Lavinia Bifulco, Maria Dodaro (a cura di)
Quale welfare dopo la pandemia?
DOI: 10.1401/9788815412003/c1
Che oggi le situazioni concrete non mostrino dinamiche univoche al riguardo è quasi un’ovvietà. Altrettanto ovvio che i motivi di pessimismo rispetto a un ritorno del sociale sono almeno pari a quelli di ottimismo. Pesa però sul piatto dell’ottimismo la forza delle posizioni assunte nel dibattito pubblico, non solo scientifico, da voci molto autorevoli. La prospettiva con cui Horton [2020], caporedattore di «The Lancet», ha proposto di usare il concetto di sindemia anziché quello di pandemia, è emblematica: «The most important consequence of seeing Covid-19 as a syndemic is to underline its social origins […] Unless governments devise policies and programmes to reverse profound disparities, our societies will never be truly Covid-19 secure».
{p. 17}

5. De-politicizzazione e ri-politicizzazione

Come si può capire da quanto detto fin qui, la dialettica fra de-politicizzazione e ri-politicizzazione è l’altro filo rosso del volume. Di depoliticizzazione soffre, per esempio, la sanità italiana, sebbene possa sembrare paradossale visto quanto in Italia la sanità sia un campo di confronto e scontro fra interessi e poteri. Il fatto è che decenni di assimilazione del modello di mercato hanno naturalizzato un’idea di salute incentrata sull’incontro fra domanda e offerta (cioè l’idea della salute come merce) tutt’al più da aggregare e coordinare (Bifulco, Polizzi e Turri, infra). In realtà, in Italia opera un insolito connubio fra depoliticizzazione della salute e politicizzazione della sanità. Quest’ultima è da tempo il terreno di dinamiche di cooptazione a volte collusive oltre che di sovranismi regionali vecchi e nuovi. La salute, per converso, viene trattata nell’agenda pubblica come un problema di efficiente allocazione delle risorse con vocabolari e strumenti che ne tacciono il collegamento con scelte e finalità sostantive relative al ben-essere. Con dinamiche diverse, elementi di depoliticizzazione sono rilevabili a proposito delle scelte relative all’istruzione (Borgna e Romito, infra), delle misure per l’inclusione finanziaria (Caselli, Dodaro e Moiso, infra), dell’agenda pubblica per la marginalità urbana e la città più in generale (Voglino e Tosi, infra).
Evidentemente bisogna precisare cosa intendiamo per politico o politica. Facciamo riferimento al significato più ampio del termine: intendiamo la dimensione politica come il dominio del possibile, come tale contrapposto al dominio della necessità [Hay 2007; Wood e Flinders 2014]. Se si mette al centro questa dimensione ne deriva che: i problemi sociali non vanno concepiti come fenomeni naturali o individuali ma chiamano in causa contesti sociali e istituzionali; il loro trattamento spetta a sfere decisionali pubbliche e non è delegabile ad ambiti di competenza puramente tecnica; le agende pubbliche hanno una gamma di opzioni diverse per farvi fronte, poiché è possibile scegliere strategie e prospettive diverse [Wood e Flinders 2014].{p. 18}
La depoliticizzazione del welfare fa parte dello spirito dei tempi; in effetti, il punto di avvio di tutte le analisi in proposito è il suo legame stretto con il neoliberismo [Busso 2017]. Uno spirito che sembra impregnare il modo stesso in cui si discute sul welfare. Ci sembra infatti che si tenda, in generale, a trattare temi chiave, quali l’investimento sociale o l’innovazione sociale, non problematizzandone i presupposti normativi e valoriali, e più in generale la dimensione in senso lato politica, cioè le scelte e le prospettive di fondo che vi sono incorporate (Borgna e Romito, infra).
Come sappiamo grazie a padri fondatori come Marshall e Titmuss, gli studi sul welfare si muovono da sempre sul crinale molto sottile e mobile fra l’analisi e la teoria normativa, con tutte le complicazioni evidenti, per esempio, a proposito di giustizia sociale: che da un lato è una categoria analitica che ci consente di comprendere se, in quale grado, con quali effetti redistributivi una società organizza un suo sistema di protezione sociale; dall’altro lato è un riferimento ideale che condensa le opzioni possibili relativamente a quale società più o meno uguale, inclusiva ecc. sia preferibile. Ma da tempo sembra essersi consolidato, anche nel dibattito scientifico, un orientamento problem-solving per il quale ci si concentra sulle soluzioni individuabili dentro un quadro predefinito dei problemi e non si discute il modo in cui questo quadro prende forma. Si sono ridotti, in sostanza, motivi e argomenti per riconoscere la dimensione costitutivamente politica del welfare: il suo essere terreno di scelte, mobilitazioni, conflitti [de Leonardis 1998].
