Quale welfare dopo la pandemia?
DOI: 10.1401/9788815412003/c1
Parlare di ritorno dello Stato
conduce inevitabilmente a occuparsi delle amministrazioni pubbliche, ovunque sottoposte
in questi decenni a una riduzione drastica delle risorse e del personale che ne hanno
compromesso le capacità di progettazione e innovazione autonoma [Mazzucato e Collington
2023]. Occorre dire che il reclutamento di personale nelle amministrazioni pubbliche è
stato assunto come un obiettivo strategico dall’agenda nazionale del dopo-Covid. Però ci
si è
¶{p. 12}orientati principalmente nella riproposizione di quegli
stessi modelli neo-manageriali che hanno ampiamente concorso a sterilizzare le capacità
innovative delle amministrazioni.
Si tratta di temi molto complessi:
impossibile renderne conto in modo esauriente qui. Quel che conta sottolineare è che da
questa temporanea messa in sospensione del primato del mercato – dei meccanismi
regolativi, cognitivi e istituzionali collegati – sono scaturite situazioni diverse. In
alcuni casi c’è voluto giusto un attimo per tornare indietro, per recuperare il passato
più o meno prossimo. Le vicende italiane relative al contrasto alla povertà sono in
proposito particolarmente significative (Benassi e Busilacchi,
infra). In altri casi si intravedono brandelli di un diverso
futuro. Questo sembrerebbe (forse) il caso della sanità.
3. Responsabilizzazione
Le dinamiche di responsabilizzazione
sono un secondo fronte importante di osservazione. Sin dagli anni Ottanta, l’agenda
europea per la politica attiva del mercato del lavoro ha enfatizzato la capacità
individuale di adattarsi alle mutevoli esigenze del mercato, diminuendo così
l’importanza dei contesti sociali e istituzionali [Daly 2011]. Allo stesso tempo è
diventata preponderante l’idea di una responsabilità individuale proattiva per i
risultati, indebolendosi in tal modo le ragioni per esercitare una responsabilità
collettiva [Borghi 2011]. Ciò è abbastanza evidente nel concetto di occupabilità, che
implica essenzialmente una definizione di disoccupazione come risultato di carenze
individuali. Di conseguenza, la responsabilità di garantire condizioni adeguate
all’accesso all’occupazione tende a ricadere sull’individuo stesso [Bonvin e Laruffa
2018], che deve dimostrare un impegno soddisfacente nella ricerca del lavoro e nello
sviluppo delle competenze (Borgna e Romito, infra). Il riferimento
più generale è il paradigma dell’attivazione, che permea versanti diversi del welfare in
Europa a partire dagli anni Ottanta [van Berkel e Møller 2002]: oltre al lavoro, alla
formazione e al contrasto alla povertà – i suoi terreni ¶{p. 13}di
elezione – anche l’accesso all’abitazione (Cela, infra) e le misure
di inclusione finanziaria. Nelle odierne condizioni di finanziarizzazione – del welfare,
dell’economia e della vita quotidiana – la responsabilizzazione tende a saldarsi con il
peso crescente della razionalità economico/finanziaria (Caselli, Dodaro e Moiso,
infra). Come sottolineano Maman e Rosenhek, è centrale la
figura di un individuo che agisce «come un soggetto finanziario responsabile e
calcolatore» [2019, 1999].
