Luigi Mengoni
Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c11
Non si rende un servizio al buon esito del nuovo istituto interpretandolo come una estensione del conflitto sociale «dalle rivendicazioni salariali alle scelte di investimento, di localizzazione, occupazionali praticate dalle imprese», insomma «ai temi della direzione aziendale» [32]
. Le scelte produttive dell’impresa non possono essere oggetto di con trattazione, né dal punto di vista di una corretta gestione dell’impresa, né dal punto di vista dell’interesse generale che in esse è coinvolto in quanto condizionano lo sviluppo economico del paese. In ordine alle decisioni di investimento e di innovazione tecnologica imprenditori e lavoratori non possono avere interessi confliggenti, ma soltanto valutazioni opposte di un medesimo interesse comune: valutazioni, cioè, per le quali è possibile una concertazione, non una contrattazione basata sullo scambio di prestazioni eterogenee.
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In questa prospettiva l’assetto istituzionale delle imprese dovrebbe essere integrato nel senso di una organizzazione separata delle due funzioni conflittuale-contrattuale e di informazione-partecipazione. I consigli dei delegati di reparto, nei quali si sono materializzate le rappresentanze sindacali aziendali previste dall’art. 19 dello statuto dei lavoratori, sono nati nella temperie del 1968, agitata dallo spirito della lotta di classe, con un ruolo di contestazione permanente dell’organizzazione del lavoro; difficilmente possono adattarsi a ruoli di partecipazione. Il ruolo di interlocutori delle imprese nelle procedure di informazione-consultazione dovrebbe essere affidato a organismi rappresentativi diversi, analoghi ai comités d’entreprise francesi, eletti direttamente da tutti i lavoratori dell’impresa mediante un sistema di libere elezioni assistite dalle garanzie e dai controlli propri della democrazia formale [33]
.
La costituzione di consigli d’impresa, affiancati alle rappresentanze sindacali aziendali con funzioni informativo-consultive e di controllo sui piani di gestione dell’impresa, attuerebbe finalmente l’art. 46 della Costituzione; procurerebbe ai sindacati esterni un filtro meglio calibrato per la selezione degli impulsi rivendicazionistici e degli impulsi partecipazionistici provenienti dalla base; darebbe, infine, una risposta istituzionale a un problema divenuto cruciale dopo il primo decennio di applicazione dello statuto dei lavoratori: il problema di sanzionare anche per i sindacati la correlazione tra potere e responsabilità. Nella struttura sociale attuale il potere sindacale è ormai l’unico immune da controlli, e per questo, per quanto grande sia divenuto, resta un potere fragile. Ripristinare nelle imprese il sistema di elezioni democratiche, già praticato in passato fino al 1966, significherebbe assogget{p. 328}tare i sindacati a una sanzione di responsabilità politica e acquisire un indicatore della loro reale legittimazione rappresentativa ben più attendibile degli indici indiretti, meramente presuntivi, utilizzati per le rappresentanze sindacali aziendali dall’art. 19 della legge n. 300/70.

10. Sul piano morale-culturale: armonizzazione dell’economia di mercato col postulato umanistico.

L’introduzione di un grado più elevato di partecipazione e di collaborazione presuppone infine un progresso sul piano morale-culturale. Su questo punto conclusivo i limiti di tempo e anche di competenza del relatore consentono soltanto brevi cenni.
I sistemi economici delle democrazie occidentali (detti, con espressione ideologicamente sovraccarica, sistemi capitalistici) devono risolvere due problemi di fondo, uno di ordine politico-economico, l’altro di ordine ideologico: 1) allentare il legame, che finora pare inestricabile, tra crescita economica e inflazione; 2) legittimare l’economia di mercato su basi culturali e morali più solide. Il secondo problema è divenuto uno dei temi dominanti nella letteratura di filosofia del diritto e socio-politica in America, sollecitato dalla convinzione che alla sopravvivenza della libertà d’impresa è legata la sopravvivenza di tutto il sistema delle libertà fondamentali dell’individuo, che sono il dono politico più prezioso della civiltà cristiana [34]
. È necessario che anche i dirigenti delle imprese prendano coscienza di questo problema e si impegnino maggior{p. 329}mente sul piano delle idee per colmare le lacune culturali del sistema, le quali danno spazio al negativismo della cultura anti-industriale.
