Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c11
Lo stato sociale contemporaneo «fonda la sua legittimazione sul postulato della partecipazione universale al processo di formazione della volontà politica e su quello della possibilità – indipendentemente dall’appartenenza a
¶{p. 312}una determinata classe – di usufruire delle prestazioni dello stato e dei suoi interventi regolativi»
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. L’intervento pubblico nella sfera sociale provoca una ripoliticizzazione della società attraverso la coagulazione degli interessi in gruppi organizzati, i quali diventano di fatto centri di potere politico, sia inserendosi immediatamente e autonomamente nei processi di formazione della volontà dello stato, sia sostituendosi al potere statale nell’adempimento di certi compiti
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. Per esempio, sulla base dell’art. 39 Cost., valutato come una delle applicazioni fondamentali della concezione pluralistica nella Costituzione, il centro di gravità dell’azione di tutela del lavoro si è spostato dalla sfera politica, cioè della legislazione, nella sfera sociale, cioè della contrattazione collettiva. Ciò significa che le associazioni sindacali, regolate dal diritto privato e formalmente operanti con mezzi di diritto privato, hanno assunto sul piano politico-costituzionale una competenza concorrente con quella dello stato per determinare lo sviluppo dell’assetto globale dei rapporti economico-sociali.
Qui si manifesta una contraddizione nel modello. Da una parte esso postula la centralità dello stato come potere al quale spettano, in definitiva, la determinazione dell’interesse generale e, nel quadro di tale interesse, la disciplina dei conflitti tra i gruppi sociali e degli impulsi che ne derivano nella sfera politica; dall’altra il pluralismo, in quanto forma di decentramento del potere politico, sviluppa una tendenza alla «rifeudalizzazione della società», allo sfaldamento dell’unità dello stato e alla disarticolazione del potere politico. Quanto più lo stato assistenziale intensifica i suoi interventi nella sfera sociale, tanto maggiore è la spinta inversa dei gruppi di interesse a insediarsi nell’area del potere statale per controllare la formazione delle sintesi politiche. Ne deriva una situazione di «stallo pluralistico», cioè di equilibrio statico de¶{p. 313}terminato dall’incrociarsi di poteri di veto, che indebolisce la capacità dello stato di impostare strategie di medio o di lungo periodo
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.
La crisi di governabilità del sistema affligge più o meno anche altri paesi democratici, ma è particolarmente accentuata nel nostro a causa della debolezza delle strutture produttive e finanziarie, e anche, e forse soprattutto, a causa della debole legittimazione storica dello stato italiano e del correlativo debole sviluppo della coscienza nazionale. È un’esperienza ben nota quella che lo spirito nazionale e lo spirito di parte stanno tra di loro in un rapporto di intensità inversamente proporzionale
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. Quando il pluralismo assume i tratti di una rifeudalizzazione della società, ciascun gruppo sociale tende a sovrapporre il proprio interesse all’interesse generale, così che il controllo dei gruppi sulle decisioni politiche opera precipuamente nella forma del potere di veto.
Questa tendenza del pluralismo, che alla lunga è autodistruttiva se non si introducono opportuni correttivi, non è stata intravista dai costituenti. Lo dimostra la totale assenza di coordinamento della libertà di contrattazione collettiva e del diritto di sciopero con la funzione della programmazione economica riservata al potere statale dall’art. 41, 3° comma, la quale implica anche una funzione di disciplinamento dei gruppi di interesse. È una lacuna che ha avuto un peso decisivo sulla sorte del primo programma approvato dalla legge 27 luglio 1967, n. 685. Al termine di un ampio dibattito sui rapporti tra sindacati e programmazione, al quale mancò una compiuta riflessione critica che solo le metodologie ermeneutiche più aggiornate possono consentire, la maggioranza della dottrina di diritto del lavoro giunse in quel torno di tempo alla conclusione che l’imperatività della legge di approvazione del programma nei confronti dei soggetti privati in¶{p. 314}contrerebbe un limite nell’autonomia sindacale e nel diritto di sciopero. Ammettere un simile limite equivale a riconoscere alle organizzazioni sindacali dei lavoratori un potere di veto (addirittura garantito dalla Costituzione), se è vero che un’economia programmata coinvolge inderogabilmente ima politica dei redditi e dunque anche un controllo pubblico sulla dinamica della contrattazione collettiva. Infatti, una delle ragioni principali, se non la prima, del fallimento della programmazione economica degli anni Sessanta fu precisamente il rifiuto sindacale di contenere la dinamica salariale entro il limite segnato dalla correlazione ai tassi di incremento della produttività media del sistema economico
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. A questo criterio il nuovo «sindacato dei consigli», uscito dall’«autunno caldo» del 1969, oppose la tesi del salario come «variabile indipendente».
5. La «scelta conflittuale» dello statuto dei lavoratori.
L’insuccesso della programmazione economica e l’esplosione della lotta di classe entro e fuori le fabbriche alla fine degli anni Sessanta provocarono un profondo mutamento negli assetti della società pluralistica e nei rapporti dei gruppi di interesse tra di loro e col potere politico.
Lo Stato rinuncia al tentativo di imporre «un modello di rapporti economici fondato sulla capacità di programmare l’economia (politica dei redditi ecc.)»
