Sindacato e rappresentanze aziendali
DOI: 10.1401/9788815412324/c1
La rilevanza dei fattori indicati è
diversa e richiede differenti giustificazioni in ciascuno degli ambiti cui si è fatto
cenno. Nel primo ambito il ricorso a tali fattori appare determinante in sede
interpretativa, per portare alla luce tutti i significati della scarna disciplina
formale del gruppo, chiarendone l’iter formativo ideale e la realtà
di fatto da cui emerge, illuminando i nessi fra le varie disposizioni di cui si compone,
sviluppandone le indicazioni, sovente implicite o non del tutto coscienti alle stesse
parti, in coerenza con le direttive generali politiche e organizzative
dell’associazione. La correttezza di un simile ricorso è sicura, sia assumendo, nella
prospettiva del diritto statale, il fondamento contrattuale dell’associazione e quindi
richiamandosi alla possibilità di valutare il regolamento contrattuale alla stregua di
tutti gli elementi, documentali e di fatto (ivi compreso il comportamento complessivo
delle parti) atti a chiarirne il significato (artt. 1362 e 1366), sia considerando la
natura normativa della disciplina in esame, secondo un’ottica più aderente ai caratteri
strutturali dell’ordinamento sindacale
[14]
.
¶{p. 26}
Un rilievo particolare fra gli
elementi indicati deve riconoscersi alla prassi associativa, non solo perché essa
costituisce sovente il dato maggiormente utilizzabile per rilevare la struttura e il
funzionamento dei gruppi sindacali specie periferici, ma per il peso relativo che il suo
carattere di fatto le conferisce rispetto agli elementi documentali e che va al di là
dell’ambito ora considerato. Viene qui anzitutto in risalto un’esigenza metodologica
costantemente ribadita dai giuristi più sensibili a saldare il dato normativo con la
realtà sociale cui esso si riferisce. Come si è detto giustamente, ogniqualvolta un
fenomeno sociale è assunto ad oggetto di una regolamentazione giuridica, una sua
adeguata comprensione non può attingersi limitandosi a rilevare i soli nessi
intercorrenti fra le norme, senza isolarlo previamente «mediante una ricognizione
empirica sufficientemente comprensiva» diretta ad acquisire la maggiore quantità
possibile di informazioni e di dati di fatto, ivi compreso in primo luogo «l’inverarsi
delle norme nella prassi». La rilevazione puntuale della prassi da cui la norma sorge e
che essa tende a razionalizzare è cioè il presupposto primo e necessario perché la
valutazione giuridica della stessa norma, pure «concettualmente autonoma», possa
operarsi in modo efficiente, rivelandosi «sufficientemente approssimata alla realtà
effettuale» e «come tale utile»
[15]
.¶{p. 27}
Vero questo, si intende come
l’interesse del giurista debba legittimamente estendersi anche al secondo ambito di
indagine sopra indicato, cioè alle prassi estranee o addirittura contrarie alla
normativa formale del gruppo. Pur essendo esse inadatte a fondare una valida disciplina
associativa, data la gerarchia delle fonti interne prevista dal diritto statale e dallo
stesso ordinamento sindacale, tuttavia anch’esse contribuiscono a comporre le
caratteristiche dell’oggetto studiato e forniscono elementi essenziali per la
valutazione degli interessi e dei loro conflitti che le norme si propongono di comporre,
e quindi per la comprensione dello stesso dato normativo. Semmai il giurista dovrà
talora, per il carattere largamente precario del sistema legale di questi gruppi,
ridursi a prendere atto di un contrasto insuperabile fra norme e fatti e
dell’inadeguatezza di quelle a esprimere la realtà di questi, riconoscendo in ciò un
limite del suo metodo di conoscenza, di per sé relativo
[16]
.
In secondo luogo, un’analisi il più
possibile completa delle prassi, comprese quelle a prima vista estranee o contrastanti
alla normativa dell’associazione, può rilevare anche un altro modo, diretto se pure
negativo, per la valutazione giuridica delle strutture in esame. In particolare, — e
sarà uno dei risultati più vistosi della presente ricerca — per determinare se e in
quale misura i modelli organizzativi previsti dalla disciplina associativa trovino
¶{p. 28}corrispondenza nella realtà dei fatti e quindi siano o no
effettivamente operanti.
