Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c11
B) La riqualificazione in senso classista del sindacato dei lavoratori ha prodotto una inversione della tendenza all’isolamento del conflitto industriale precedentemente individuata dall’analisi sociologica delle società industriali avanzate, mentre nelle prime società capitalistiche del secolo scorso, secondo l’analisi di Marx, si aveva una sovrapposizione delle linee del conflitto industriale e di quello politico
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. A partire dal 1968 il sindacato non si comporta nei rapporti con lo stato come un gruppo di pressione che cerca di influire sulla formazione della vo
¶{p. 317}lontà politica per il tramite dei partiti e del parlamento, ma pone rivendicazioni direttamente al governo e contratta con questo come con una controparte padronale, appoggiando le sue rivendicazioni con l’uso dello sciopero generale
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.
È una vistosa deviazione dal modello democratico del pluralismo conflittuale, secondo il quale nessun gruppo sociale organizzato può pretendere di assumere la rappresentanza dell’interesse generale e di imporre allo stato proprie misure di valore per la definizione del bene comune. Sta qui una delle differenze essenziali tra questo modello e la dottrina marxista della lotta di classe la quale riconosce soltanto a una classe la possibilità di accedere alla conoscenza del bene e del male, e quindi dei parametri valorati vi che determinano l’interesse generale.
C) Infine, in quanto ha rafforzato la capacità conflittuale del lavoro organizzato creando i presupposti istituzionali per una sua espressione anche al livello delle unità produttive, ma senza predisporre regole procedurali atte a contenere il ricorso al rapporto di forza, la legge n. 300 ha aperto uno spazio all’intervento di mediazione dell’autorità giudiziaria, che secondo il progetto originario della Costituzione sarebbe escluso.
Ma l’esperienza ha dimostrato che il giudice ordinario non è adatto a ruoli di mediazione dei conflitti collettivi, e tanto meno di quelli originati da processi di riconversione e ristrutturazione industriale, i quali sono un fenomeno normale e ineliminabile di un’economia dinamica. Il conflitto non può essere conosciuto dal giudice se non sotto specie di pretese di reintegrazione di diritti soggettivi violati, così che non può essere risolto se non nella forma meno adatta all’idea di mediazione, ossia dando ragione a una parte e condannando l’altra. Per giunta, attraverso le clausole generali con cui il legislatore sempre più volentieri scarica sul giudice il compito di trovare la norma da applicare al caso in questione, e comunque attraverso l’attività di interpretazione della legge, non di ¶{p. 318}rado si insinua nella decisione l’ideologia politica del giudice. In secondo luogo, il ricorso all’autorità giudiziaria fraziona il conflitto in una serie di episodi di lotta che vengono risolti nella visuale ristretta dell’interesse individuale dei lavoratori in causa, senza riferimento a un progetto organico di risanamento delle imprese in crisi coerente con una linea prestabilita di politica industriale. Infine il giudice, per la sua formazione culturale, difficilmente possiede una adeguata cultura della gestione dell’impresa e nemmeno dispone di autonomi mezzi conoscitivi, né di appropriate metodologie di analisi e di stima dei contenuti del conflitto e delle conseguenze, dirette e riflesse, che l’una o l’altra ipotesi di soluzione può comportare.
6. Tendenze evolutive del pluralismo. Verso un’economia programmata secondo modelli neo-corporativi?
Lo statuto dei lavoratori è stato concepito in un’epoca ancora caratterizzata da larga disponibilità di energie e di materie prime a bassi costi, e dominata dalla convinzione dell’esistenza di larghi margini di espansione del sistema produttivo. Il pluralismo conflittuale può funzionare solo in presenza di tassi elevati di sviluppo economico, perché solo allora l’organizzazione sindacale dei lavoratori può sostenere la politica di rivendicazionismo appropriativo senza limiti che negli Stati Uniti d’America, il paese del pluralismo competitivo per eccellenza, è indicata con lo slogan di Samuel Gompers: «We want more, more and more».
