Lavinia Bifulco, Maria Dodaro (a cura di)
Quale welfare dopo la pandemia?
DOI: 10.1401/9788815412003/c1
Parlare di ritorno dello Stato conduce inevitabilmente a occuparsi delle amministrazioni pubbliche, ovunque sottoposte in questi decenni a una riduzione drastica delle risorse e del personale che ne hanno compromesso le capacità di progettazione e innovazione autonoma [Mazzucato e Collington 2023]. Occorre dire che il reclutamento di personale nelle amministrazioni pubbliche è stato assunto come un obiettivo strategico dall’agenda nazionale del dopo-Covid. Però ci si è
{p. 12}orientati principalmente nella riproposizione di quegli stessi modelli neo-manageriali che hanno ampiamente concorso a sterilizzare le capacità innovative delle amministrazioni.
Si tratta di temi molto complessi: impossibile renderne conto in modo esauriente qui. Quel che conta sottolineare è che da questa temporanea messa in sospensione del primato del mercato – dei meccanismi regolativi, cognitivi e istituzionali collegati – sono scaturite situazioni diverse. In alcuni casi c’è voluto giusto un attimo per tornare indietro, per recuperare il passato più o meno prossimo. Le vicende italiane relative al contrasto alla povertà sono in proposito particolarmente significative (Benassi e Busilacchi, infra). In altri casi si intravedono brandelli di un diverso futuro. Questo sembrerebbe (forse) il caso della sanità.

3. Responsabilizzazione

Le dinamiche di responsabilizzazione sono un secondo fronte importante di osservazione. Sin dagli anni Ottanta, l’agenda europea per la politica attiva del mercato del lavoro ha enfatizzato la capacità individuale di adattarsi alle mutevoli esigenze del mercato, diminuendo così l’importanza dei contesti sociali e istituzionali [Daly 2011]. Allo stesso tempo è diventata preponderante l’idea di una responsabilità individuale proattiva per i risultati, indebolendosi in tal modo le ragioni per esercitare una responsabilità collettiva [Borghi 2011]. Ciò è abbastanza evidente nel concetto di occupabilità, che implica essenzialmente una definizione di disoccupazione come risultato di carenze individuali. Di conseguenza, la responsabilità di garantire condizioni adeguate all’accesso all’occupazione tende a ricadere sull’individuo stesso [Bonvin e Laruffa 2018], che deve dimostrare un impegno soddisfacente nella ricerca del lavoro e nello sviluppo delle competenze (Borgna e Romito, infra). Il riferimento più generale è il paradigma dell’attivazione, che permea versanti diversi del welfare in Europa a partire dagli anni Ottanta [van Berkel e Møller 2002]: oltre al lavoro, alla formazione e al contrasto alla povertà – i suoi terreni {p. 13}di elezione – anche l’accesso all’abitazione (Cela, infra) e le misure di inclusione finanziaria. Nelle odierne condizioni di finanziarizzazione – del welfare, dell’economia e della vita quotidiana – la responsabilizzazione tende a saldarsi con il peso crescente della razionalità economico/finanziaria (Caselli, Dodaro e Moiso, infra). Come sottolineano Maman e Rosenhek, è centrale la figura di un individuo che agisce «come un soggetto finanziario responsabile e calcolatore» [2019, 1999].