Qualche traccia di segno diverso si intravede, per la verità, nel discorso pubblico e scientifico sviluppatosi intorno alla pandemia a livello internazionale. Le posizioni assunte dall’Independent Panel [2023], un organismo tecnico istituito dall’OMS, sono al riguardo decisamente nette: «New pandemic threats are inevitable, but pandemics are a political choice».{p. 19}

6. Il volume

I capitoli che seguono sviluppano l’analisi su aree di intervento e processi generali e trasversali ai vari ambiti che sono centrali nel quadro appena delineato. Sebbene con angolazioni e approcci differenti, i contributi interrogano alcuni dei principali problemi posti da decenni di sottofinanziamento e delegittimazione del welfare, facendo emergere la complessità dei problemi a fronte dell’inadeguatezza delle risorse, degli strumenti, e dei paradigmi esistenti per affrontarli. Tale inadeguatezza, come abbiamo sostenuto, è stata portata tragicamente allo scoperto dalla pandemia che slogan come «nulla sarà più come prima», o «non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema», hanno efficacemente rappresentato come un momento di potenziale rottura rispetto al passato. I contributi che seguono ci paiono tuttavia evidenziare il carattere per lo più contingente di questa apertura al cambiamento.
In queste direzioni vanno i diversi apporti alle due parti in cui si suddivide il volume: la prima che si concentra su alcuni fenomeni e processi di lungo periodo, su molti dei quali ci siamo già soffermate in questo primo capitolo; la seconda che focalizza la riflessione attorno a specifiche aree di intervento.
Il capitolo di Elena Granaglia apre la prima parte del libro con un’analisi delle disuguaglianze socioeconomiche in Italia all’arrivo del Covid e con un’ampia riflessione su come far fronte alle sfide conseguenti, a partire dal rafforzamento della dimensione universalistica del welfare. Emergono molto chiaramente alcuni dei temi più importanti che la pandemia avrebbe potuto aiutare a portare al centro del dibattito pubblico – oltre che dell’agenda – sul welfare dopo la pandemia. Al contempo, l’autrice mette in guardia rispetto ai nuovi rischi di disuguaglianza scaturiti proprio dall’emergenza pandemica e rispetto alla complessità e portata dell’impegno di cui la società dovrebbe farsi carico per rafforzare l’universalismo dei diritti sociali.
Nel sottolineare l’importanza di rafforzare la legittimazione dei trasferimenti monetari, Elena Granaglia eviden{p. 20}zia anche il ruolo essenziale dei servizi per il benessere individuale e collettivo e nella costruzione di un «senso di appartenenza ad una comune uguaglianza morale» (cfr. infra, p. 38). A lungo invisibilizzati, la pandemia ha permesso a questo proposito di allargare lo sguardo anche ai lavoratori e alle lavoratrici su cui si sorreggono i servizi di welfare. Nel terzo capitolo, Davide Caselli, Gianluca De Angelis e Barbara Giullari approfondiscono il tema, riflettendo sul circolo vizioso tra mancato riconoscimento sociale e deterioramento delle condizioni del lavoro di cura e processi più ampi di impoverimento del welfare. Il capitolo ricostruisce le dinamiche principali che hanno investito il lavoro di cura in Italia, con particolare attenzione alla regolazione normativa, al fenomeno delle dimissioni e alle rappresentazioni della crisi del lavoro di cura in alcune testate di settore. Gli autori si soffermano sul perdurante sottofinanziamento come fattore alla base del peggioramento delle condizioni del lavoro di cura e sulle premesse indispensabili per un ripensamento della cura come responsabilità collettiva. Evidenziano, inoltre, la fugacità degli auspici di un radicale cambio di rotta rispetto a tendenze che sembrano dirigersi nella direzione opposta, riconnettendosi a quelle pre-pandemiche, lasciando non soltanto irrisolte gran parte delle criticità, ma anche esasperando vie d’uscita individuali che rischiano di esacerbarle e indebolire ulteriormente anche i servizi di welfare.