Con la pandemia, la
responsabilizzazione si rivela una chiave centrale per comprendere dinamiche e torsioni
sia del welfare, sia più in generale dei sistemi sociali. Si pensi ai modi in cui i
discorsi e le decisioni pubbliche hanno diversamente tematizzato, nei differenti
contesti geo-politici, il complicato rapporto fra responsabilità individuale e
responsabilità istituzionale nel fronteggiamento della situazione pandemica, con una
varietà di situazioni che va dalla colpevolizzazione dei cittadini «irresponsabili»
all’adozione di approcci repressivi, alla salvaguardia incondizionata delle libertà
individuali, passando attraverso impostazioni della relazione Stato-cittadini
maggiormente orientate alla interdipendenza delle responsabilità (secondo molti, il caso
della Germania). Questo è, comunque, un fronte molto ambiguo del miscuglio fra vecchio e
nuovo collegato alla pandemia. Infatti, sicuramente da un lato hanno guadagnato terreno
le dinamiche di iper-responsabilizzazione che attraversano da tempo e trasversalmente le
società contemporanee [Beck 1992], assumendo per lo più un registro moralistico o
moralizzante. Di fatto, la traduzione del fronteggiamento del rischio pandemico in
termini di adozione di «buoni» comportamenti individuali è stata centrale nei discorsi
che hanno accompagnato l’adozione delle misure di lockdown in Italia. Dall’altro lato,
sono rilevabili processi che vanno in altre direzioni. Ne accennavamo prima, a proposito
dell’allentamento del rapporto fra assistenza e lavoro legato all’adozione di sostegni
economici di tipo non condizionale: la povertà durante la pandemia non è una colpa. Più
precisamente: diventa evidente che la povertà è una questione sociale, che chiama in
causa fattori e risposte sociali.¶{p. 14}
4. Desocializzazione e risocializzazione
Si potrebbe dire, da questo punto di
vista, che la pandemia ha riaperto la stagione della socializzazione del welfare.
Abbiamo rilevato, altrove, molti
segnali di una tendenza alla dilatazione e contemporaneamente alla perdita di salienza
del dominio «sociale» nel welfare [Bifulco 2017]. La numerosità dei tentativi fatti per
definire che cosa debba intendersi per innovazione sociale, economia sociale, impresa
sociale ecc. testimonia quanto siano diventati prevalenti gli usi generici e allusivi
del concetto stesso di «sociale» via via che si è esteso il suo perimetro di
applicazione. Ciò segnala una dinamica di sterilizzazione delle cornici interpretative e
regolative che storicamente hanno lavorato alla traduzione dei problemi individuali in
problemi sociali. Si riflettono in questa dinamica da un lato la svalutazione della
dimensione istituzionalmente mediata della vita sociale – la celebrazione
dell’immediatezza, il mito del fai da te, la moralizzazione del legame sociale –;
dall’altro lato l’avanzata dei processi di mercificazione [ibidem].
Sociale è, in ogni caso, un concetto
ampio e sfrangiato, che va perciò contestualizzato. Nell’ambito sanitario, parlare di
sociale significa parlare dei fattori sociali che concorrono a determinare le condizioni
di salute o malattia delle persone (i cosiddetti determinanti sociali di salute [Marmot
2016]). In questi termini, sociale si contrappone a – e prova a superare – il
tradizionale primato del modello clinico, fondato sulla riduzione delle condizioni di
salute e di malattia a variabili strettamente organiche e individuali. Nell’ambito
economico, da Polanyi in poi sociale indica ciò di cui l’economia stessa è intrisa
(l’embeddedness), a smentita degli assunti su cui si basano le
teorie economiche mainstream. Su questo, sono preziose anche le
analisi di Bourdieu a proposito della natura intrinsecamente sociale dei processi
attraverso cui l’economia (più precisamente, un modello specifico di economia) si è
costituita come campo specializzato. Nella sfera europea, sociale rimanda alle finalità
di solidarietà, coesione, inclusione che dagli anni Ottanta in poi hanno trovato spazio
nelle agende sovranazionali, ¶{p. 15}giustapponendosi alle finalità di
crescita economiche con equilibri – bisogna dire – spesso incerti e problematici.