Con la pandemia, la responsabilizzazione si rivela una chiave centrale per comprendere dinamiche e torsioni sia del welfare, sia più in generale dei sistemi sociali. Si pensi ai modi in cui i discorsi e le decisioni pubbliche hanno diversamente tematizzato, nei differenti contesti geo-politici, il complicato rapporto fra responsabilità individuale e responsabilità istituzionale nel fronteggiamento della situazione pandemica, con una varietà di situazioni che va dalla colpevolizzazione dei cittadini «irresponsabili» all’adozione di approcci repressivi, alla salvaguardia incondizionata delle libertà individuali, passando attraverso impostazioni della relazione Stato-cittadini maggiormente orientate alla interdipendenza delle responsabilità (secondo molti, il caso della Germania). Questo è, comunque, un fronte molto ambiguo del miscuglio fra vecchio e nuovo collegato alla pandemia. Infatti, sicuramente da un lato hanno guadagnato terreno le dinamiche di iper-responsabilizzazione che attraversano da tempo e trasversalmente le società contemporanee [Beck 1992], assumendo per lo più un registro moralistico o moralizzante. Di fatto, la traduzione del fronteggiamento del rischio pandemico in termini di adozione di «buoni» comportamenti individuali è stata centrale nei discorsi che hanno accompagnato l’adozione delle misure di lockdown in Italia. Dall’altro lato, sono rilevabili processi che vanno in altre direzioni. Ne accennavamo prima, a proposito dell’allentamento del rapporto fra assistenza e lavoro legato all’adozione di sostegni economici di tipo non condizionale: la povertà durante la pandemia non è una colpa. Più precisamente: diventa evidente che la povertà è una questione sociale, che chiama in causa fattori e risposte sociali.{p. 14}

4. Desocializzazione e risocializzazione

Si potrebbe dire, da questo punto di vista, che la pandemia ha riaperto la stagione della socializzazione del welfare.
Abbiamo rilevato, altrove, molti segnali di una tendenza alla dilatazione e contemporaneamente alla perdita di salienza del dominio «sociale» nel welfare [Bifulco 2017]. La numerosità dei tentativi fatti per definire che cosa debba intendersi per innovazione sociale, economia sociale, impresa sociale ecc. testimonia quanto siano diventati prevalenti gli usi generici e allusivi del concetto stesso di «sociale» via via che si è esteso il suo perimetro di applicazione. Ciò segnala una dinamica di sterilizzazione delle cornici interpretative e regolative che storicamente hanno lavorato alla traduzione dei problemi individuali in problemi sociali. Si riflettono in questa dinamica da un lato la svalutazione della dimensione istituzionalmente mediata della vita sociale – la celebrazione dell’immediatezza, il mito del fai da te, la moralizzazione del legame sociale –; dall’altro lato l’avanzata dei processi di mercificazione [ibidem].
Sociale è, in ogni caso, un concetto ampio e sfrangiato, che va perciò contestualizzato. Nell’ambito sanitario, parlare di sociale significa parlare dei fattori sociali che concorrono a determinare le condizioni di salute o malattia delle persone (i cosiddetti determinanti sociali di salute [Marmot 2016]). In questi termini, sociale si contrappone a – e prova a superare – il tradizionale primato del modello clinico, fondato sulla riduzione delle condizioni di salute e di malattia a variabili strettamente organiche e individuali. Nell’ambito economico, da Polanyi in poi sociale indica ciò di cui l’economia stessa è intrisa (l’embeddedness), a smentita degli assunti su cui si basano le teorie economiche mainstream. Su questo, sono preziose anche le analisi di Bourdieu a proposito della natura intrinsecamente sociale dei processi attraverso cui l’economia (più precisamente, un modello specifico di economia) si è costituita come campo specializzato. Nella sfera europea, sociale rimanda alle finalità di solidarietà, coesione, inclusione che dagli anni Ottanta in poi hanno trovato spazio nelle agende sovranazionali, {p. 15}giustapponendosi alle finalità di crescita economiche con equilibri – bisogna dire – spesso incerti e problematici. Nell’operatività quotidiana e nell’esperienza diretta di chi lavora nei servizi, sociale è spesso associato a processi di marginalizzazione. Da un punto di vista più astratto, sociale indica ciò che azioni e politiche per la protezione sociale riescono – eventualmente – a creare, aggregare, consolidare in termini di legami sociali o societari. Sociale rimanda poi, ovviamente, allo sviluppo storico delle diverse forme di welfare state e, da Marshall in poi, fa riferimento a un rapporto di appartenenza alla collettività basato su specifici diritti di cittadinanza. Al fondo, il principio guida stesso dei welfare è la denaturalizzazione o, in senso positivo, la socializzazione dei bisogni, dei rischi, in generale delle condizioni da cui dipendono il ben-essere e il mal-essere delle persone e le possibilità di attuare un progetto di vita indipendente al riparo dall’alea del mercato [Castel 2004]. Proprio questa accezione specifica di sociale – e la storia attraverso cui ha preso forza – sembra aver perso salienza a vantaggio di usi più estensivi. Questo non è in sé problematico e va considerato come uno dei portati dell’esperienza stessa che le società hanno fatto e fanno dei welfare state, e della molteplicità dei parametri normativi a essi sottesi. Però vanno fatte alcune distinzioni di tipo analitico.