L’atmosfera di ostilità verso le imprese [35]
dipende in buona parte dal conflitto in cui l’industrialismo, espressione tipica del razionalismo, entra con le tendenze anti-intellettualistiche e le aspirazioni irrazionali di ritorno a comportamenti istintivi proprie della cultura radicale-illuministica oggi dominante [36]
. Ma dipende anche dal fatto che l’impresa capitalistica non si è ancora affrancata dall’ethos delle teorie utilitaristiche di Bentham e Stuart Mill, in cui è cresciuta nel suo paese di origine, l’Inghilterra. Queste teorie, le quali identificano (o meglio confondono) l’utile col bene, sono la premessa filosofica dello spostamento del problema della giustizia operato dalla moderna economica del benessere. Se si muove dall’imperativo utilitaristico della massimizzazione dell’utile sociale (inteso come la somma delle utilità individuali, e più precisamente come la differenza positiva tra i valori di scambio degli acquisti e delle alienazioni operati nel sistema economico) [37]
, l’attenzione si concentra sul problema dell’allocazione ottimale delle risorse in vista di tale scopo, mentre le questioni della giustizia sociale, che sono essenzialmente questioni di conformazione della convivenza umana a determinate regole di condotta, passano in seconda linea, anzi non possono più essere adeguatamente formulate [38]
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Emerge così, anche sotto l’aspetto delle teorie utilitaristiche, la fatale tendenza del positivismo scientifico moderno al nichilismo, «il più inquietante degli ospiti» della {p. 330}cultura occidentale [39]
. Nichilista si dice appunto il pensiero che rifiuta come prive di senso le questioni non risolvibili in termini di comparazione tra grandezze quantitative, e in particolare le questioni intorno alla giustizia, che è un concetto eminentemente qualitativo. Sebbene fin dall’antichità il simbolismo della giustizia sia incentrato sulla figura della bilancia, gli interessi che attendono di essere composti in giusti rapporti sociali non sono propriamente “bilanciabili” (ossia pesabili in funzione di un confronto quantitativo), ma sono piuttosto oggetto di “valutazione” secondo criteri etici, e dunque di un confronto che si esprime in giudizi di valore destinati a tradursi in giudizi normativi [40]
. Evitare che tali giudizi siano abbandonati all’arbitrio, ovvero impedire che, in difetto di criteri oggettivi-razionali, i conflitti sociali non possano essere risolti se non mediante confronti di forza tra gruppi organizzati di interesse, è precisamente lo scopo di una dottrina sulla giustizia sociale. La concezione utilitaristica favorisce l’ideologia del conflitto come principio-guida delle relazioni industriali, mentre è urgente porre mano all’organizzazione costruttiva delle energie sociali sulla base del riconoscimento comune di alcuni valori fondamentali.
In definitiva la fondazione teorica dell’economia di mercato non può essere lasciata ai soli economisti, il cui abito professionale tende a trascurare le dimensioni morali-culturali. Un più stretto collegamento con la filosofia della pratica e con le scienze normative rafforzerebbe le valenze umanistiche del sistema della libera impresa fondato sullo scientismo tecnologico [41]
: questo sistema, non si dimentichi, paragonato agli altri sistemi economici storicamente sperimentati, si è dimostrato di gran lunga il {p. 331}più capace di migliorare la condizione umana. Ma la razionalità e l’efficienza di cui l’impresa è portatrice sono valori strumentali, che possono legittimarsi, guadagnando il consenso sociale, solo se si coordinano col postulato umanistico che considera l’uomo come fine. La filosofia morale deve però, a sua volta, impegnarsi in uno sforzo di ammodernamento per misurarsi con la società industriale. I grandi sistemi di etica materiale si sono formati in epoche preindustriali, quando l’imperativo morale era la sufficienza e l’etica sociale si esauriva nelle questioni di giustizia distributiva, che avevano come oggetto la ricchezza esistente e come referente i bisogni intesi nel senso restrittivo di necessità predeterminate dalla natura. Dopo che Adamo Smith, agli albori dell’età industriale, ha teorizzato l’idea dello sviluppo economico, ossia – in termini antropologici – l’idea che l’esistenza umana non è tanto «un ininterrotto essere stato» [42]
, quanto una continua progettazione di un futuro migliore, la funzione-chiave del sistema è diventata l’accumulazione, e quindi l’imperativo del bene comune non è più la semplice sufficienza, ma la produttività, l’aumento massimo possibile della produzione a costi decrescenti [43]
.
