Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c12
Il vasto problema della impresa pubblica non può essere qui nemmeno sfiorato. Nel quadro di questa lezione si impone però una precisazione sotto il profilo dell’incidenza delle pubbliche imprese sul processo di trasformazione del potere economico. La nazionalizzazione di alcune industrie e il trasferimento di altre sotto la direzione di enti pubblici hanno diminuito il potere economico privato e aumentato il potere dell’autorità statale. Ma {p. 344}all’origine della politica di trasferimento allo Stato della proprietà di una parte dell’assetto produttivo del paese sta la premessa, ormai superata, di una stretta correlazione tra proprietà legale e controllo dei mezzi di produzione. Si comincia a riconoscere che il cambiamento della proprietà non è condizione necessaria, e comunque non è sufficiente per promuovere un effettivo controllo dello Stato sull’economia ai fini della pianificazione dell’attività economica. Se poi la considerazione si sposta all’altro aspetto del problema del potere, che concerne la concentrazione del potere all’interno delle singole unità produttive e le conseguenze che ne derivano sul piano delle relazioni sociali nell’industria (relazioni tra direzione e lavoratori), anche qui la questione della titolarità pubblica o privata della proprietà appare ora meno importante di altri fattori. L’esperienza delle nazionalizzazioni in Inghilterra e in Francia ha dimostrato (con sorpresa dei socialisti) che l’impresa pubblica e l’impresa privata si trovano di fronte a problemi molto simili. L’elemento per cui esse si differenziano esercita scarsa influenza sul comportamento delle rispettive direzioni, il quale è determinato da ciò che i due tipi di impresa hanno in comune: l’organizzazione industriale per una produzione su larga scala. I membri dei boards delle public corporations inglesi stanno manifestando un’affinità di temperamento con gli uomini che dirigono le grandi imprese private forse maggiore di quanto essi stessi vorrebbero avere. Una constatazione analoga è emersa in un recente convegno di studi tenuto a Grenoble sulle imprese nazionalizzate in Francia. L’impostazione iniziale, che mirava a istituire una gestione delle imprese nazionalizzate conforme all’interesse pubblico e non più asservita alla molla del profitto, è stata superata dalla forza delle esigenze pratiche
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. La
¶{p. 345}nuova classe dirigente dell’industria tende a comprendere, con attitudini fondamentalmente simili, i dirigenti sia delle grandi imprese private sia delle imprese pubbliche, e ciò significa che l’impresa pubblica si è rivelata un mezzo di trasformazione della struttura sociale dell’industria meno efficace di quanto si poteva supporre in partenza
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.
L’altro fattore di natura istituzionale, che limita il potere capitalistico, è costituito dallo sviluppo, favorito dal nuovo ambiente democratico, di poteri di equilibrio nei gruppi sociali soggetti alle decisioni delle grandi imprese. Il potere di equilibrio, inteso come fattore di controllo del potere delle imprese, è stato recentemente teorizzato in America da Galbraith
[27]
. In Italia un compiuto sistema di contrappesi non è ancora delineato, e non sembra che il nostro legislatore sia incline a cercare in questa direzione la soluzione del problema del potere. L’organizzazione sindacale dei lavoratori è la forma storicamente primaria del potere di equilibrio, ma questo deve essere integrato da altre solidarietà contrapposte all’impresa, mediante una generalizzazione della forma sindacale agli interessi collettivi soggetti al potere di mercato delle grandi imprese («sindacalizzazione» degli interessi degli agricoltori, dei consumatori, dei risparmiatori, ecc.). Valutare la possibilità di tradurre in termini legali la teoria ¶{p. 346}economica dei poteri in equilibrio è compito eminente della moderna giurisprudenza
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.
5. L’influenza dei tecnici di «staff».
Lo Stato e il sindacato hanno limitato il potere economico dell’impresa privata, eliminando così un tratto essenziale del capitalismo classico, cioè l’immunità dell’impresa privata nell’ordinamento giuridico
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. Ma, entro i limiti brevemente descritti, rimane un campo di potere in cui i dirigenti delle grandi imprese decidono senza alcun effettivo controllo. I problemi di riforma della disciplina giuridica nascono da questa constatazione; sono, in definitiva, problemi di organizzazione di controlli sulle decisioni della direzione da parte sia dei portatori del capitale sia dei membri della comunità di lavoro nell’impresa.