La rilevazione di questi fattori
extranormativi, inoltre, è tanto più necessaria nella materia in esame, in quanto
proprio i comportamenti contrari o estranei all’ordinamento associativo costituiscono
sovente la spinta all’evoluzione delle strutture legali del gruppo e prefigurano i loro
nuovi modelli. Anche ciò sarà oggetto di verifica particolarmente probante,
nell’indagine che segue, appunto per i vari modelli di organizzazione sindacale in azienda
[17]
. Questi si sono andati modificando in modo radicale negli ultimi tempi,
appunto in base a comportamenti originariamente contrari alle regole consolidate, spesso
addirittura sollecitati da eventi e movimenti esterni al sindacato, e poi assunti da
questo al proprio interno, prima solo di fatto, quindi anche formalmente. Così è in
particolare dell’evoluzione delle nuove figure organizzative aziendali verso forme
sempre meno legate al carattere associativo proprio inizialmente di tutte le strutture
sindacali.
Infine, sotto un diverso profilo, la
medesima esigenza, finora sottolineata, di intendere in modo corretto le diverse forme
organizzative sindacali induce a non limitare troppo rigidamente la ricerca e a non
prestare peso prevalente a quei tratti di tale ordinamento che possono apparire più
immediatamente rilevanti per la successiva qualificazione alla stregua del diritto
statale, solo per il fatto che sono più vicini o più facilmente riconducibili agli
schemi legali da questo conosciuti. Si deve cioè tendere a ottenere — pena il rischio di
¶{p. 29}precludersi a priori l’ambito della conoscenza — una rilevazione
delle regole interne al gruppo e delle sue strutture organizzative la più comprensiva
possibile, senza sovrapporre ad esse forme giuridiche proprie dell’ordinamento statale,
che, secondo un dato di esperienza largamente avvertibile, rispondono a una logica
diversa e possono quindi recepirle solo parzialmente o con modalità alterate. Tanto più
data l’impostazione del presente studio, tutto incentrato, come si diceva, su un’analisi
dall’interno delle strutture sindacali. Ma in fondo questo è anche l’insegnamento più
fecondo che si può trarre — e si è tratto da una ormai diffusa dottrina —
dall’applicazione, in chiave metodologica, della teoria della pluralità degli
ordinamenti, intesa come strumento per la conoscenza dei «fenomeni di dinamica
organizzativa del corpo sociale». Secondo tale insegnamento, per una corretta
comprensione di detti fenomeni nella loro intrinseca natura «e nella pienezza della
funzione economico-organizzativa da essi svolta», è essenziale isolarli come ordinamenti
a sé stanti e originari, in quanto inseriti «in una cornice di legalità... non
necessariamente coincidente con quella deducibile dal diritto positivo dello Stato», e
analizzarli alla stregua di criteri di indagine aderenti alla struttura normativa del
loro ordinamento
[18]
.
Note
[14] Più grave problema è definire se alle prassi in esame possa riconoscersi efficacia integrativa della disciplina formale del gruppo in qualità di usi normativi o di usi negoziali. La soluzione è resa più incerta dalle note divergenze sui caratteri distintivi di simili usi e sul loro modo di operare (per cui basti rinviare, fra gli ultimi contributi, a Pavone La Rosa, voce «Consuetudine (usi normativi e negoziali)», in Enciclopedia del diritto, IX, Milano, 1961, pp. 513 sgg.; N. Coviello jr., In margine all’art. 1340 c.c., in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1963, pp. 501 sgg.; Cataudella, Sul contenuto del contratto, Milano, 1966, pp. 150 sgg.; Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969, pp. 67 sgg.). Una risposta affermativa al quesito appare peraltro a prima vista difficile. A parte che le forme organizzative dei gruppi sindacali periferici rivelano un processo così rapido di evoluzione da rendere improbabile la formazione al loro interno di regole costanti, uniformi e regolari come richiesto per la consuetudine secondo il diritto statale, l’ostacolo forse maggiore ad ammettere la possibilità sopra ipotizzata, sempre per il diritto statale, sta nel modo tipico di formazione della volontà associativa da esso prevista (in particolare, delibera assembleare secondo il principio di maggioranza), che sembra esclusivo. In realtà l’ammissione di usi con valore normativo, formantisi entro il gruppo e atti a regolarne i rapporti interni sembra potersi giustificare pienamente solo considerando lo stesso gruppo non come insieme di contraenti, ma come ordinamento giuridico (vedi per la distinzione in fine al paragrafo). Anche a questo proposito dunque la prospettiva interna all’ordinamento sindacale si dimostra la più adatta a cogliere in modo pieno la complessità del fenomeno esaminato. Quanto agli usi negoziali, infine, la norma ad essi relativa (art. 1340 c.c.), sembra dettata avendo riguardo a ipotesi ben diverse da quelle in esame, quali i precedenti contrattuali individuali o di certi mercati, che mal si adattano di per sé a comprendere l’integrazione della disciplina qui in questione.
