Quale welfare dopo la pandemia?
DOI: 10.1401/9788815412003/c10
Capitolo decimo
Giovani, welfare e lavoro di Anila Alushi
Notizie Autori
Anila
Alushi è assegnista di ricerca presso l’Istituto di Comunicazione e Media
Studies dell’Università di Lipsia. Si occupa delle politiche di transizione giovanili e dei
processi di trasformazione del welfare e del lavoro con particolare attenzione alla
dimensione locale e multiscalare. Attualmente lavora al progetto di ricerca europeo
AUTO-WELF: Automating Welfare – Algorithmic Infrastructures for Human
Flourishing in Europe.
Abstract
In questo capitolo lʼautrice indaga più in profondità lʼidea di riconcettualizzazione della scuola quale «servizio» finalizzato a promuovere le competenze e l’occupabilità degli studenti. Vengono quindi discussi i limiti delle politiche di welfare rivolte ai giovani, concentrandosi sulla ridotta penetrazione dellʼinvestimento sociale nellʼagenda nazionale ed evidenziando l’importanza dell’istruzione e della formazione di competenze come investimento nel capitale umano.
1. Introduzione
Il welfare italiano si caratterizza
per la forte debolezza e frammentazione delle politiche rivolte ai giovani (Cela,
infra). Per quanto riguarda le transizioni scuola-lavoro, si
tratta di processi incerti e altalenanti con percorsi che dipendono fortemente dalle
condizioni della famiglia d’origine. Le politiche per la transizione giovanile, infatti,
non costituiscono una componente strutturale del welfare [Mesa 2015], anche come
riflesso di un sistema produttivo poco innovativo e caratterizzato prevalentemente da
circuiti privatistico-familiari. Inoltre, le situazioni di perdurante precarietà e
difficoltà di ingresso nel mercato del lavoro ostacolano i giovani nell’accesso alla
protezione sociale [Ghailani et al. 2021], con problematicità
evidenti dell’agency giovanile che si confronta con meccanismi
strutturali e normativi che impediscono i processi di transizione alla vita adulta [De
Luigi, Martelli e Rizza 2014].
Diversa è l’agenda europea, dove le
politiche per la transizione giovanile scuola-lavoro occupano un posto strategico, in
collegamento con l’idea che queste politiche vanno considerate come un importante
investimento verso l’età adulta. Ciò ha portato alla definizione di programmi e linee di
policy volte a migliorare l’accesso all’istruzione, alla
formazione per promuovere l’occupazione giovanile e l’inclusione sociale soprattutto nel
periodo post crisi finanziaria. Il caso più noto è l’iniziativa Garanzia
giova¶{p. 176}ni lanciata nel 2013 e rinforzata nel 2020
[1]
. In generale, gli obiettivi dichiarati in tema di politiche per giovani e
transizioni giovanili si possono riassumere in cinque punti chiave:
a) riduzione della povertà e dell’esclusione sociale tra i
giovani, fornendo loro le competenze e le opportunità necessarie per l’integrazione nel
mercato del lavoro; b) rafforzare il capitale umano investendo
nell’istruzione, nella formazione professionale e nelle opportunità di lavoro per
aumentare la produttività e la crescita economica e sviluppo, e ridurre la necessità di
programmi di protezione sociale; c) migliorare la coesione sociale
riducendo le disuguaglianze e promuovendo le pari opportunità per tutti i giovani;
d) affrontare le sfide demografiche e garantire un ricambio
generazionale essenziale per il funzionamento del welfare; e)
sostenere l’imprenditorialità tramite programmi per i giovani che desiderano avviare
un’attività in proprio.
Il Covid-19 ha reso più evidenti i
problemi da affrontare in questo quadro, soprattutto in quei paesi come l’Italia che
sono stati i più colpiti sia dalla grande recessione che dall’emergenza sanitaria. Come
è noto, Next Generation EU, in continuità con gli altri programmi
europei, è finalizzato a facilitare l’aumento degli investimenti pubblici e a
incentivare lo sviluppo e la realizzazione dei Piani nazionali di recupero e resilienza
(PNRR) degli Stati membri. Questo ha messo sul tappeto, soprattutto per il contesto
italiano, il problema di investire nell’istruzione, nella formazione e nello sviluppo di
competenze, favorendo le scienze e le tecnologie digitali; di ridurre il tasso di
abbandono scolastico; di migliorare il livello di istruzione terziaria [Guillen, Leon e
Pavolini 2022].
