Note
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La figura di gran lunga più studiata dagli autori italiani è la Commissione interna, ma anche qui con prevalenza di analisi storiche sull’atteggiamento operaio nei riguardi dell’istituto o sul suo significato ideologico, piuttosto che sulla sua struttura e sul suo funzionamento effettivo: vedi comunque di recente, anche per altri riferimenti, Baglioni, L’istituto della «commissione interna» e la questione della rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, in «Studi di sociologia», 1970, pp. 167 sgg. Negli ultimi tempi si è andata rivelando peraltro un’attenzione crescente, pur se con diversi gradi di approfondimento, per la nuova figura organizzativa dei delegati, di cui si dirà ampiamente in seguito. Resta sempre attuale la constatazione, pure non più recente che i gruppi sociali organizzati, e i sindacati in particolare, «vivono ancora ai margini della nostra scienza» fatti oggetto, specie dai giuristi, di un atteggiamento, che se non è più, come in passato, di aperta «diffidenza e di sfavore» è pur sempre in larga misura incerto e mutevole (Rescigno, Le società intermedie, in « Il Mulino », 1958, p. 3, e ora in Persona e Comunità, Bologna, 1966, p. 29). Sulle radici anche culturali di questo atteggiamento e sulle sue conseguenze in ordine alla comprensione giuridica dell’attività anche esterna dei sindacati, vedi indicazioni nel mio saggio L’organizzazione sindacale, I, Milano, 1970, pp. 2 sgg.
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Delle recenti vicende, le organizzazioni dei lavoratori in azienda, allargando l’ambito della loro azione, si sono proposte sempre più chiaramente come termine di verifica anche per i partiti politici e per altre realtà istituzionali extra-aziendali.
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Se non si vuole, come rilevano gli osservatori più attenti, valutando l’esperienza anche recente italiana, che «il decentramento della contrattazione collettiva a livello aziendale» si limiti ad aumentare «l’autorità formale dei sindacati», senza farne crescere di pari passo «la reale influenza» sui problemi centrali dell’organizzazione del lavoro e dei poteri imprenditoriali, nonché sulla stessa generalità dei lavoratori interessati. Così Romagnoli, Sviluppi recenti della contrattazione aziendale: i delegati, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1970, p. 616; ma il rilievo risponde a constatazioni ampiamente condivise da studiosi di altri ordinamenti: si vedano da ultimo le acute osservazioni di Fox e Flanders, La riforma della contrattazione collettiva: da Donovan a Durkheim, in «Economia e lavoro», 1969, pp. 507 sgg., che, analogamente, individuano nell’azienda e nella presenza sindacale in essa il punto di partenza per la ricostruzione di quell’ordine normativo contrattuale attualmente in grave crisi di identità: dall’ordine normativo a livello di azienda «dipende l’ordine a tutti gli altri livelli» e «nessuna autorità esterna può instaurare l’ordine all’interno dell’impresa» (p. 558).
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Non a caso le più consistenti proposte ed esperienze concrete di passaggio dalla prassi di unità di azione fra i sindacati più rappresentativi a forme di unità istituzionale si sono riferite appunto prevalentemente al livello dell’organizzazione sindacale di impresa: dalle proposte di liste unitarie per l’elezione delle CI, ormai tradizionali (specie per la CGIL), ma di recente rilanciate con diverso peso cosi da trovare attuazione in diversi casi concreti (anche se indebolite dalla incombente prospettiva di un definitivo superamento dell’istituto: vedi in fine); all’idea di fusione fra le diverse sezioni sindacali aziendali, addirittura oggetto di delibere precise in molti congressi sindacali (vedi nota 3 del cap. III) e prevista dalla stessa legge 20-5-1970, n. 300 («statuto dei diritti dei lavoratori») art. 29; fino, da ultimo, all’esperienza unitaria della nuova figura dei delegati, rapidamente accolta nella sua configurazione originaria da sempre più vasti settori del nostro sindacalismo (vedi ampi sviluppi al n. 1 del cap. IV).