Più precisamente, vanno distinte vie basse e vie alte del sociale. Una via bassa è quella che relega il sociale alla sfera del bisogno, perimetrata secondo i criteri tipici delle misure means-tested. Questa modalità, coerente con gli approcci residuali, tende a escludere sia l’equivalenza fra universalismo e cittadinanza sociale – empiricamente data in alcuni contesti – sia questioni di agency e poteri. Si tratta del sociale come deficit da colmare, di norma attraverso interventi che tendono a confermare le condizioni di dipendenza delle persone, anche laddove – o proprio laddove – l’enfasi viene posta sulla necessità di attivarsi, di essere autonomi [Sennett 2004]. Una via bassa è anche quella che ratifica l’ancillarità del sociale rispetto all’azione economica, facendone uno strumento di maquillage o di «social-washing» che valorizza l’ibridazione fra logiche solidaristiche e logiche di mercato {p. 16}allo scopo di aumentare le opportunità di estrazione di valore. Vie basse sono quelle che hanno fatto del sociale un campo di istituzionalizzazione di saperi specialistici e di competenze professionali strutturalmente restie a integrarsi con altre competenze.
Vie alte sono quelle in cui è all’opera un qualche processo di capacitazione delle persone, nel senso proposto da Amartya Sen: libertà sostantive di scelta, che includono la possibilità di far sentire la propria voce nei processi decisionali. Quando la scelta riguarda opzioni predeterminate, secondo Sen non c’è vera libertà. La libertà che conta, infatti, è quella di agire come cittadini la cui voce ha un peso «piuttosto che vivere come vassalli benvestiti, ben pasciuti e intrattenuti» [Sen 1999, 288]. Vie alte sono dunque quelle in cui la socializzazione messa in atto dal welfare lavora congiuntamente con la democratizzazione dei processi decisionali. Ancora, se e quando gli approcci integrati e sistemici prevalgono sugli approcci specialistici, possiamo dire che si tratta di vie alte che restituiscono al sociale la sua complessità. Vie alte, infine, sono quelle in cui il sociale non è trattato come un dominio tecnico ma è riconosciuto come un dominio politico, in cui si confrontano opzioni e questioni, a cominciare dalla questione di cosa fare rispetto alle situazioni di vulnerabilità e disuguaglianza che la pandemia – insieme ad altri fattori di crisi – ha accresciuto.
Che oggi le situazioni concrete non mostrino dinamiche univoche al riguardo è quasi un’ovvietà. Altrettanto ovvio che i motivi di pessimismo rispetto a un ritorno del sociale sono almeno pari a quelli di ottimismo. Pesa però sul piatto dell’ottimismo la forza delle posizioni assunte nel dibattito pubblico, non solo scientifico, da voci molto autorevoli. La prospettiva con cui Horton [2020], caporedattore di «The Lancet», ha proposto di usare il concetto di sindemia anziché quello di pandemia, è emblematica: «The most important consequence of seeing Covid-19 as a syndemic is to underline its social origins […] Unless governments devise policies and programmes to reverse profound disparities, our societies will never be truly Covid-19 secure».
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