Il capitolo si concentra
sull’investimento sociale come paradigma che in Europa ha rilanciato l’agenda
dell’istru¶{p. 177}zione e delle transizioni scuola-lavoro. Facendo
riferimento alle linee strategiche che orientano diversi programmi, ne vengono
evidenziati i pilastri principali, a partire dall’importanza dell’istruzione e della
formazione di competenze come investimento nel capitale umano. Parallelamente, vengono
messi a fuoco i principi normativi e cognitivi che, in collegamento con l’investimento
sociale, orientano le politiche per la transizione, focalizzando l’attenzione sulle
politiche attive del mercato del lavoro che stanno ridefinendo e riorientando il
welfare, le condizioni di lavoro e l’accesso al sistema di istruzione e formazione
professionale. Come si vedrà, il caso italiano rivela in questo quadro due aspetti
principali: sia la limitata penetrazione dell’investimento sociale nell’agenda nazionale
– e il conseguente debole e frammentato investimento istituzionale –; sia la tendenza a
tradurlo nei termini più restrittivi dal punto di vista degli effetti di uguaglianza e
giustizia sociale.
2. Welfare state come investimento sociale
L’investimento sociale è stato
introdotto come prospettiva di policy alla fine degli anni Novanta.
Alla sua base vi è la rilevanza attribuita al welfare state rispetto alla promozione di
politiche sociali «produttive», e l’individuazione di un legame tra protezione sociale e
crescita economica [Bifulco 2017]. Il welfare, perciò, non è più considerato come un
costo sociale e un ostacolo allo sviluppo economico, ma acquisisce un ruolo positivo di
promozione, stimolo e coordinamento: l’attore pubblico diviene in questo modo un vettore
di crescita economica [OECD 1997; Esping-Andersen et al. 2002;
Palier 2013]. La nozione di investimento sociale ha guadagnato spazio come prospettiva
nell’agenda pubblica per affrontare le sfide strutturali in modo integrato [Morel,
Palier e Palme 2012; Hemerijck 2013] e tra le organizzazioni internazionali (EU, OECD,
World Bank) che hanno lanciato negli anni recenti le agende della sostenibilità. Come
sostiene Laruffa [2017] tra le caratteristiche essenziali di questo modello vi è la
promozione della partecipazione al mercato del lavoro
¶{p. 178}attraverso l’attivazione e l’investimento nel capitale umano.
Le politiche educative sono di conseguenza considerate elementi centrali [Kazepov e
Ranci 2016].
L’idea centrale è che le politiche
sociali dovrebbero mirare a «preparare» la popolazione a prevenire alcuni rischi sociali
ed economici associati al cambiamento delle condizioni di lavoro e dei modelli
familiari, e a ridurre al minimo il trasferimento intergenerazionale della povertà,
piuttosto che a «riparare» attraverso il mantenimento passivo del reddito dopo che il
rischio si è verificato [Morel, Palier e Palme 2012, 9]. Questo approccio assume,
quindi, che l’aumento della partecipazione al mercato del lavoro aumenti la
competitività economica, e che gli sviluppi tecnologici possano contribuire alla
creazione di un mercato del lavoro di competenze di alto livello, per far fronte alla
«knowledge-based and service-oriented economy» [Chevalier e Palier 2022]. In questa
prospettiva il welfare deve agire sulla qualità dell’offerta di lavoro secondo una
visione rivolta ai ritorni futuri della spesa sociale.
È in questa prospettiva che le
conoscenze e le competenze vengono fortemente al centro quando si tratta di comprendere
le esigenze del mercato del lavoro e i risultati dell’istruzione per preparare la
transizione dei giovani. Un ruolo cruciale viene coperto dallo Stato che deve fornire le
risorse per facilitare «l’attivazione» con nuovi programmi di istruzione e formazione
professionale. Di fatto, l’ampio spostamento verso il paradigma dell’attivazione in
Europa viene spesso giustificato in termini di una riconsiderazione dell’importanza del
lavoro e dell’abbandono dell’idea di un one-size-fits-all a favore
di un sistema più individualizzato ed efficiente. Come ha dimostrato un’ampia
letteratura, l’orientamento delle politiche sociali verso l’attivazione si basa sui
valori del mercato che individualizza sempre di più i rischi sociali e le responsabilità
sviluppando interventi e strumenti basati principalmente sulla prevenzione e la
condizionalità dell’accesso ai benefici e alle misure sociali. Ne segue che l’obiettivo
principale dell’investimento sociale non è quello della compensazione dei danni causati
dal mercato, ma si riduce a dotare i cittadini, con un forte investimento
¶{p. 179}sui giovani, di skills che permettano di
adattarsi meglio al mercato [Laruffa 2016; 2018] per far fronte a rapporti di lavoro più
eterogenei, flessibili e precari che richiedono, dall’altra parte, una gamma di
prestazioni di welfare altrettanto differenziata.
