. conclude che, nei settori in cui l’iniziativa statale non adempie all’esigenza primaria di supplire all’assenza o all’insufficienza dell’iniziativa privata (nuove attività industriali o espansione economica in regioni sottosviluppate), l’azione delle imprese pubbliche dovrebbe orientarsi nella forma della «competitive public enterprise», cioè tendere principalmente allo scopo di restaurare un certo grado di competitività, in funzione di rottura del monopolio della grande o delle grandi imprese private operanti nel settore considerato. Tuttavia, la concreta possibilità di attuare il concetto di «pubblica impresa competitiva» (cioè operante in concorrenza effettiva con le grandi imprese private) non sono concordemente valutate. Cfr. le diverse opinioni di Piccardi e Scalfari, in La lotta contro i monopoli, Bari, 1955, pp. 41, 87.