Dopo cinque anni lo scenario era già profondamente mutato. La crisi prolungata in cui siamo precipitati ha modificato i comportamenti degli attori del processo economico innescando tendenze evolutive, per capire le quali occorre un quadro teorico di riferimento più complesso e in ogni caso modificativo del pluralismo conflittuale.
É tramontata l’idea, di origine giusnaturalistica, che l’interesse generale sia la risultante spontanea delle posizioni di equilibrio raggiunte dalla negoziazione degli interessi particolari dei gruppi organizzati. Il potere politico ¶{p. 319}ha deciso di ritornare alla programmazione come metodo di governo pubblico dell’economia, e a questa decisione fa riscontro, da parte delle centrali sindacali, l’abbandono della conflittualità, non coordinata da un piano razionale, praticata nei rapporti col governo nel decennio scorso e nota col nome di «scioperi per le riforme».
Il metodo della programmazione economica è una via obbligata per tentare di riparare a quella “sorta di deficit di legittimazione” in cui cade il sistema politico quando la disoccupazione supera una certa soglia, al di là della quale il diritto al posto di lavoro non è più assicurato
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. Ma il piano triennale presentato dal governo è improntato a una concezione della programmazione diversa e più rispettosa dei meccanismi del mercato di quella sottesa al primo tentativo degli anni Sessanta. Il piano approvato dal parlamento nel 1967 presupponeva un patto sociale stipulato nella forma della programmazione concertata, e quindi era un piano globale che investiva, con vincoli diretti o indiretti, anche i comportamenti dei soggetti privati. Il nuovo piano a medio termine, invece, è stato predisposto unilateralmente dal governo prima e indipendentemente da un patto sociale. Esso definisce alcuni obiettivi di interesse generale e una corrispondente strategia di investimenti pubblici, mentre il “complemento di azione” necessario da parte dei gruppi sociali è rimesso alla loro autonomia di decisione. Sotto questo profilo il piano si propone come criterio di mediazione dei conflitti sociali, come base di formazione di un “consenso attorno ad una risposta univoca all’insieme dei conflitti”. Esso interpreta il bene comune e lo traduce in obiettivi definiti da grandezze quantitative, impartendo così alla contrattazione collettiva un quadro di compatibilità oggettivamente verificabile.
Questa nuova concezione si avvicina alle linee di una evoluzione del modello pluralista osservabile più o meno chiaramente in molti paesi del mondo occidentale, che viene designata col nome di “corporativismo liberale” o ¶{p. 320}“neocorporativismo”
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. Conflitto e collaborazione sociale sono tipi ideali tra i quali nella realtà esiste un continuum: l’evoluzione in atto tende a integrare nel sistema un grado più elevato di cooperazione nella forma di negoziazioni più aperte a una logica di mediazione che a una logica antagonistica. Essa è riconoscibile soprattutto per tre caratteristiche:
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minore protagonismo dello stato nella sfera sociale, in termini sia di minore partecipazione diretta alle attività economiche, sia di riduzione delle prestazioni di welfare state, sia di attenuazione dei vincoli legali all’autonomia dei gruppi;
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cooperazione, tendenzialmente istituzionalizzata, dei grandi gruppi di interesse tra di loro e con le autorità pubbliche per la formazione e la gestione della politica economica in relazione a obiettivi settoriali, quali la riduzione del costo del lavoro, la riduzione del deficit degli istituti di sicurezza sociale, la mobilità del lavoro ecc., coordinati con gli obiettivi globali prefissati dal potere politico;
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moderazione, da parte dei sindacati, delle rivendicazioni contrattuali su interessi a breve termine a vantaggio di interessi a medio o lungo termine comuni alla controparte e funzionali all’interesse generale.