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e, con la legge n. 300 del 1970 nota col nome non del tutto acconcio di «statuto dei lavoratori», adotta una concezione illuministica-liberale del pluralismo come forma di autoregolamento dei rapporti economici mediante il gioco di contrapposti poteri di equilibrio, ossia mediante la sostituzione della competizione tra gruppi organizzati alla concorrenza tra gli individui. Non si tratta tuttavia di una semplice trascrizione in termini collettivistici del modello liberale classico; rispetto a questo lo «statuto» è innova¶{p. 315}tivo sotto due profili: perché istituzionalizza un controllo sindacale non solo sul mercato esterno del lavoro, ma anche sull’organizzazione del lavoro interna alle imprese, e perché abbandona la posizione tradizionale di neutralità dello stato di fronte al conflitto sociale intervenendo con una legislazione che favorisce e consolida l’ingresso del sindacato nelle unità produttive.
Il primo periodo di applicazione della legge ha dimostrato la precarietà del nuovo modello in rapporto alle condizioni necessarie affinché il pluralismo sia non semplicemente un momento di un processo dialettico che deve portare al suo superamento, ma un modo di essere permanente della società e quindi un metodo di stabilizzazione del sistema, pur nel dinamismo di scomposizione e di ricomposizione degli interessi e di evoluzione verso nuovi equilibri che lo caratterizza.
A) I nuovi gruppi di conflitto, di cui la legge ha promosso la formazione, cioè le rappresentanze sindacali aziendali tutelate dal Titolo III, non si sono organizzati secondo il principio associativo, collegato alle procedure e alle garanzie proprie della democrazia formale, ma piuttosto secondo il criterio di classe che privilegia il principio assembleare-plebiscitario. Quest’altro principio ha comportato, nei rapporti con le associazioni sindacali territoriali, la revoca della delega rappresentativa e così il superamento della distinzione storica tra lavoratori iscritti e non iscritti al sindacato; nei rapporti con la controparte imprenditoriale, il rifiuto delle esigenze di razionalità e di efficienza dell’organizzazione del lavoro, cioè il disconoscimento dei vincoli di ordine tecnologico ed economico ai quali è soggetta. Perciò il sindacato esterno ha potuto recuperare il controllo del movimento di base, espresso dai delegati di reparto, solo a condizione di riqualificarsi politicamente come sindacato di classe e farsi carico anche di fini di opposizione al sistema, come tali non negoziabili
[16]
. Questo residuo di pretese inconciliabili col sistema, e non ¶{p. 316}connaturali al ruolo del sindacato nella società pluralistica, ha reagito sulle pretese negoziabili caricandole di una forza di riproduzione tale da far degenerare il conflitto in uno scontro permanente. Il riflesso sul piano istituzionale è stata una «processualizzazione» della contrattazione collettiva, sviluppata a vari livelli tra loro non coordinati da alcun criterio normativo, nella quale è andata perduta la concezione del contratto collettivo come atto non solo di componimento del conflitto, ma anche giuridicamente vincolante per entrambe le parti al rispetto di un periodo di tregua e di collaborazione regolata dalle condizioni pattuite. Si è affermata invece una concezione funzionale alla lotta di classe, che considera il contratto collettivo esso stesso come un mezzo di lotta, un modo di avanzamento del conflitto da una fase, che col contratto viene chiusa e superata, a una nuova fase immediatamente successiva che rilancia il conflitto su nuove basi e a nuovi livelli.
La trasformazione del conflitto industriale in conflittualità permanente è incompatibile col funzionamento delle organizzazioni di tipo pluralistico e finisce col minacciare lo stesso processo democratico
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.
B) La riqualificazione in senso classista del sindacato dei lavoratori ha prodotto una inversione della tendenza all’isolamento del conflitto industriale precedentemente individuata dall’analisi sociologica delle società industriali avanzate, mentre nelle prime società capitalistiche del secolo scorso, secondo l’analisi di Marx, si aveva una sovrapposizione delle linee del conflitto industriale e di quello politico
[18]
. A partire dal 1968 il sindacato non si comporta nei rapporti con lo stato come un gruppo di pressione che cerca di influire sulla formazione della vo
¶{p. 317}lontà politica per il tramite dei partiti e del parlamento, ma pone rivendicazioni direttamente al governo e contratta con questo come con una controparte padronale, appoggiando le sue rivendicazioni con l’uso dello sciopero generale
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Note
[10] Offe, Lo Stato nel capitalismo maturo, cit., p. 40.
[11] Cfr. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, cit., p. 172.
[12] Cfr. Belligni, Governi privati nel capitalismo maturo, in «Diritto e democrazia», 1979, p. 569.
[14] Cfr. il programma economico approvato dalla legge n. 675/67, cap. IV, n. 51.
[15] Pizzorno, I soggetti del pluralismo, Bologna, 1980, p. 229.
[16] Dal punto di vista organizzativo questo mutamento ha provocato una crisi dell’identità associativa del sindacato, nel senso di una fluidificazione delle strutture associative nelle forme di organizzazione di massa espresse dalla base. Cfr. Pizzorno, op. cit., p. 240, il quale nota che la struttura sindacale «non ha ancora stabilito le regole della sua identità. Non sa, cioè, se è associativa o di classe». V. pure il mio studio I diritti e le funzioni dei sindacati e dei rappresentanti sindacali nelle imprese, in «Jus», 1974, pp. 391 ss., 400 ss. supra, pp. 221 ss., 234 ss.).
[17] Cfr. Dahrendorf, Classi e conflitto di classe, cit., p. 406.
[18] Ibidem, pp. 380, 417 ss.
[19] Pizzorno, I soggetti del pluralismo, cit., p. 133.