Nell’operatività quotidiana e nell’esperienza diretta di chi lavora nei servizi, sociale
è spesso associato a processi di marginalizzazione. Da un punto di vista più astratto,
sociale indica ciò che azioni e politiche per la protezione sociale riescono –
eventualmente – a creare, aggregare, consolidare in termini di legami sociali o
societari. Sociale rimanda poi, ovviamente, allo sviluppo storico delle diverse forme di
welfare state e, da Marshall in poi, fa riferimento a un rapporto di appartenenza alla
collettività basato su specifici diritti di cittadinanza. Al fondo, il principio guida
stesso dei welfare è la denaturalizzazione o, in senso positivo, la socializzazione dei
bisogni, dei rischi, in generale delle condizioni da cui dipendono il ben-essere e il
mal-essere delle persone e le possibilità di attuare un progetto di vita indipendente al
riparo dall’alea del mercato [Castel 2004]. Proprio questa accezione specifica di
sociale – e la storia attraverso cui ha preso forza – sembra aver perso salienza a
vantaggio di usi più estensivi. Questo non è in sé problematico e va considerato come
uno dei portati dell’esperienza stessa che le società hanno fatto e fanno dei welfare
state, e della molteplicità dei parametri normativi a essi sottesi. Però vanno fatte
alcune distinzioni di tipo analitico.
Più precisamente, vanno distinte vie
basse e vie alte del sociale. Una via bassa è quella che relega il sociale alla sfera
del bisogno, perimetrata secondo i criteri tipici delle misure
means-tested. Questa modalità, coerente con gli approcci
residuali, tende a escludere sia l’equivalenza fra universalismo e cittadinanza sociale
– empiricamente data in alcuni contesti – sia questioni di agency e
poteri. Si tratta del sociale come deficit da colmare, di norma attraverso interventi
che tendono a confermare le condizioni di dipendenza delle persone, anche laddove – o
proprio laddove – l’enfasi viene posta sulla necessità di attivarsi, di essere autonomi
[Sennett 2004]. Una via bassa è anche quella che ratifica l’ancillarità del sociale
rispetto all’azione economica, facendone uno strumento di maquillage o di
«social-washing» che valorizza l’ibridazione fra logiche solidaristiche e logiche di
mercato ¶{p. 16}allo scopo di aumentare le opportunità di estrazione di
valore. Vie basse sono quelle che hanno fatto del sociale un campo di
istituzionalizzazione di saperi specialistici e di competenze professionali
strutturalmente restie a integrarsi con altre competenze.
Vie alte sono quelle in cui è
all’opera un qualche processo di capacitazione delle persone, nel senso proposto da
Amartya Sen: libertà sostantive di scelta, che includono la possibilità di far sentire
la propria voce nei processi decisionali. Quando la scelta riguarda opzioni
predeterminate, secondo Sen non c’è vera libertà. La libertà che conta, infatti, è
quella di agire come cittadini la cui voce ha un peso «piuttosto che vivere come
vassalli benvestiti, ben pasciuti e intrattenuti» [Sen 1999, 288]. Vie alte sono dunque
quelle in cui la socializzazione messa in atto dal welfare lavora congiuntamente con la
democratizzazione dei processi decisionali. Ancora, se e quando gli approcci integrati e
sistemici prevalgono sugli approcci specialistici, possiamo dire che si tratta di vie
alte che restituiscono al sociale la sua complessità. Vie alte, infine, sono quelle in
cui il sociale non è trattato come un dominio tecnico ma è riconosciuto come un dominio
politico, in cui si confrontano opzioni e questioni, a cominciare dalla questione di
cosa fare rispetto alle situazioni di vulnerabilità e disuguaglianza che la pandemia –
insieme ad altri fattori di crisi – ha accresciuto.
Che oggi le situazioni concrete non
mostrino dinamiche univoche al riguardo è quasi un’ovvietà. Altrettanto ovvio che i
motivi di pessimismo rispetto a un ritorno del sociale sono almeno pari a quelli di
ottimismo. Pesa però sul piatto dell’ottimismo la forza delle posizioni assunte nel
dibattito pubblico, non solo scientifico, da voci molto autorevoli. La prospettiva con
cui Horton [2020], caporedattore di «The Lancet», ha proposto di usare il concetto di
sindemia anziché quello di pandemia, è emblematica: «The most important consequence of
seeing Covid-19 as a syndemic is to underline its social origins […] Unless governments
devise policies and programmes to reverse profound disparities, our societies will never
be truly Covid-19 secure».
¶{p. 17}