Il capitolo di Caselli, De Angelis e Giullari richiama, tra le altre, le tendenze alla desocializzazione che abbiamo brevemente ripercorso nelle pagine precedenti. Tema che, da prospettive diverse, è al centro anche del quarto capitolo di Carlotta Mozzana e del quinto capitolo di Davide Caselli, Maria Dodaro e Valentina Moiso. Nel quarto capitolo, Mozzana affronta il tema delle trasformazioni della solidarietà sociale e lo fa a partire da una riflessione sulle forme, concezioni e pratiche della solidarietà emerse durante la pandemia. L’autrice procede mettendo a fuoco innanzitutto il rapporto tra individuale e collettivo, evidenziando la necessità della solidarietà e le tensioni legate al modo in cui essa può o non può istituzionalizzarsi. Nel capitolo si evidenzia come la pandemia abbia messo in luce due principali livelli ai quali {p. 21}agisce la solidarietà, in tensione fra loro: quello istituzionale e dei diritti da un lato, e quello emergenziale ispirato dalla «logica umanitaria» e dal vocabolario della sofferenza e della compassione dall’altro. Il rischio su cui Mozzana richiama l’attenzione è quello di una «normalizzazione» di questa seconda logica e forma di intervento, in continuità anche in questo caso con una tendenza di lungo periodo. Il capitolo offre infine alcuni spunti di riflessione per un ripensamento delle fondamenta del welfare che sia in grado di tenere conto dei limiti socioecologici del pianeta. In effetti, come sarà possibile coniugare giustizia sociale e giustizia ambientale è un’altra delle sfide rilanciate dalla pandemia.
Il quinto capitolo di Davide Caselli, Maria Dodaro e Valentina Moiso si confronta con un’altra tendenza generale, quella alla finanziarizzazione del welfare e della vita quotidiana. Lo sguardo è principalmente rivolto alle tendenze di lungo corso, che vedono non solo un’espansione dei servizi e dei prodotti finanziari tra fasce sempre più ampie della popolazione e in ambiti centrali del welfare pubblico (come le pensioni o la sanità), ma anche il ruolo crescente di attori finanziari nella definizione delle politiche sociali, consolidatosi durante la pandemia. Il capitolo si concentra sul ruolo di questi attori, sulla diffusione di specifiche razionalità economico-finanziarie che contraddistinguono le iniziative di inclusione ed educazione finanziaria rilanciate durante la pandemia, e su alcune strategie di innovazione finanziaria della società civile. Da queste tre angolature il capitolo discute il modo in cui i processi di finanziarizzazione non solo rafforzano il primato del mercato come principio ordinatore della vita quotidiana, ma si saldano alle trasformazioni del welfare che abbiamo precedentemente discusso, in particolare alle dinamiche di responsabilizzazione, desocializzazione e depoliticizzazione.
Sul piano delle disuguaglianze territoriali, che riflettono quelle sociali più ampie, si muove invece il sesto capitolo di Michela Voglino e Simone Tosi. Il tema è affrontato da un punto di osservazione specifico che è quello delle rappresentazioni delle periferie e delle politiche che si concentrano su questi contesti. Gli autori, muovendo dall’acceso dibattito
{p. 22}sulla vita urbana e le disuguaglianze sociospaziali esploso con i primi lockdown, discutono di questi territori storicamente nati per ospitare «i newcomers in cerca di cittadinanza» (cfr. infra, p. 104). Gli autori mostrano come nel tempo la periferia sia stata progressivamente riconcettualizzata come indicatore spaziale del disagio, della carenza, della marginalità sociale oltre che geografica. La pandemia ha da questo punto di vista costituito una grande occasione per una riflessione sui modelli abitativi, sui luoghi di lavoro, sullo spazio (sia privato sia pubblico spesso carente) delle relazioni sociali. Il rinnovato interesse per le periferie, secondo gli autori, si è tuttavia tradotto in scelte relative alla città depoliticizzate che invisibilizzano il legame tra questione sociale e questione urbana. Una dinamica che Voglino e Tosi riscontrano nel tentativo di «sbarazzarsi» della periferia e del concetto stesso, senza tuttavia risolvere – ma dislocando – i problemi sociali (disoccupazione, precarietà lavorativa, povertà, tensioni etniche ecc.) che ancora oggi, come ieri, danno forma ad una domanda insoddisfatta di cittadinanza sociale.