Tiziano Treu
Sindacato e rappresentanze aziendali
DOI: 10.1401/9788815412324/c4
D’altra parte una simile oscillazione di tesi, con sopravvivenze palesi di posizioni tradizionali, non risulta corretta per molto tempo da precise proposte politiche provenienti dalle Confederazioni. Una decisione impegnativa e definita in materia viene emergendo verso la fine del 1970 all’interno della CGIL, che, dopo un anno dedicato — come si dice — ad esperimentare le possibilità del movimento dei delegati, conferma su questo punto generale la validità delle scelte anticipate dai metalmeccanici, proponendo di conseguenza che le sezioni sindacali debbano «sciogliersi nel Consiglio di fabbrica e i loro membri partecipare come delegati eletti dai lavoratori alla vita e alla direzione della nuova struttura» [10]
. Non mancano peraltro preoccupanti rilievi, comuni del resto all’intero movimento sindacale, circa i rischi che una simile scelta può comportare per l’omogeneità dell’attività e delle politiche sindacali, nonché circa il carattere anomalo di radicare l’organizzazione di base del sindacato in organismi potenzialmente composti di iscritti e non iscritti [11]
. E le motivazioni
{p. 166}addotte per superare questi rilievi assumono talora accenti meramente difensivi o addirittura ambigui, non rifiutando il carattere di anomalia della proposta, ma definendola come un fatto transitorio, necessario nel periodo di trapasso al nuovo sindacato unitario [12]
. Quasi a implicare che, costituitosi questo, l’identificazione anche strutturale fra delegati e sindacato dovrebbe essere completa. In realtà la scelta generale così definita lascia aperto il problema cruciale, di cui si dirà subito, dei rapporti fra la nuova struttura di fabbrica nelle sue varie possibili configurazioni e l’organizzazione esterna della classe espressa nel sindacato.
Un altro problema aperto e particolarmente avvertito all’interno della CGIL riguarda la posizione della CI. Riconosciuta da tempo la crisi in cui anch’essa è caduta per la crescita del potere sindacale nelle fabbriche, se ne auspica il superamento e intanto si fa propria la tesi del suo congelamento. Ma esistono posizioni diverse circa i tempi e i modi per attuare una simile prospettiva. Si distinguono in particolare le aziende di avanzata sindacalizzazione, ove il sindacato è attivo e consolidato anche con le nuove strutture, per cui il superamento può essere immediato, dalle ipotesi ove la presenza sindacale è meno consistente, nelle quali la CI appare ancora uno strumento da valorizzare, per affermare una iniziale struttura unitaria {p. 167}di rappresentanza utile a far crescere forme organizzative più mature. In questa maniera la sorte dell’istituto sembra rimanere impregiudicata, affidata com’è a decisioni da prendere caso per caso. In realtà la formula tipica della CI non appare abbandonata neppure in linea di principio, nonostante il congelamento proposto. Si precisa, infatti, esplicitamente che il problema di un organismo eletto dall’insieme dei dipendenti aziendali resta aperto anche per il futuro (e andrà risolto nella nuova condizione di unità), in quanto lo stesso sindacato unico non potrà riunire né quindi esprimere tutti i lavoratori [13]
. Il che sembra togliere largamente valore alle proposizioni precedenti e soprattutto alla concezione del consiglio di fabbrica come struttura di base espressa dalla generalità dei lavoratori, rivelando ancora più direttamente la tendenza a interpretarlo in chiave rigorosamente sindacale già implicita nelle affermazioni precedenti, facendolo quasi coincidere con una «SAS unitaria» [14]
.