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Queste osservazioni, come in generale tutti i punti sopra accennati, risulteranno più ampiamente svolti nel seguito della ricerca, che dovrà altresì offrirne, almeno in parte, una verifica.
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Che l’organizzazione sindacale imprenditoriale sorga e si sviluppi storicamente sotto l’influsso diretto, se pur non esclusivo, della corrispondente organizzazione dei lavoratori è un dato largamente acquisito, anche se mai adeguatamente verificato con ricerche puntuali nell’esperienza italiana. Cfr., comunque, per le origini del fenomeno, le note pagine di Einaudi, Lezioni di economia politica, Torino, 1964, pp. 130 sgg., e, per i rapporti fra i due tipi organizzativi (imprenditoriale e operaio), da ultimo, Avanzi, Natura sindacale dell’Intersind e dell’Asap., in «Rivista di diritto del lavoro», 1966, I, pp. 274 sgg., ove fra l’altro, uno sviluppo della classica tesi sul carattere non necessario della associazione sindacale per l’imprenditore, in quanto soggetto sindacale «uti singulus». Quanto all’influsso delle strutture sindacali sulla organizzazione interna dell’impresa il suo peso è diventato di particolare evidenza in seguito al recente sviluppo di forme organizzative e di contrattazione informale a livello infra-aziendale (di reparto, di linea ecc.), che hanno riproposto in termini spesso radicalmente nuovi il problema della ripartizione dei poteri di gestione del personale all’interno della gerarchia aziendale, mettendo in accresciuto risalto (e in crisi) le competenze dei diversi livelli di capi intermedi. L’urgenza della questione risulta abbondantemente da sempre più frequenti testimonianze aziendali: si veda, ad esempio, da ultimo, l’intervento di A. Pavia, membro del comitato centrale dei giovani imprenditori industriali, al 2° congresso nazionale dell’AISRI (Roma, 28-29 novembre 1970).
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Occorre precisare fin d’ora che l’aggettivo «sindacale» è riferito a queste figure in senso volutamente generico, al mero fine di indicare che si tratta di forme organizzative espresse tipicamente dai lavoratori subordinati, nei luoghi di lavoro, per la difesa di interessi collettivi, inerenti alla propria situazione di lavoratori, o che in forza di questa si configurano o sono avvertiti in modo particolare, e che esse tendono a perseguire di fatto i loro obiettivi con attività pure tipicamente sindacali quali lo sciopero e la contrattazione collettiva. L’uso non implica invece alcun rapporto istituzionale di tali figure con le strutture sindacali tradizionali né tanto meno alcuna dipendenza da queste. Così, più in generale, non vuole disconoscere le caratteristiche anche radicali che le distinguono dallo stesso sindacato: ad esempio, per la CI, la dimensione aziendale degli interessi difesi e l’esclusione istituzionale di compiti di contrattazione; per le forme organizzative più recenti la tendenza, manifestata specie alle origini, a superare i confini strutturali e funzionali del sindacato per proporsi dimensioni di classe non limitate all’ambiente operaio e finalità direttamente politico-rivoluzionarie (peraltro non necessariamente aliene all’ideologia e all’azione del sindacato, nelle loro diverse varianti storiche). Sulle caratteristiche delle figure in questione e sulla loro effettiva consistenza si tornerà diffusamente nella parte finale di questo volume.
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Le sezioni sindacali considerate si riferiscono alle seguenti aziende: Milano: Alfa Romeo (di Milano e di Arese), Asgen, Autelco, Borletti, Breda (Siderurgica), Candy, CGE, CGS, Faema, Falck (Unione, Concordia, Vittoria), Fiar, Fiat, IBM (Milano), Innocenti, Ercole Marelli, Magneti Marelli (A), Salmoiraghi, Sit-Siemens; Brescia: ATB, Beretta, Breda Meccanica, Falck, Franchi Luigi, Glisenti, Marzoli, OM; Pietra, S. Eustacchio; Treviso: Zoppas, Simmel; Pordenone: Rex.
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Si tratta del già citato, L’organizzazione sindacale, I.