Prima di affrontare tali problemi è necessaria una analisi ulteriore degli atteggiamenti che il potere direttivo dell’industria viene assumendo nell’attuale fase di evoluzione. Da un punto di vista tecnico-formale esso tende a trasformarsi da potere individuale in potere di gruppo. La figura del capitano d’industria è scomparsa, e il suo posto è stato preso dai comitati direttivi delle grandi società per azioni
[30]
. Trasformata in attività di équipe, l’attività di decisione diventa naturalmente più cauta e più controllata. Ma il mutamento intervenuto nella sfera dell’attività di decisione delle grandi imprese moderne non si ferma qui. I problemi dell’azione economica sono divenuti così complessi e tecnicamente complicati che i membri dell’alta direzione dell’impresa non possono disporre direttamente di tutti i dati e di tutte le conoscenze necessarie per la soluzione. Essi devono procurarsi la collaborazione di un corpo di esperti e di specialisti, che occupano un grado inferiore nella gerarchia della impresa e hanno il ¶{p. 347}compito di fornire alla direzione un complesso di dati tecnici e di valutazioni scientifiche. Il risultato è che le decisioni della direzione, specialmente in materia di investimenti di capitale, sono non di rado quasi predeterminate dall’attività preparatoria svolta dai vari uffici tecnici dell’impresa, affidati a ingegneri, chimici ricercatori, esperti del mercato, economisti, sociologi, legali.
Sta qui il terzo fattore, cui accennavo, che limita dall’interno dell’impresa il potere della nuova classe dirigente: fattore non di ordine istituzionale (giuridico), bensì di ordine tecnico-organizzativo. Il potere rimane in ultima istanza ai membri dell’alta direzione, ma il suo esercizio è soggetto all’influenza della staff dei tecnici. Ciò, oltre a tutto, contribuisce ad accentuare il distacco delle decisioni della direzione dagli interessi della proprietà
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.
6. I tecnici di linea.
Distinta dal corpo dei tecnici e degli specialisti impiegati in compiti di studio, ricerche, informazione, consulenza e assistenza, vi è poi la categoria dei tecnici che operano direttamente nel processo produttivo e svolgono nell’organizzazione dell’impresa funzioni di direzione esecutiva e di sorveglianza del lavoro, distribuite secondo un ordine gerarchico (direttori di stabilimento e di reparto, capi-gruppo, capi-squadra, ecc.)
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. Nell’ambito di questa categoria le trasformazioni nella struttura dell’impresa si sviluppano nel senso di un decentramento verticale di potere. La tendenza in parola non concerne però il lato del potere che si è fin qui considerato. Finora il potere direttivo dell’impresa è stato considerato come fonte di decisioni che toccano intere categorie sociali incidendo su interessi collettivi di mercato. Ma all’interno dell’organizzazione il potere dell’imprenditore si configura come potere direttivo su altre persone individualmente considerate. A questo aspetto del potere, che gli anglosassoni ¶{p. 348}chiamano «potere faccia a faccia», corrisponde, nel linguaggio del diritto del lavoro, il concetto di subordinazione.
Nell’analisi marxista la subordinazione del lavoratore è una conseguenza dell’«alienazione»: non essendo proprietario dei mezzi di produzione egli è costretto a vendere il suo lavoro a chi tali mezzi possiede. Questa valutazione – per cui la subordinazione implica, dal lato attivo, l’idea di una signoria sulla persona del lavoratore – non corrisponde alla realtà della moderna impresa di produzione su larga scala. Qui la subordinazione non è relativa a un indice di proprietà, cioè al contratto di lavoro considerato come rapporto tipico tra proprietario e non proprietario dei mezzi di produzione, bensì è relativa alla collocazione del lavoratore in un dato posto nell’organizzazione aziendale. Essa può essere riferita al contratto di lavoro solo nel senso che questo è il mezzo giuridico normale dell’inserimento del lavoratore nell’organizzazione. La subordinazione è venuta così trasformandosi in subordinazione gerarchico-funzionale, collegata alle necessità tecnico-organizzative dell’impresa, e ciò spiega la tendenza del potere direttivo a decentrarsi al livello degli uomini che, nell’organizzazione del lavoro, occupano i posti immediatamente superiori ai lavoratori. Sono costoro, agli occhi dei lavoratori, il simbolo quotidiano del potere, mentre il potere dell’alta direzione assume un carattere remoto. Queste trasformazioni incidono profondamente sull’evoluzione sociale. La grande impresa ha condotto anzitutto a un’espansione del settore secondario (attività industriali) in rapporto al settore primario (attività agricole e di sfruttamento delle miniere); in secondo luogo, e parallelamente, aumenta la consistenza del settore terziario, cioè delle attività non direttamente produttive, con conseguente riduzione delle dimensioni di quella parte del settore secondario che è costituita dalle occupazioni operaie strettamente di fabbrica (e questa continua riduzione è destinata ad assumere un moto più accelerato mano a mano che progredisce il processo di automazione dell’industria). Così la grande impresa non solo ha cre¶{p. 349}ato una nuova classe dirigente, ma genera anche una proliferazione di classi intermedie
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, le quali, pur essendo tra loro notevolmente differenziate in ragione della varietà e diversità di prestigio sociale delle corrispondenti occupazioni, manifestano una psicologia e aspirazioni essenzialmente affini, e quindi possono unitariamente essere designate come nuova classe media dei tecnici. Essa si inserisce tra il vertice e la base della piramide sociale conferendo alla nuova società una struttura più articolata e un grado crescente di mobilità sociale.