Meno definite su questi punti si rivelano le posizioni della CISL, che anzi non si esprimono ancora in vere e proprie proposte programmatiche, ma solo in accenni e indicazioni indirette. Si avverte comunque che le resistenze provenienti da diverse sue componenti circa una estensione non controllata delle nuove esperienze suggeriscono estrema cautela nei loro riguardi. In particolare emergono chiare riserve sulla possibilità di considerare risolto nei delegati e nel loro consiglio il problema della presenza sindacale organizzata in azienda. Fra i motivi di {p. 168}tali riserve alcuni sono simili a quelli già ricordati della CGIL, attinenti alla necessità di coordinare strettamente tali organismi e la loro attività (come pure l’attività dell’assemblea) con la struttura e l’azione del sindacato a tutti i livelli. E non a caso si ribadiscono i timori che un problema così cruciale possa essere eluso o svisato in una affrettata identificazione degli stessi istituti con le strutture sindacali di base [15]
. A ciò si aggiungono preoccupazioni più particolari e tipiche di questo sindacato, che richiedono «garanzie» a favore dei diversi gruppi sindacali e delle minoranze (anche in riferimento all’esistenza di correnti interne a ogni sindacato) «in caso di rappresentanza largamente maggioritaria di determinate organizzazioni» [16]
. Soprattutto appaiono gravi perplessità, desunte dalla tradizionale concezione sindacale della CISL, per il carattere non associativo degli organismi in questione, che può avallare ancora una volta rischi e ambiguità da tempo esperimentati nella CI, non ultimi pericoli di aziendalismo. Né a questi rischi si pone rimedio, secondo la CISL, accogliendo la prospettiva, cara soprattutto alla CGIL, di una coincidenza fra movimento generale dei lavoratori e associazione (o organizzazione) sindacale. Assunta come ipotesi assoluta, tale coincidenza «è puro artificio», mentre a volerla affermare di fatto attraverso l’adozione {p. 169}esclusiva della formula dei delegati, potrebbe portare a pericolose fratture nel mondo operaio, per cui il sindacato si ridurrebbe al «ruolo di struttura formale incapace di elaborare... una politica rivendicativa globale, mentre le rappresentanze di fabbrica conducono di fatto la politica rivendicativa anche in modo aggressivo, ma senza alcuna strategia di classe omogenea» [17]
. A parte ulteriori svolgimenti di queste tesi, già peraltro desumibili senza molta difficoltà dall’analisi storica sopra condotta, la loro linea conduttrice comune indica come unica soluzione sicura, scevra dai pericoli indicati, il mantenimento e la rifondazione di strutture sindacali omogenee in azienda, da affiancare eventualmente ai consigli. Semmai la progressiva estensione di questi porrà in termini rinnovati il problema della soppressione o del ridimensionamento dei compiti della CI.
Confrontando simili conclusioni con quelle sopra accennate sulle posizioni della CGIL, si riscontra agevolmente come il divario fra le due maggiori centrali sindacali circa l’assetto dell’organizzazione sindacale di fabbrica, durato, anche se con sempre minore nettezza, a partire dagli anni ’50, non si è del tutto sopito col sorgere delle più recenti strutture aziendali, ma trova motivo di riproporsi nei loro confronti in termini e con motivi neppur molto nuovi. Tale divario sembra peraltro presentarsi ora in un contesto più favorevole alla posizione della CGIL, in quanto l’attuale organizzazione di fabbrica registra l’esistenza di due organismi (delegati e Commissioni interne), entrambe tipicamente congeniali a tale confederazione per il loro fondamento generalizzato all’insieme dei lavoratori dell’unità produttiva. Mentre al contrario l’operazione di un rilancio di organismi tipicamente associativi, quali le sezioni, appare dall’esperienza fin qui esaminata di notevole aleatorietà, se non impossibile.
Il quadro così rapidamente tratteggiato dell’atteggiamento generale dei maggiori sindacati verso i nuovi organismi aziendali non presenta variazioni di rilievo, anzi riconferma la presenza di analoghe zone di incertezza, {p. 170}ove si considerino elementi più specifici del loro assetto strutturale e funzionale, che del resto si pongono spesso come conseguenza dell’atteggiamento generale. Anche a questo proposito le posizioni più decise e anticipatrici sono quelle della FIM e della FIOM, che hanno subito dimostrato di voler conservare ai delegati alcuni caratteri essenziali propri delle concrete esperienze aziendali da cui sono sorti. Per limitarsi agli aspetti più direttamente attinenti al tema, si riconferma al delegato, almeno a livello programmatico, e sia pure con i limiti indiretti derivanti dalla particolare posizione dei rappresentanti aziendali riconosciuti dal contratto, la natura di istituto direttamente rappresentativo dei lavoratori appartenenti al gruppo omogeneo, scelto liberamente da questi senza i limiti delle affiliazioni sindacali e senza dipendenza da investiture formali degli stessi sindacati. Al fine di non alterare a priori tale originaria possibilità di espressione della base operaia, il sistema di elezione proposto è quello del voto su scheda bianca con esclusione di liste predeterminate [18]
. Anche sotto il profilo funzionale i delegati (e il loro consiglio) conservano la sicura, se pur non sempre precisa, identità derivata dalla stessa esperienza di fabbrica. Ad essi spetta di condurre, in stretta connessione con l’assemblea fornita di poteri decisionali, la contrattazione sugli aspetti del rapporto di lavoro connessi alla realtà dei gruppi omogenei che ne costituiscono il fondamento, e collettivamente riuniti nel consiglio di fabbrica, la politica sindacale generale dell’azienda, assumendo quindi tutti i potetri sindacali sui luoghi di lavoro [19]
.
