Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c11
Lo sviluppo della tendenza a impostare il sistema su un rapporto più equilibrato tra il principio della contestazione e il principio della partecipazione suppone però alcune condizioni, di ordine istituzionale e di ordine culturale, di cui non è facile valutare il grado di realizzabilità. Dal punto di vista istituzionale, prima condizione è la centralizzazione delle relazioni industriali e quindi un recupero di controllo delle centrali sindacali sulle organizzazioni di categoria e sulle strutture di base. Ciò implica, tra l’altro, un ritorno dell’organizza
¶{p. 322}zione sindacale al primato del principio associativo-gerarchico nei confronti del principio assembleare-plebiscitario su cui si regge la formula sessantottesca del «sindacato dei consigli». Ma è un ritorno ostacolato dall’«ipertrofica burocrazia sindacale»
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in cui ha trovato occupazione buona parte del nostro proletariato intellettuale, e le cui posizioni di potere e lo stesso posto di lavoro dipendono dal mantenimento artificioso di un grado elevato di conflittualità nelle fabbriche.
In secondo luogo, la funzione di mediazione dei conflitti sociali che la programmazione dovrebbe svolgere a livello macroeconomico deve essere appoggiata da un efficiente apparato di mediazione a livello microeconomico, dove hanno origine i conflitti su interessi a breve, dei quali si alimenta la contrattazione collettiva. La necessità «di una comune azione per impedire che si giunga al punto di mettere a repentaglio la sopravvivenza dell’impresa» è un limite acquisito all’ideologia americana delle relazioni industriali, che pure non è incline a schemi neocorporativi e continua a privilegiare il conflitto come principio-guida del sistema
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È bene avvertire che non dobbiamo attenderci troppo dal diritto comparato. Il panorama che esso ci offre di organismi attrezzati e autorevoli di mediazione delle controversie collettive di lavoro è allettante, ma ogni sistema di relazioni industriali è legato a peculiari condizioni storiche, sociali, politiche, economiche e sindacali
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. L’esperienza di altri paesi, più quella inglese che quella tedesca, può aiutarci, ma a patto che venga utilizzata con spirito realistico e in una prospettiva di innovazione guidata da ¶{p. 323}criteri di gradualità e di pragmatismo.
D’altra parte la situazione attuale, caratterizzata da un bassissimo grado di istituzionalizzazione di istanze conciliative e di mediazione, è del tutto insoddisfacente. La prassi di mediazione del ministro del lavoro che di fatto, fuori da ogni previsione legislativa, si è instaurata in occasione dei rinnovi dei contratti nazionali e anche di alcuni contratti aziendali, anzitutto copre soltanto una parte dell’area della conflittualità, e in secondo luogo ha rivelato dei difetti intrinseci che solo una adeguata istituzionalizzazione può eliminare. Il primo difetto è un certo carattere di casualità: la qualità e l’incisività della mediazione dipendono dalla personalità del ministro in carica, dalle sue visioni politiche e talvolta anche dall’interesse della fazione politica alla quale appartiene. L’altro difetto consiste nella totale mancanza di organizzazione tecnica e di mezzi istruttori. Il mediatore pubblico non dispone di propri strumenti di conoscenza e di analisi della controversia; egli formula le sue proposte di soluzione sulla base delle informazioni comunicate dalle parti
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La disciplina legislativa della mediazione pubblica, ormai urgente, dovrebbe assumere a modello il «Servizio di consulenza, conciliazione e arbitrato» costituito in Gran Bretagna nel 1974 e regolato dalla legge sulla protezione dell’impiego del 1975
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. Dovrebbe trattarsi, cioè, di un organismo tecnico autonomo, separato dalla burocrazia ministeriale, dotato di strumenti moderni di rilevazione, di poteri di inchiesta e di personale autorevole, operante in stretto collegamento col segretariato generale della programmazione economica. È un modello che non implica alcun limite all’esercizio del diritto di sciopero e all’autonomia del sindacato nelle decisioni sul se, il come e il quando dell’azione diretta. L’intervento dell’organismo ¶{p. 324}proposto, sotto forma di tentativo preventivo di conciliazione oppure di mediazione del conflitto in atto o eventualmente anche di arbitrato, avverrebbe soltanto su concorde domanda delle parti ovvero, se l’iniziativa partisse dallo stesso organismo, in quanto l’offerta del servizio fosse concordemente accettata dalle parti.
Due vincoli però, che non toccano l’autonomia collettiva, dovrebbero essere previsti già nella prima fase di sperimentazione del nuovo istituto: 1) la mediazione del potere politico, e in particolare del ministro del lavoro, può intervenire soltanto sulla base di un’istruttoria previamente esperita dall’organo tecnico; 2) la domanda di intervento della mediazione pubblica deve in ogni caso essere accompagnata dall’impegno di sospendere il ricorso all’azione diretta per un certo periodo minimo. Questa seconda condizione faciliterebbe l’esperimento del rimedio dei «periodi di raffreddamento» in uso nella pratica anglosassone, ma non privo di qualche precedente, non troppo lontano, anche nella storia delle relazioni industriali in Italia
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8. b) Coordinamento dei livelli della contrattazione collettiva e rafforzamento degli organismi di amministrazione sindacale dei contratti.
Occorre però evitare di sovraccaricare le procedure di mediazione provvedendo a ridurre, a monte, i vuoti istituzionali che danno spazio alla conflittualità. In questa direzione l’aggiustamento del sistema dipende non tanto dalla legislazione, quanto dall’autonomia collettiva.
