Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c12
Per quanto sincera ed elevata possa essere la nuova coscienza che viene progressivamente formandosi nei corpi direttivi delle grandi imprese, per quanto favorevoli possano risultarne le conseguenze in relazione al benessere della collettività, questa coscienza non può costituire un criterio di soluzione del problema del potere economico. Venuta meno la soluzione, di natura deterministica, offerta dal modello della concorrenza, il problema si ripropone come problema giuridico. La coscienza morale dei gruppi direttivi delle imprese non è suscettibile di consolidarsi in norma giuridica
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; e anche se ciò fosse possibile, non basterebbe, perché l’inserimento dell’impresa nell’ordinamento giuridico della comunità politica non può essere concepito semplicemente in termini di assoggettamento del potere economico a un complesso di obbligazioni volte a garantirne l’armonizzazione con de
¶{p. 355}terminate finalità di interesse generale. Collegato ormai a funzioni che trascendono la sfera privata degli interessi della proprietà, il potere delle grandi imprese non può legittimarsi se non attraverso un mutamento di struttura
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, inserendosi organicamente in un nuovo ordinamento costituzionale dell’economia che realizzi la partecipazione di tutti i gruppi sociali alla determinazione dei contenuti del bene comune nel dato momento storico e a stabilire in che cosa deve consistere il progresso della collettività
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.¶{p. 356}
9. La partecipazione dei lavoratori alla formazione delle decisioni dell’impresa. La soluzione della «Mitbestimmung».
Il problema della costituzione economica presenta due aspetti. Il primo riguarda i rapporti esterni dell’impresa, che sono rapporti di mercato. Lo Stato deve rinunciare a esercitare direttamente le funzioni di contrappeso che trovano i loro organi naturali al livello delle collettività intermedie individuabili come portatrici di una comune posizione contrattuale nei confronti dell’impresa. Compito dello Stato è di favorire con una adeguata strumentazione giuridica lo sviluppo e l’organizzazione di queste collettività nella forma di poteri di equilibrio capaci di condizionare le decisioni delle imprese
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. Verso un siffatto sistema di articolazione del potere economico in un complesso organico di solidarietà sociali sembra orientato il processo di trasformazione sociale in corso, ed è lecita fin d’ora la domanda se la società futura non sarà per avventura testimone di un ritorno a schemi organizzativi in cui l’equilibrio sociale è la risultante di un gioco di solidarietà giustapposte, costantemente sorvegliato e indirizzato dalla mediazione propulsiva del potere politico supremo
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Non è mio compito approfondire questo aspetto del ¶{p. 357}problema, che apre nuove prospettive alla dottrina dei gruppi intermedi. Materia di questa lezione è l’altro aspetto, concernente i rapporti interni dell’impresa.
Nella concezione classica non esiste un problema di struttura giuridica dell’impresa. La nozione giuridica di impresa si esaurisce nella nozione di esercizio del diritto di proprietà, ossia in una attività giuridicamente irrilevante. Ne risulta così spezzato ogni legame tra il diritto del lavoro e la disciplina della funzione imprenditrice, nel senso che la posizione di proprietario-imprenditore e la posizione di datore di lavoro vengono separate sul piano della valutazione normativa. I rapporti tra l’imprenditore e i lavoratori occupati nell’impresa sono giuridicamente rilevanti esclusivamente come rapporti esterni di mercato, regolati dal contratto di lavoro configurato come contratto di scambio. Perciò l’inserimento dei lavoratori nell’organizzazione produttiva (azienda) implica un processo di oggettivazione della forza lavoro, che viene ridotta nella sfera dell’oggetto della proprietà dell’imprenditore.
Il moderno diritto del lavoro si è sviluppato precisamente da una posizione polemica nei confronti della concezione classica, la quale, nelle sue ultime implicazioni logiche, si risolve in un attentato all’integrità della personalità giuridica del lavoratore. Di qui lo sforzo di una parte della nuova dottrina diretto a far emergere sul piano della rilevanza giuridica il profilo istituzionale o comunitario dell’impresa
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, in guisa da qualificare normativamente il contratto di lavoro come fonte non solo di un rapporto di scambio, ma anche di un rapporto organico di collaborazione tra lavoratore e imprenditore. Il processo di alienazione descritto da Marx (per cui tutti i fenomeni ¶{p. 358}sociali, e in particolare l’attività dell’impresa e il suo prodotto, vengono entificati in qualche cosa di estraneo ai prestatori di lavoro, su cui essi non hanno alcuna possibilità di controllo) viene invertito in un processo di reintegrazione della persona del lavoratore nell’attività produttiva, che gli restituisce il senso di una partecipazione creativa al mondo in cui vive. In termini giuridici, la concezione istituzionalistica porta a riconoscere ai membri della comunità di lavoro nell’impresa un titolo di partecipazione alla formazione delle decisioni dell’imprenditore.