Già con queste connotazioni il modello ipotizzato dell’i
{p. 171}stituto supera fin dalle sue origini i due punti deboli che più a lungo hanno pesato sulle organizzazioni tradizionali d’azienda (SAS e CI): appunto il precario legame con la generalità dei lavoratori e la scarsa qualificazione dei loro poteri sindacali. Ma pure le posizioni ora accennate sono solo in parte condivise da altri settori del nostro schieramento sindacale, in particolare all’interno della CISL e della UIL, che riflettono in proposito gli stessi residui tradizionali già visti nelle loro tesi generali. Persistono così riserve circa un metodo di elezione dei delegati, come quello su scheda bianca senza liste, che non permette alcun adeguato collegamento e controllo da parte degli organismi sindacali e si prendono in considerazione, oltre al sistema della designazione sindacale, specie per i rappresentanti contrattualmente riconosciuti [20]
, la forma intermedia della elezione da parte di tutti i lavoratori, ma su liste stabilite preliminarmente in vario modo (di solito con l’intervento degli stessi sindacati). Analogamente, alla possibilità di riconoscere ai delegati, e soprattutto ai consigli, carattere di agenti contrattuali in via primaria, si contrappone l’alternativa ben nota di conferire loro poteri contrattuali su delega di volta in volta da parte del sindacato, o addirittura di ammettere solo una gestione congiunta del potere contrattuale con le organizzazioni territoriali [21]
.
Note
[10] Così la relazione di Lama al comitato direttivo della CGIL del 21-22 dicembre 1970, in Strutture unitarie sui luoghi di lavoro, collana documentazione CGIL, n. 17, Roma, 1971, p. 23. Vedi anche la risoluzione approvata dallo stesso comitato (dedicato quasi integralmente a discutere le nuove forme di rappresentanza), che attribuisce «al consiglio dei delegati una precisa priorità politica in riferimento alla presenza e alla costruzione del sindacato nella fabbrica», in «Rassegna sindacale», 1971, n. 202, p. 6.
[11] Ampie tracce di simili timori emergono, ad esempio, da diversi interventi nel «Quaderno di Rassegna sindacale» dedicato ai delegati di reparto, cit., che del resto si muovono ancora in una prospettiva esplicita di rilancio delle sezioni sindacali unitarie: si vedano, in particolare, quelli di Giunti, pp. 12 sgg. e 17 sg.; di Bianchi, Ritorno alla fabbrica come perno strategico, p. 27, e di Didò, pp. 14 sgg., che sottolinea l’urgenza di saldare i delegati con l’organizzazione sindacale tradizionale, in modo che essi «siano immediatamente il sindacato e quindi siano raccolti in un organismo di fabbrica, il quale sia già comprensivo delle forze sindacali attuali e di queste nuove espressioni dirette di democrazia operaia». La non completa congruità del nuovo organismo a funzionare come struttura di base del sindacato è ancora ribadita, e motivata richiamandosi alla natura «associativa» del sindacato, nel dibattito al seminario di Ariccia su L’organizzazione sindacale nelle aziende, dell’11-12 maggio 1970, in «Rassegna sindacale», 1970, n. 188-189, pp. 17 sgg., che riflette una persistente eterogeneità di posizioni all’interno della confederazione. Vedi peraltro su questo punto, con sufficiente chiarezza, le osservazioni conclusive di Guerra, p. 17, ma anche, fra i molti, l’intervento di Accornero, p. 21, che sottolinea criticamente i ritardi della politica della CGIL ad adeguarsi alla nuova situazione.