In relazione a tutte e tre queste caratteristiche è possibile segnalare esempi significativi nell’esperienza recente in Italia:
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da qualche tempo il potere politico non nasconde il proposito di alleggerire l’area delle partecipazioni statali e di selezionare con maggior rigore le prestazioni assisten¶{p. 321}ziali; gli interventi legislativi che hanno dato corpo al cosiddetto “diritto del lavoro nell’emergenza” ammettono la possibilità di deroghe a disposizioni imperative di leggi precedenti, sulla base di accordi tra le parti sociali finalizzati a esigenze di salvaguardia dell’occupazione o di maggiore flessibilità della forza lavoro [22] ;
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alcune leggi, e specialmente la legge n. 675 del 1977 sulla riconversione industriale, prevedono la partecipazione dei gruppi di interesse alla formazione delle decisioni inerenti a determinate politiche settoriali, ma non di tutti, bensì soltanto di quelli di importanza nazionale rappresentati nel Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel);
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oltre all’accordo interconfederale del 26 gennaio 1977 sul contenimento del costo del lavoro, che ha promosso la deindicizzazione delle indennità di anzianità e l’abolizione di sette festività infrasettimanali, vanno menzionati, come esempi di cooperazione in vista di obiettivi a medio termine di interesse comune, i recenti accordi aziendali, stipulati in alcune grandi o medie imprese, che hanno legato gli incrementi salariali alla produttività [23] .
7. Condizioni per un rapporto più equilibrato tra principio del conflitto e principio della partecipazione. Sul piano istituzionale: a) disciplina legislativa della mediazione pubblica dei conflitti.
Lo sviluppo della tendenza a impostare il sistema su un rapporto più equilibrato tra il principio della contestazione e il principio della partecipazione suppone però alcune condizioni, di ordine istituzionale e di ordine culturale, di cui non è facile valutare il grado di realizzabilità. Dal punto di vista istituzionale, prima condizione è la centralizzazione delle relazioni industriali e quindi un recupero di controllo delle centrali sindacali sulle organizzazioni di categoria e sulle strutture di base. Ciò implica, tra l’altro, un ritorno dell’organizza
¶{p. 322}zione sindacale al primato del principio associativo-gerarchico nei confronti del principio assembleare-plebiscitario su cui si regge la formula sessantottesca del «sindacato dei consigli». Ma è un ritorno ostacolato dall’«ipertrofica burocrazia sindacale»
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in cui ha trovato occupazione buona parte del nostro proletariato intellettuale, e le cui posizioni di potere e lo stesso posto di lavoro dipendono dal mantenimento artificioso di un grado elevato di conflittualità nelle fabbriche.
Note
[18] Ibidem, pp. 380, 417 ss.
[19] Pizzorno, I soggetti del pluralismo, cit., p. 133.
[21] Cfr. Regini, Stato e sindacato nel sistema economico, in «Giornale di dir. lav. e rel. ind.», 1979, pp. 51 ss.; Pirzio Ammassari, Relazioni industriali e scienza politica, ivi, 1979, pp. 383 ss.; Belligni, Governi privati nel capitalismo maturo, in «Diritto e democrazia», 1979, pp. 555 ss., e qui ampia bibliografia; Bolaffi, Sindacato, Governo, neocorporativismo, ivi, 1979, pp. 573 ss.; Ornaghi, «Interesse» e «gruppi corporativi». Introduzione allo studio del fenomeno corporativo, in «Il Politico», 1980, pp. 221 ss.; Schmitter, Modalità di mediazione degli interessi e mutamento sociale in Europa occidentale, in «Il Mulino», 1976, pp. 889 ss.
[22] V. supra, pp. 303 ss.
[23] Cfr. Pirzio Ammassati, Relazioni industriali e scienza politica, cit., pp. 397, 399.
[24] Il giudizio è di Treu, Il ruolo del sindacato nel governo dell’economia, in «Aggiornamenti sociali», 1981, p. 11.