Questo titolo è riconosciuto dall’art. 46 Cost. Ma la norma costituzionale si astiene saggiamente dal porre vincoli al legislatore ordinario per quanto attiene alla misura e alle forme di attuazione del principio della «cogestione». Per valutare le possibilità pratiche di tale principio di tradursi in fattore di progresso economico e sociale, è necessaria una premessa. L’impresa è sì una istituzione, un corpo sociale organizzato per uno scopo tecnico-produttivo, ma non è soltanto (e nemmeno principalmente) questo. Vi è un altro profilo, sotto il quale l’impresa si manifesta come l’attività economica dell’imprenditore e riceve senso e valore solo dalla persona e dalla volontà di lui. Se questa premessa non fosse riconosciuta, se l’idea della «comunità di lavoro e d’impresa» dovesse svolgersi nella tendenza a disintegrare gli attributi della personalità giuridica dell’imprenditore nella collettività di coloro che con lui cooperano all’esercizio dell’impresa, allora si aprirebbe la via a soluzioni incompatibili con la necessaria chiarezza dei nuovi rapporti sociali che si tratta di instaurare e tali, in definitiva, da consolidare, anziché attenuare, la rigidità del sistema.
Indubbiamente nell’ambito delle grandi imprese la disciplina giuridica dell’imprenditore, cioè la disciplina della società per azioni, è in crisi. Le trasformazioni tecniche, congiunte con la concentrazione dei capitali industriali, hanno determinato una dissociazione delle due funzioni che costituiscono i tratti essenziali della figura dell’imprenditore: la funzione passiva di sopportazione del rischio e la funzione attiva di direzione economico-finan¶{p. 359}ziaria dell’impresa. La polverizzazione delle partecipazioni azionarie ne ha svalutato l’aspetto societario a vantaggio di quello finanziario
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, così che la grande maggioranza degli azionisti ha perduto ogni potere di iniziativa negli affari sociali. Ma questo fenomeno non giustifica l’abbandono della concezione classica della società per azioni a favore di una diversa concezione, che identifica il sostrato della personalità giuridica dell’imprenditore non più nella collettività dei soci portatori del capitale, bensì nell’impresa in sé considerata come istituzione
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; concezione che costituisce poi la premessa teorica di una riforma legislativa che altera la struttura della società per azioni, introducendo una rappresentanza dei lavoratori negli organi di formazione della volontà sociale
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.
Dal punto di vista logico-giuridico tale soluzione – recentemente accolta, come tutti sanno, dal legislatore germanico – è viziata da una confusione dell’impresa con
¶{p. 360}l’imprenditore
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e da un conseguente artificioso allargamento del contenuto istituzionale dell’impresa in guisa da inserirvi anche gli azionisti, in una innaturale giustapposizione con i lavoratori che è stata presentata e giustificata come un «salto al di sopra della fossa dei fronti di classe»
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. Ma in una formula del genere francamente non si riesce a vedere altro che puro velleitarismo. L’eliminazione della lotta di classe, intesa come lotta per la conquista dello Stato, è un obiettivo da perseguire con ogni sforzo, ma il raggiungimento di esso non postula l’abbandono {p. 361}della concezione che fonda il rapporto di lavoro in una situazione di conflitto di interessi. Questo non è un concetto reazionario e nemmeno marxista: è semplicemente la constatazione di una realtà connaturata all’attuale sistema economico. Marxista è soltanto la valutazione di tale realtà come antagonismo assoluto e irreconciliabile
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, tale da non poter essere risolto se non con la distruzione di una parte e l’identificazione dell’altra con lo Stato.
Note
[46] Friedmann, op. cit., p. 185. Opposta, naturalmente, la valutazione di Berle, Rivoluzione capitalistica, cit., p. 65, ma in termini che confermano la rinuncia dell’autore (che pure è professore di diritto) alle preoccupazioni del giurista.
[47] In opposizione al punto di vista classico, accettato anche dal marxismo (cfr. Strachey, op. cit., pp. 97 s.), oggi si riconosce sempre più la possibilità di influire sullo sviluppo economico e di correggerne le tendenze mediante fattori di ordine istituzionale risultanti dalle strutture politico-giuridiche della società. Vedi i cenni in questo senso di Ascarelli, Cooperativa e società (concettualismo giuridico e magia delle parole), in «Riv. soc.», 1957, p. 434, in nota.