Un moltiplicatore istituzionale della conflittualità è costituito dalla struttura mobile e precaria assunta dalla contrattazione collettiva dopo il 1968. La distribuzione della contrattazione su più livelli non è contraria a un ordinato sviluppo delle relazioni industriali, anzi lo favorisce, ma a condizione che al livello superiore, cioè del ¶{p. 325}contratto nazionale, sia predeterminata la misura entro la quale la contrattazione potrà essere riproposta ai livelli locali o aziendali. Altrimenti il contratto collettivo non è più una base affidabile per la programmazione dei costi di lavoro. Non è detto che si debba ritornare al metodo di coordinamento adottato dalla contrattazione articolata degli anni Sessanta, che era impostata su clausole di rinvio di determinate materie dal contratto nazionale ai livelli inferiori, garantite da una clausola generale di tregua sindacale per ogni altra questione. È possibile, e forse oggi preferibile, anche il metodo inverso, meno rigido, costituito da clausole di riserva ai livelli superiori (accordi interconfederali o contratti nazionali di categoria) di certe materie, per le quali verrebbe così assicurata una disciplina standardizzata per tutte le imprese, non modificabile in sede di contrattazione aziendale
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. Ma, per una via o per l’altra, la struttura della contrattazione collettiva deve tornare a ordinarsi secondo l’idea etico-giuridica che il contratto collettivo, come ogni contratto, implica tra le parti uno scambio di promesse reciprocamente vincolanti.
Sotto un altro aspetto, invece, la contrattazione collettiva si presenta come un sistema rigido e incapace di autoamministrarsi, e quindi fonte di litigiosità, a causa della mancanza di strumenti procedurali per l’elaborazione continua sui luoghi stessi di lavoro di standards flessibili di applicazione del contratto. L’assenza di organi intersindacali di amministrazione dei contratti priva la contrattazione collettiva del dinamismo necessario per adattare la normativa contrattuale alle tensioni che quotidianamente nascono dall’interazione tra le condizioni di lavoro e l’organizzazione del lavoro.
9. c) Ricostruzione nelle imprese di organismi elettivi di rappresentanza dei lavoratori.
La contrattazione collettiva recente, a partire dai rinnovi del 1976, ha introdotto un ¶{p. 326}“sistema di informazioni” che obbliga le imprese a comunicare periodicamente ai sindacati territoriali e alle rappresentanze sindacali aziendali notizie sugli investimenti produttivi, sulle prospettive dell’occupazione e sui mutamenti dell’organizzazione del lavoro. Questo sistema, che mira a razionalizzare il conflitto industriale senza tuttavia impegnare i sindacati in rapporti organici di cogestione, è destinato a diventare obbligatorio per tutti gli stati membri della Comunità economica europea secondo una proposta di direttiva presentata dalla Commissione al Consiglio il 24 ottobre 1980. Anzi il progetto comunitario elabora il diritto di informazione specificandolo anche come diritto di consultazione. In effetti, poiché essere informati implica ascoltare, e non si può ascoltare senza esprimere un parere, le procedure di informazione del sindacato implicano anche una consultazione. Il ricorso metodico alla pratica della consultazione educa a un atteggiamento razionale
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, è una forma di socializzazione che contribuisce al superamento della crisi di razionalità che ha investito le società industriali avanzate.
Non si rende un servizio al buon esito del nuovo istituto interpretandolo come una estensione del conflitto sociale «dalle rivendicazioni salariali alle scelte di investimento, di localizzazione, occupazionali praticate dalle imprese», insomma «ai temi della direzione aziendale»
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. Le scelte produttive dell’impresa non possono essere oggetto di con trattazione, né dal punto di vista di una corretta gestione dell’impresa, né dal punto di vista dell’interesse generale che in esse è coinvolto in quanto condizionano lo sviluppo economico del paese. In ordine alle decisioni di investimento e di innovazione tecnologica imprenditori e lavoratori non possono avere interessi confliggenti, ma soltanto valutazioni opposte di un medesimo interesse comune: valutazioni, cioè, per le quali è possibile una concertazione, non una contrattazione basata sullo scambio di prestazioni eterogenee.
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Note
[24] Il giudizio è di Treu, Il ruolo del sindacato nel governo dell’economia, in «Aggiornamenti sociali», 1981, p. 11.
[25] Cfr. Barbash, L’ideologia americana delle relazioni industriali, in «Giornale di dir. lav. e rel. ind.», 1981, pp. 33 ss.
[26] Cfr. Aaron, Arbitration and the Rote of Courts: the Administration of Justice in Labor Law, in «Recht der Arbeit», 1978, p. 274. È la relazione generale al congresso dell’Associazione intemazionale di diritto del lavoro e della sicurezza sociale, tenuto a Monaco di Baviera nel 1978. Fra i 21 rapporti nazionali pervenuti al relatore generale mancava significativamente il rapporto italiano.
[27] Cfr. Giugni, Conflitto di lavoro e sistema di composizione nelle società industriali, in «Industria e sindacato», 1979, suppl. al n. 21, pp. 21 ss.
[28] Sull’«Advisory Conciliation and Arbitration Service» (ACAS) v. Rideout, in Adam-Schmitt-Rideout, Il conflitto di lavoro in Francia, Svezia e Gran Bretagna, Isedi, Milano, 1978, pp. 285 ss.
[29] Si allude specialmente al protocollo Intersind-Asap del 5 luglio 1962, che introdusse la contrattazione articolata nel settore delle aziende metalmeccaniche a prevalente partecipazione statale.
[30] L’adozione di questo criterio è raccomandata nelle conclusioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla cosiddetta giungla retributiva, presieduta dal sen. Coppo (e v. ora il punto 13 dell’accordo 22 gennaio 1983).
[31] Cfr. Habermas, La crisi di razionalità, cit., p. 121.
[32] Così Galgano, Gestione dell’economia e pluralismo sociale, in «Democrazia e diritto», 1976, p. 304.