Questo orientamento verso le
politiche sociali che puntano più sulla «prevenzione» che sulla «protezione» ha una
connotazione ambigua e nessi altrettanto ambigui con le logiche neoliberiste, correndo
il rischio di rafforzare la necessità di forme di prevenzione individuali di fronte ai
rischi sociali. Una tendenza contrapposta ai discorsi sul paradigma della prevenzione
che risalgono al periodo degli anni Sessanta e Settanta. Le pratiche e gli interventi di
quegli anni che si istituzionalizzano poi nei decenni successivi, come viene riportato
da Pitch [2008, 40-41, cit. in Borghi 2013] evidenziano come siano le «istituzioni a
farsi carico della prevenzione, piuttosto che gli individui, ed essa si indirizza verso
rischi considerati sociali».
Nel tentativo di superare la
contrapposizione tra politiche sociali passive e attive, più di recente Anton Hemerijck
[2017] ha elaborato un’euristica concettuale della politica di investimento sociale
attorno a tre funzioni chiave del welfare: a) promuovere lo
sviluppo dello «stock» di capitale umano lungo tutto l’arco della vita per sostenere una
continua qualificazione del lavoro; b) agevolare il
flow delle transizioni con politiche attive del lavoro, cura e
conciliazione; infine, c) garantire i buffers,
ammortizzatori di protezione sociale inclusivi, nei momenti di bisogno.
Una parte importante del dibattito
ha messo in luce in modo critico gli aspetti normativi e valoriali cui l’investimento
sociale fa riferimento in tema di giustizia sociale e uguaglianza. L’istruzione, come si
diceva, è il fulcro dell’approccio. In linea con questa prospettiva, anche gli studi
comparativi sul welfare incorporano il sistema dell’istruzione come aspetto cruciale
delle politiche sociali e parte del welfare state [Busemeyer e Nikolai 2010]. Infatti,
gli interventi su istruzione e formazione possono rappresentare una politica molto
vantaggiosa per il bilancio pubblico che si autofinanzia nel tempo generando effetti
positivi per l’intera economia [Hendren e
¶{p. 180}Sprung-Keyser 2020].
Ma come afferma Wilensky [1975, 3] «l’istruzione è speciale». Infatti, non è una
politica sociale direttamente redistributiva, ma segue un diverso principio di giustizia
sociale: l’uguaglianza di opportunità. Inoltre, a causa dei condizionamenti delle
strutture occupazionali e dell’influenza esercitata dal background familiare e sociale,
l’investimento nell’istruzione può produrre risultati differenziati in termini di
disuguaglianza e partecipazione al mercato del lavoro [Checchi et
al. 2014]. Questo emerge anche dagli studi più recenti di Franzini e
Raitano [2019] che evidenziano come il peso delle disuguaglianze a parità di competenze
rimane elevato nel contesto italiano. Secondo Granaglia [2022] la ricerca di uguaglianza
di opportunità per quanto riguarda la partecipazione alla pari nel mercato spinge a
riconoscere l’importanza degli investimenti in istruzione e formazione, come sostegno
per i giovani più svantaggiati, per evitare l’esclusione dal mercato del lavoro e
offrire opportunità nelle condizioni di (ri)partenza. Tuttavia, l’investimento
nell’istruzione non garantisce né un lavoro, né un reddito all’interno del mercato del
lavoro perché ci sono delle opportunità che il mercato può offrire solo in parte, solo
in presenza di determinate politiche, oppure è del tutto incapace di garantire
[ibidem].
Note
[1] A luglio 2020 la Commissione ha presentato una nuova Comunicazione «Sostegno all’occupazione giovanile: un ponte verso il lavoro per la prossima generazione» [European Commission 2020], tesa a rafforzare la Garanzia Giovani con l’attenzione alle risorse strumentali per raggiungere in modo più efficace i giovani Neet appartenenti a gruppi sociali più vulnerabili per compensare il sistema di scrematura degli interventi rivolti ai giovani più «attivabili».