[12] Cfr. la relazione di Lama al comitato direttivo della CGIL menzionata alla nota 10, e lo scritto di Scheda, L’unità dopo Firenze, in «Rinascita», 1970, n. 50, p. 4.
[13] Per tutte queste conclusioni vedi la risoluzione del comitato direttivo, cit., e la relazione di Lama allo stesso comitato, ove anche la distinzione fra i due gruppi di ipotesi sopra indicate (omessa invece nel documento finale). Cfr. anche il commento a tali risultati di Scheda, Una più alta capacità di direzione del movimento sindacale, in «Rassegna sindacale», 1971, n. 202, pp. 4 sg. con richiami alla cautela nel superamento, pur ammesso necessario, della CI. Lo stesso Scheda si era già pronunciato in termini simili nello scritto L’unità dopo Firenze, cit., affermando anzi con maggior vigore la necessità di mantenere anche in futuro un organismo di generale rappresentanza dei lavoratori, sia pure con compiti ridimensionati rispetto a quelli della CI attuale.
[14] Per una simile interpretazione vedi anche Antoniazzi, Per lo sviluppo dei consigli, nel Dossier sull’argomento, in «Dibattito sindacale», 1970, n. 6, p. 9.
[15] Per questi motivi e per quelli di seguito indicati si rinvia al documento Nuove forme di rappresentanza in fabbrica, che è l’unico testo organico elaborato dalla CISL sul problema, anche se in forma prevalentemente descrittiva e con indicazioni in larga misura indeterminate (vedine anche il sintetico commento di Paramucchi e G. Borgomeo, Per un maggiore potere del sindacato in fabbrica, in «Conquiste del lavoro», 1971, n. 3, pp. 22 sgg.). Fra i documenti di categoria cfr., in particolare, per la sua chiarezza, il documento della giunta di segreteria della Federchimici CISL, La proposta della Federchimici per il sindacalismo degli anni ‘70, in «Rassegna stampa, Federchimici CISL», Milano, febbraio 1971, pp. 7 sgg., che ribadisce con totale fermezza la necessaria priorità anche nel momento attuale del rafforzamento della SAS, su cui «bisogna puntare tutto l’impegno», proprio per la sua caratteristica di purezza sindacale e associativa. Per questo «anche nella prospettiva unitaria», si deve osservare nel modo più rigoroso «il non scioglimento di alcuna struttura» sindacale, e le SAS (oltre alle CI, finché queste ultime esisteranno) devono far parte come tali dei consigli di fabbrica insieme ai delegati.
[16] Così il documento Nuove forme di rappresentanza in fabbrica, cit., p. 4.
[17] Per queste citazioni vedi ancora Nuove forme di rappresentanza in fabbrica, cit., rispettivamente pp. 10 e 12.
[18] Anche una simile scelta, non ancora espressa alla I conferenza unitaria di Genova del marzo 1970, è adottata dalla III Assemblea organizzativa della FIM (vedi il documento della II Commissione, cit.) e, sia pure implicitamente, dal XV Congresso della FIOM (vedi la risoluzione Per l’unità sindacale, cit.); nonché, più tardi, dalla II conferenza nazionale della UILM, cit., e ora dalle tesi per il dibattito alla II conferenza unitaria dei metalmeccanici, cit., n. 2, 7.
[19] Su tali punti vedi gli stessi documenti indicati alla nota precedente, e, da ultimo, il documento del direttivo CGIL del 21-22 dicembre 1970, cit. (che parla peraltro di «poteri di contrattazione verso la controparte sui problemi aziendali»).
[20] La posizione è particolarmente sostenuta nella UIL (vedi lo stesso documento della II conferenza nazionale della UILM cit.), ma è diffusa pure all’interno della CISL, ed è stata talora definita con apposito accordo unitario da parte di federazioni di categoria (vedi, ad esempio, le federazioni delle costruzioni. Altre esemplificazioni nel documento della CISL, Nuove forme di rappresentanza in fabbrica, cit.).
[21] Per esemplificazioni vedi il documento della CISL citato nella nota precedente, e quello della Federchimici CISL, cit., a nota 15, ove si esclude esplicitamente, in coerenza con le premesse, che i delegati possono avere compiti contrattuali.