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L’appartenenza dei sindacati in generale, e quindi eventualmente delle loro articolazioni interne, al tipo di associazione non riconosciuta può ritenersi acquisita nel nostro ordinamento positivo. Quanto al rinvio dell’art. 36, I co. sopra citato, l’incertezza del suo significato riguarda soprattutto il punto se esso sia illimitato ovvero trovi limite in una normativa statale da ritenersi applicabile ai rapporti endoassociativi non solo in mancanza, ma anche contro espresse disposizioni dell’autonomia associativa (in particolare, una normativa diretta a garantire certe posizioni di libertà del singolo e il principio di democraticità all’interno del gruppo). Per altre indicazioni sull’argomento vedi ancora il mio L’organizzazione sindacale, I, cit., pp. 13 sgg.
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Si allude soprattutto alla ricerca sull’attività di conciliazione e di arbitrato nella disciplina interconfederale dei licenziamenti individuali nell’industria, condotta a cura dei gruppi di studio delle Università di Bari e di Bologna (I licenziamenti nell’industria italiana, Bologna, 1968, con introduzione di Romagnoli e prefazione di Giugni e Mancini). Tale ricerca, annunciata come la prima di una serie (di cui la presente stessa fa parte), ha già dato origine a un ampio dibattito dottrinale: cfr., ad esempio, Tarello, In margine ad una ricerca empirica, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1968, pp. 1095 sgg.; Lombardi-Vallauri, Sulla formazione extralegislativa del diritto, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 1968, pp 430 sgg. e, più in generale, i numerosi interventi alle giornate di studio sul tema tenutesi ad Ancona nello stesso 1968, i cui Atti sono nel quaderno n. 1, de «Il Foro italiano», 1970.
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M. S. Giannini, Gli elementi degli ordinamenti giuridici, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 1958, pp. 235, 237. Questa caratteristica delle organizzazioni in esame si manifesta persino nei rapporti attinenti alle attività principali delle diverse strutture sindacali (contrattazione, lotta collettiva, ecc.), cui si darà qui prevalente attenzione, anche se a tale riguardo un minimo di disciplina formalizzata è di solito riscontrabile a tutti i livelli associativi.
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Così Giugni, Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva,Milano, 1960, specialmente pp. 86, 106 sgg., 138: per questo la stessa legalità propria di tali organizzazioni «deve essere guardata come un fenomeno tendenziale, un’incrostazione che viene a sedimentarsi gradualmente, ma lascia larghi margini di incertezza all’osservatore, perché, per l’appunto, essa è sovente un processo, non una realtà compiuta e consolidata» (p. 106). Di qui anche il rilievo di come sia «assolutamente fuori di luogo una pretesa di assolutezza sistematica» «di fronte a realtà organizzative a struttura imperfetta come sono quelle del diritto dei privati» (p. 106).
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Più grave problema è definire se alle prassi in esame possa riconoscersi efficacia integrativa della disciplina formale del gruppo in qualità di usi normativi o di usi negoziali. La soluzione è resa più incerta dalle note divergenze sui caratteri distintivi di simili usi e sul loro modo di operare (per cui basti rinviare, fra gli ultimi contributi, a Pavone La Rosa, voce «Consuetudine (usi normativi e negoziali)», in Enciclopedia del diritto, IX, Milano, 1961, pp. 513 sgg.; N. Coviello jr., In margine all’art. 1340 c.c., in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1963, pp. 501 sgg.; Cataudella, Sul contenuto del contratto, Milano, 1966, pp. 150 sgg.; Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969, pp. 67 sgg.). Una risposta affermativa al quesito appare peraltro a prima vista difficile. A parte che le forme organizzative dei gruppi sindacali periferici rivelano un processo così rapido di evoluzione da rendere improbabile la formazione al loro interno di regole costanti, uniformi e regolari come richiesto per la consuetudine secondo il diritto statale, l’ostacolo forse maggiore ad ammettere la possibilità sopra ipotizzata, sempre per il diritto statale, sta nel modo tipico di formazione della volontà associativa da esso prevista (in particolare, delibera assembleare secondo il principio di maggioranza), che sembra esclusivo. In realtà l’ammissione di usi con valore normativo, formantisi entro il gruppo e atti a regolarne i rapporti interni sembra potersi giustificare pienamente solo considerando lo stesso gruppo non come insieme di contraenti, ma come ordinamento giuridico (vedi per la distinzione in fine al paragrafo). Anche a questo proposito dunque la prospettiva interna all’ordinamento sindacale si dimostra la più adatta a cogliere in modo pieno la complessità del fenomeno esaminato. Quanto agli usi negoziali, infine, la norma ad essi relativa (art. 1340 c.c.), sembra dettata avendo riguardo a ipotesi ben diverse da quelle in esame, quali i precedenti contrattuali individuali o di certi mercati, che mal si adattano di per sé a comprendere l’integrazione della disciplina qui in questione.