[48] Il riconoscimento dell’inattualità dell’alternativa tra proprietà privata e proprietà pubblica dei mezzi di produzione, tra Stato capitalistico e Stato collettivistico, e la sostituzione ad essa dell’istanza di un ordinamento costituzionale dell’economia, che realizzi una divisione del potere economico tra i vari gruppi sociali collegati al fenomeno della grande impresa, è l’idea centrale del recente studio di Craveri, La disintegrazione della proprietà, cit., spec. pp. 82 ss. Questo orientamento sta affermandosi anche tra i teorici del laburismo inglese, e ne è testimonianza significativa il volume più volte citato di Crosland, nel quale la richiesta di un ulteriore trasferimento alla collettività statale della proprietà produttrice del reddito è quasi abbandonata, in netto contrasto con le posizioni di Strachey (e, ancor più, di Bevan). Tuttavia il problema della proprietà rimane, e nella valutazione di esso persiste un motivo di dissenso anche con le tendenze revisioniste da cui è ispirata la tesi di Craveri. Il concetto di «impresa anonima» (sul quale cfr. anche Mossa, L’impresa anonima della società per azioni, in «Nuova riv. dir. comm.» 1954 I, pp. 1 ss.) è accettabile solo come descrizione della tendenza della grande impresa a spersonalizzare la proprietà dei mezzi di produzione e a sostituire alla gestione dei proprietari la gestione burocratica dei nuovi dirigenti-non proprietari. Non è accettabile, invece, ove venga proposto come strumento di una valutazione giuridica che sanzioni l’estromissione dei proprietari dall’impresa e la riduzione del diritto di proprietà a un puro diritto a un valore (una «legalizzazione» in questi termini della nuova realtà è espressamente proposta da Drucker, op. cit., p. 454, sul riflesso che «nella natura dell’investimento non v’è assolutamente nulla che esiga o giustifichi diritti di proprietà, cioè diritti di controllo»; più cauto Crosland, The Future of Socialism, cit., p. 356, di cui non sembra contestabile il rilievo che «there is nothing to-day in the nature of investment or the function of the capital market which gives the investor any natural “right” to sole legal control»). Il nuovo ordinamento costituzionale dell’economia deve essere costruito senza che vada perduta l’essenza della proprietà, e questa esigenza sembra chiaramente compresa anche nell’«ideale» di Crosland, op. ult. cit., p. 496, formulato in termini difficilmente conciliabili con l’ortodossia socialista (lo stesso autore riconosce che si tratta di una «unpopular solution amongst the traditionalists of the Left»). La rielaborazione della dogmatica giuridica in questo senso è però appena agli inizi: v. alcuni spunti nei citati studi di Ballerstedt e di Krause, nonché, ma in direzione diversa, in Köhler, Betrieb und Unternehmen in wirtschaftsverfassungsrechtlicher Sicht, in «Juristenzeitung», 1953, pp. 713 ss. (e ancora ivi, 1955, p. 592), con l’avvertenza, peraltro, che lo sforzo ricostruttivo della dottrina tedesca è oggi pregiudicato dal dato positivo introdotto dalle leggi sulla Mitbestimmung.
[49] Sotto questo profilo possono essere inquadrati e ricevono nuova luce alcuni interventi caratteristici dello Stato contemporaneo, quali la politica diretta a promuovere la massima occupazione, la legislazione antimonopolistica, i provvedimenti a favore delle cooperative, ecc. Cfr. Galbraith, op. cit., pp. 160 ss.
[50] Per una analoga prospettiva di una futura società pluralistica e per il concetto di «potere di riserva» (reserve function) che in essa lo Stato è destinato a esercitare, cfr. Friedmann, op. cit., pp. 164 ss.
[51] Santoro-Passarelli, L’impresa nel sistema del diritto civile, in Scritti in onore di Barassi («Jus», 1943), pp. 220; Miglioranzi, Il rapporto di lavoro nella sua evoluzione, in Scritti in onore di A. Scialoja, vol. IV, Bologna, 1953, pp. 293 ss.; Mancini, La responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro, Milano, 1957, pp. 114 (testo e nota 36), 125. Secondo Greco, Corso di diritto commerciale (impresa-azienda-società), Milano, 1952, p. 53 s., il concetto germanico di Gemeinschaft, evocato da Santoro-Passarelli, in definitiva ha lo stesso senso della nozione di istituzione.
[52] Cfr. Cottino, Le convenzioni di voto nelle società commerciali, Milano, 1958, p. 58. Sulla frattura tra la forma legale e la realtà della società per azioni, e per una discussione delle varie possibili misure per porvi rimedio, cfr. i due ampi studi di Fischer, Rechtsschein und Wirklichkeit im Aktienrecht, in «Ar. dv. Pr.», 1955, p. 85 ss.; Die Reform des Aktiengesetzes, ivi, pp. 181 ss.