7. La nuova funzione del profitto.
Nell’analisi dei fattori interni dell’impresa, che condizionano l’esercizio del potere economico, la trasformazione testé descritta non è la sola e forse nemmeno la più importante. Si è constatato un mutamento nella stessa sfera delle motivazioni psicologiche che sollecitano l’attività dei nuovi dirigenti. In breve – secondo le parole di un autorevole rappresentante dei nuovi fabiani inglesi – è intervenuta una rivoluzione psicologica, che ha alterato il ruolo tradizionale del profitto
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.
La teoria classica, legata all’ipotesi del proprietario imprenditore, ritiene che dal complesso dei motivi che determinano l’azione umana sia possibile astrarre il motivo del profitto personale e considerarlo la chiave dell’attività economica. Esso induce il proprietario a rischiare la sua ricchezza nell’impresa e, una volta avvenuta questa scelta, lo spinge ad applicare il massimo delle sue capacità abilità e diligenza in modo da conseguire il massimo rendimento dell’impresa. Nella fase attuale dell’economia questa teoria dovrebbe produrre le conseguenze indicate dalle profezie di Burnham: cioè la rivoluzione dei managers, intesa come progressiva espropriazione dei vecchi proprietari e spostamento della proprietà verso la nuova classe che esercita il controllo
[35]
. Questa rivoluzione non
¶{p. 350}è avvenuta e niente lascia supporre che avverrà. Certo non si può dire che nell’animo dei managers dimori uno sviscerato amore verso gli azionisti: essi sono profondamente convinti che le pretese della proprietà in materia di dividendi non sono sostenibili al di là di una certa misura, non molto superiore al tasso legale di remunerazione del denaro. Ma è pur vero che, nel contrasto con gli azionisti, essi non pongono, almeno in prima linea, una questione di interesse personale di natura pecuniaria.
Note
[25] Crosland, The Future of Socialism, pp. 73 s., 466 ss.; Cole, Démocratie à l’échelle humaine, in «Esprit», 1956, p. 739 s.; Rivero, Il funzionamento delle imprese nazionalizzate, in «Nuova riv. dir. comm.», 1956, n. 1, p. 277; Lewis, Recent British Experience in Nationalization, in Monopoly and Competition and their Regulation, a cura di Chamberlin, London, 1954, pp. 459 ss.; Jeanneney, Nationalization in France, ivi, p. 481.
[26] Così stando le cose, Crosland, op. ult. cit., pp. 482, 487 ss. conclude che, nei settori in cui l’iniziativa statale non adempie all’esigenza primaria di supplire all’assenza o all’insufficienza dell’iniziativa privata (nuove attività industriali o espansione economica in regioni sottosviluppate), l’azione delle imprese pubbliche dovrebbe orientarsi nella forma della «competitive public enterprise», cioè tendere principalmente allo scopo di restaurare un certo grado di competitività, in funzione di rottura del monopolio della grande o delle grandi imprese private operanti nel settore considerato. Tuttavia, la concreta possibilità di attuare il concetto di «pubblica impresa competitiva» (cioè operante in concorrenza effettiva con le grandi imprese private) non sono concordemente valutate. Cfr. le diverse opinioni di Piccardi e Scalfari, in La lotta contro i monopoli, Bari, 1955, pp. 41, 87.
[27] Il capitalismo americano, cit., pp. 130 ss.
[28] Così Friedmann, Corporate Power, cit., p. 177.
[29] Su questo punto cfr. Dossetti, Funzioni e ordinamenti dello Stato moderno, in «Justitia», 1952, pp. 246 ss.; Rescigno, Le società intermedie, in «Il Mulino», 1958, p. 17 (estr.); Crosland, Nuovi saggi fabiani, cit., p. 53.
[30] Schumpeter, op. cit., pp. 124 s.
[31] Crosland, The future of Socialism, cit., pp. 33 s., 37.
[32] Tra le due categorie non vi è solo distinzione: l’antagonismo tra i tecnici della «staff» e i tecnici della «linea» è un argomento familiare ai moderni studiosi americani dell’organizzazione sociale dell’impresa: cfr. Miller e Form, Industrial Sociology, New York, 1951, p. 169.
[34] Crosland, The Future of Socialism, cit., pp. 33 ss., 424.
[35] Burnham, La rivoluzione dei tecnici (non esatta traduzione dell’inglese The Managerial Revolution), Milano, 1946, p. 113. Per una breve, ma efficace critica cfr. Crosland, Il passaggio dal capitalismo, cit., pp. 65 s.