Una morale che voglia innestarsi realmente nella vita pratica certo non può ridursi all’imperativo utilitaristico, ma non può evitare di assumere una colorazione di utilitarismo: deve essere anche una morale dei mezzi [44]
. La filosofia morale e certi settori del pensiero giuridico devono abbandonare il distacco (che talvolta è insofferenza) nei confronti della scienza economica ed elaborare principi e regole di condotta coerenti con l’esigenza di economicità di gestione delle imprese e con le indicazioni derivanti dal calcolo dei costi e dei benefici [45]
. L’orientamento tradizionale, che dà rilievo esclusivo ai problemi della
distribuzione, deve cedere il posto a un pensiero morale e giuridico più organico, che sappia confrontarsi con le questioni dell’efficienza produttiva e determinare un giusto rapporto tra equità ed efficienza, cioè tra i valori extra-economici, in cui si esprimono le istanze ultime dell’uomo, e la razionalità organizzativa della produzione [46]
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Note
[32] Così Galgano, Gestione dell’economia e pluralismo sociale, in «Democrazia e diritto», 1976, p. 304.
[33] L’incongruenza della pretesa di “contrattualizzare” i temi afferenti alle strategie di investimento delle imprese e l’inidoneità delle attuali rappresentanze sindacali aziendali a funzioni di concertazione e di organizzazione del consenso intorno agli indirizzi concertati, sono dimostrate da Amato, Democrazia industriale: gli equivoci della vita italiana, in «Mondoperaio», 1978, n. 5, pp. 17 ss.
[34] Il problema di un supporto ideologico più adeguato al sistema economico della libera impresa è stato posto agli americani da Maritain in un ciclo di conferenze tenute nel novembre 1956 all’Università di Chicago e raccolte in un piccolo libro, Réflexions sur l’Amérique, Paris, 1958. Si legga specialmente il cap. XIII («Trop de modestie. Nécessité d’une philosophie esplicite»). Da allora il problema ha prodotto una cospicua letteratura. Mi limito a ricordare, nella filosofia del diritto, Rawls, Theory of Justice, Oxford o.J., 1971 (al pensiero di questo autore, alternativo al tradizionale pensiero utilitaristico, la rivista «Biblioteca della libertà» ha dedicato tutto il fascicolo 65/66 dell’anno 1977); nella letteratura sociologica e politica, Bell, The Cultural Contradictions of Capitalism, New York, 1976; Democracy and Mediating Structures. A Theological Inquiry, a cura di Novak Washington, 1980 (v. spec. i saggi di Johnson e dello stesso Novak, pp. 49 ss., 180 ss.).
[35] L’espressione è di Schumpeter, Capitalismo Socialismo Democrazia, Milano, 1964, p. 61. Il riferimento è naturalmente alla grande impresa. La piccola impresa, invece, è «oggetto di nostalgia sociale» (Galbraith, I grandi problemi, Milano, 1968, p. 124).
[36] Bell, The Cultural Contradictions, cit., p. 84.
[37] Cfr. Leo, Materia economica e forme giuridiche, Milano, 1979 (ed. provv.), p. 17.
[38] Cfr. Watrin, Eine liberale Interpretation der Idee der sozialen Gerechtigkeit, in «Hamburger Jahrb. für Wirtschafts-und Gesellschaftspolitik», 1976, pp. 46 ss.
[39] Heidegger, Sentieri interrotti, Firenze, 1977, pp. 199 ss.
[40] Cfr. van der Ven, Gerechtigkeit und Interessen, in Interessenjurisprudenz, a cura di Ellscheid e Hassemer, Darmstadt, 1974, pp. 452 ss.
[41] Cfr. Lombardi Vallauri, I presupposti culturali del processo di industrializzazione, in Atti del 48° Corso di aggiornamento dell’Università cattolica, Milano, 1979, p. 69.
[42] Nietzsche, Considerazioni inattuali, Torino, 1981, p. 84.
[43] Novak, in Democracy and Mediating Structures, cit., p. 188.
[44] N. Hartmann, Etica, I (Fenomenologia dei costumi), Napoli, 1969, p. 124.
[45] Cfr. Trimarchi, Il giurista nella società industriale, in «Riv. dir. civ.», 1980, n. 1, p. 45 ss.
[46] Cfr. Bell, The Cultural Contradictions, cit., pp. 269 ss.