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Le citazioni sono tutte riprese da Giugni e Mancini, Prefazione a I licenziamenti nell’industria italiana, cit., pp. 6, 8.
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M. S. Giannini, Sociologia e studi di diritto contemporaneo, in «Jus», 1957, p. 233. Solo con una simile consapevolezza, oltretutto, l’analisi giuridica, anche se allargata a considerare il profilo interno di ordinamenti non statuali, mantiene le proporzioni che le sono proprie, evitando di porsi, magari inconsapevolmente, come un profilo di conoscenza assoluto e completo della realtà studiata, di cui può invece rivelare solo aspetti particolari. L’esigenza di considerare i problemi di struttura dei gruppi associativi, in specie dei partiti e dei sindacati, tenendo conto non solo della loro disciplina formale, ma anche della realtà effettiva esistente al loro interno, è ribadita esplicitamente da Pettiti, Associazioni primarie, secondarie e parallele, in Annali della Università di Macerata, 1964, p. 82; e da G. U. Rescigno, Partiti politici, articolazioni interne dei partiti politici, diritto dello stato, in «Giurisprudenza costituzionale», 1964, pp. 1421 sgg., testo e nota 33 (ma con una visione parziale, e con conclusioni piuttosto affrettate).
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Ma la stessa osservazione emerge con evidenza, più in generale, da tutte le recenti vicende sindacali italiane e di altri paesi europei. In tali vicende, e nel ritardo delle associazioni dei lavoratori a recepire i suggerimenti, talora radicali, provenienti da nuove forme di comportamenti e di organizzazione sindacale, è facile vedere la prova di quanto sia dannoso, per l’intero assetto sociale, come per l’efficace e democratico svolgimento delle funzioni istituzionali di questi gruppi, «un sistema di relazioni sindacali irrigidito in uno schema legale, comunque formatosi, sul quale già cominci ad operare il tarlo di una tradizione consolidata» (Giugni, Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva,cit., p. 138).
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Le citazioni sono di Giugni, Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, cit., pp. 16, 14 e passim, il quale rileva come proprio nella misura in cui si riesca, «dall’indistinto sociologico dei “gruppi”, a sceverare l’ordinamento nella sua specifica fisionomia formale» è possibile «studiare con maggior sicurezza, i punti di tangenza e di compenetrazione tra queste strutture e quella statuale» (p. 17). Il valore metodologico, in questo senso, della teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici e il suo rilievo come strumento di espansione della conoscenza giuridica sono stati di recente vigorosamente riaffermati, in particolare, da M. S. Giannini, Sociologia e studi di diritto contemporaneo, cit., pp. 231 sgg.; e Gli elementi degli ordinamenti giuridici, cit., pp. 221 sgg., ove anche il monito a un uso corretto e sorvegliato del concetto di ordinamento, che può conservare la sua ragion d’essere solo in quanto «serva a spiegare la verace sostanza di alcuni accadimenti reali» e che quindi sarà «accettabile o non accettabile» solo in base a una verifica ex post della sua utilità (pp. 221, 222); Orestano, Sociologia e studio storico del diritto, in «Jus», 1957, pp. 207 sgg., 221 sgg.