[15] Le citazioni sono tutte riprese da Giugni e Mancini, Prefazione a I licenziamenti nell’industria italiana, cit., pp. 6, 8.
[16] M. S. Giannini, Sociologia e studi di diritto contemporaneo, in «Jus», 1957, p. 233. Solo con una simile consapevolezza, oltretutto, l’analisi giuridica, anche se allargata a considerare il profilo interno di ordinamenti non statuali, mantiene le proporzioni che le sono proprie, evitando di porsi, magari inconsapevolmente, come un profilo di conoscenza assoluto e completo della realtà studiata, di cui può invece rivelare solo aspetti particolari. L’esigenza di considerare i problemi di struttura dei gruppi associativi, in specie dei partiti e dei sindacati, tenendo conto non solo della loro disciplina formale, ma anche della realtà effettiva esistente al loro interno, è ribadita esplicitamente da Pettiti, Associazioni primarie, secondarie e parallele, in Annali della Università di Macerata, 1964, p. 82; e da G. U. Rescigno, Partiti politici, articolazioni interne dei partiti politici, diritto dello stato, in «Giurisprudenza costituzionale», 1964, pp. 1421 sgg., testo e nota 33 (ma con una visione parziale, e con conclusioni piuttosto affrettate).
[17] Ma la stessa osservazione emerge con evidenza, più in generale, da tutte le recenti vicende sindacali italiane e di altri paesi europei. In tali vicende, e nel ritardo delle associazioni dei lavoratori a recepire i suggerimenti, talora radicali, provenienti da nuove forme di comportamenti e di organizzazione sindacale, è facile vedere la prova di quanto sia dannoso, per l’intero assetto sociale, come per l’efficace e democratico svolgimento delle funzioni istituzionali di questi gruppi, «un sistema di relazioni sindacali irrigidito in uno schema legale, comunque formatosi, sul quale già cominci ad operare il tarlo di una tradizione consolidata» (Giugni, Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, cit., p. 138).
[18] Le citazioni sono di Giugni, Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, cit., pp. 16, 14 e passim, il quale rileva come proprio nella misura in cui si riesca, «dall’indistinto sociologico dei “gruppi”, a sceverare l’ordinamento nella sua specifica fisionomia formale» è possibile «studiare con maggior sicurezza, i punti di tangenza e di compenetrazione tra queste strutture e quella statuale» (p. 17). Il valore metodologico, in questo senso, della teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici e il suo rilievo come strumento di espansione della conoscenza giuridica sono stati di recente vigorosamente riaffermati, in particolare, da M. S. Giannini, Sociologia e studi di diritto contemporaneo, cit., pp. 231 sgg.; e Gli elementi degli ordinamenti giuridici, cit., pp. 221 sgg., ove anche il monito a un uso corretto e sorvegliato del concetto di ordinamento, che può conservare la sua ragion d’essere solo in quanto «serva a spiegare la verace sostanza di alcuni accadimenti reali» e che quindi sarà «accettabile o non accettabile» solo in base a una verifica ex post della sua utilità (pp. 221, 222); Orestano, Sociologia e studio storico del diritto, in «Jus», 1957, pp. 207 sgg., 221 sgg.