[53] La letteratura sulla teoria istituzionalistica della società per azioni è troppo vasta perché possa essere qui ricordata. La bibliografia essenziale si può ricavare dalla nota premessa ai miei Appunti per una revisione della teoria sul conflitto di interessi nelle deliberazioni di assemblea della società per azioni, in «Riv. soc.», 1956, p. 134, e ivi (pp. 441 s.) qualche valutazione critica.
[54] Per la valutazione delle leggi sulla Mitbestimmung come uno sviluppo logico della concezione istituzionalistica della società per azioni (già presagito da Planitz, Die Stimmrecbtsaktie, Leipzig, 1922), cfr. Fischer op. cit., in «Ar. civ. Pr.», 1955, pp. 106, nota 63, 217; Ferri, Potere e responsabilità nell’evoluzione della società per azioni, in «Riv. soc.», 1956, pp. 43 s.; Libonati, Recenti tendenze del diritto germanico in tema di società e di cartelli, ivi, 1957, pp. 898 ss. Le idee di Planitz sono state riprese nella dottrina inglese da Goyder, L’avvenire dell’impresa privata, Milano, 1955, e una cauta proposta di ammettere una rappresentanza eletta dei dipendenti in seno ai consigli di amministrazione delle società anonime (non nell’assemblea, come vorrebbe Goyder) si trova anche nei Nuovi saggi fabiani, cit., pp. 182 s., formulata da Albu. Ma vedi il giudizio scettico di Ctosland, The Future of Socialism, cit., pp. 356 ss. Si può dire, in generale, che l’idea della Mitbestimmung trova scarsa considerazione in Inghilterra, e nessuna in America.
[55] Cfr. Libonati, op. cit., pp. 897, nota 2; 920, nota 37; Nikisch, Le questioni giuridico-sociali dell’ordinamento delle forme d’impresa, in «Nuova riv. dir. comm.», 1953, I, p. 213; Garrigues, Aspetto giuridico dell’impresa, ivi, 1949, I, p. 54. La confusione tra impresa e imprenditore (nei casi in cui l’impresa sia esercitata da una società) è considerata da Fanelli, Introduzione alla teoria giuridica dell’impresa, Milano, 1950, p. 78, una conseguenza inevitabile della concezione istituzionalistica dell’impresa, formulata dalla dottrina del diritto del lavoro per mettere in rilievo la funzione organizzativa che il rapporto di lavoro assume in quanto si svolge nell’impresa. In altre parole, la concezione istituzionalistica della società per azioni è ritenuta un aspetto logicamente complementare della concezione istituzionalistica dell’impresa. Questa valutazione non è esatta. Quando la dottrina della «comunità d’impresa» designa come membri della comunità l’imprenditore e i suoi dipendenti, che con lui collaborano per uno scopo comune costituito dal risultato economico della produzione, essa allude all’imprenditore non nel senso dell’art. 2082 c.c. (per cui la qualità di imprenditore può competere sia a una persona fisica sia a una persona giuridica), bensì nel senso di «capo dell’impresa» (art. 2086), qualità che può essere rivestita solo da una persona fisica. Se imprenditore è una società per azioni, entrano a far parte della «comunità di lavoro e d’impresa», insieme con i lavoratori, solo le persone fisiche preposte all’esercizio dell’impresa (amministratori della società e direttori); non anche la collettività degli azionisti, che costituisce l’elemento materiale della persona giuridica-società cui viene giuridicamente riferita l’attività d’impresa e così la qualità di imprenditore nei rapporti esterni. Tra la concezione istituzionalistica dell’impresa e la concezione istituzionalistica della società per azioni non v’è un rapporto di logica complementarità, ma piuttosto un salto logico coperto da un equivoco terminologico. Del resto, è abbastanza noto che la concezione istituzionalistica della società per azioni si è storicamente sviluppata nel quadro di ideologie e di direttive politico-sociali non propriamente coincidenti con quelle che hanno ispirato l’idea della comunità d’impresa nell’ambito del diritto del lavoro.
[56] Schilling, L’evoluzione del diritto delle società nel dopoguerra in Germania, in «Riv. soc.», 1957, p. 187. Cfr. anche il citato rapporto della commissione di studi del Congresso dei giuristi tedeschi (Untersuchungen zur Reform des Unternehmensrechts), p. 40.
[57] Questa valutazione sta all’origine dell’aspro giudizio pronunciato sulla concezione istituzionalistica dell’impresa da Lyon Caen, Manuel de droit du travail et de la sécurité sociale, Paris, 1955, p. 223. «... il y a sans dout là une mystification, inconsciente ou consciente, mystification qui tend à atténuer l’acuité des luttes sociales et à faire oublier aux salariés leurs véritables intérêts». Di «mistificazione» parlano anche Fraisse e Guisbourg, Human relations: progrès ou mystification?, in «Esprit», 1953, p. 797.