Quale welfare dopo la pandemia?
DOI: 10.1401/9788815412003/c6
Capitolo sesto Periferie re-inventate. Immaginari post-pandemici e
trasformazioni urbanedi Michela Voglino e Simone Tosi
Notizie Autori
Michela
Voglino è dottoranda in URBEUR – Studi Urbani presso l’Università degli Studi
di Milano-Bicocca. I suoi interessi di ricerca intersecano la sociologia urbana ed
economica. Si occupa di trasformazioni urbane, mercato immobiliare e piattaforme digitali.
Notizie Autori
Simone
Tosi è docente di Politiche urbane presso l’università Milano-Bicocca. Si occupa
di governo del territorio, di trasformazioni della città, di movimenti sociali
urbani e di politiche culturali. Tra le sue pubblicazioni recenti,
Distanziamenti e capitale sociale in smart working (con
S. Bertolini), in «Meridiana», 2022; Cultural Stadi. Calcio, città,
consumi e politiche (2018).
Abstract
In questo capitolo viene affrontato il tema delle diseguaglianze territoriali in rapporto ai corrispondenti divari sociali, utilizzando come prospettiva di osservazione le rappresentazioni delle periferie e delle politiche inerenti. Da tempo considerati come indicatori del disagio e della marginalità, questi spazi urbani sono stati oggetto, durante la pandemia, di nuove riflessioni, che si sono però rivelate inefficaci per la soluzione dei problemi sociali che li affliggono.
1. Introduzione
I lockdown pandemici del 2020 hanno
ispirato un acceso dibattito sulla vita urbana, interrogando le forme e gli stili di
vita della città in generale, e quindi anche della periferia. Il tema della periferia
contemporanea è da tempo oggetto di discussione tanto nel dibattito mediatico quanto in
quello politico e accademico. Il passaggio dalla città fordista a quella postindustriale
ha in effetti mutato, in senso peggiorativo, il significato della periferia. Le
politiche urbane hanno cercato negli anni di rigenerarla, alludendo alla volontà di
re-inventare ciò che sta sotto il nome «periferia». L’esperienza della stanzialità
imposta dalle normative per il contenimento del Covid-19 ha riacceso i riflettori su
questi spazi. Sono emersi nuovi discorsi e modelli di sviluppo urbano che propongono
«soluzioni» apparentemente nuove, come l’ormai nota «Città dei 15 minuti», in cui lo
stesso concetto novecentesco di periferia, intesa come qualcosa di altro rispetto al
centro, sembrerebbe svanire definitivamente lasciando posto all’idea più generica e meno
connotata di quartiere.
Questo capitolo si concentra sul tema
della periferia contemporanea e delle politiche che agiscono su di essa alla luce del
dibattito sulla città post-pandemica. Dopo una breve introduzione sull’ambivalenza
semantica che la periferia ha assunto nella città contemporanea, verranno illustrate le
linee del dibattito politico e mediatico scaturito dall’esperienza urbana del 2020. Si
illustrerà poi una specifica politica di rigenerazione urbana, Reinventing
Cities, che si è sviluppata ¶{p. 104}sia nel periodo pre-
che post-pandemico. Guardando al caso di Milano, l’analisi di questa
policy permette di riflettere sul nesso tra la rigenerazione
urbana, la questione della periferia e la sua relazione con la città, e, in una
prospettiva diacronica, sull’esperienza pandemica come fattore di continuità o
discontinuità nei processi di trasformazione urbana.
2. Il complicato tema delle periferie urbane
La periferia è definita in modi
variabili nel tempo, in ragione dell’idea complessiva di città e del quadro ideologico
che caratterizza i contesti sociali in un dato momento [Petrillo 2013]. Nella città
novecentesca le periferie erano spazi che potevano assumere diversi significati. Da un
lato esse apparivano come spazi di riserva che non rientrano stabilmente nello scenario
urbano, come non facessero davvero parte della città. In questo senso, erano al più
spazi di servizio su cui si appoggiava l’edilizia di seconda (o terza!) scelta per
persone non ancora pienamente parte del panorama cittadino. Sia le periferie nate
attraverso la costruzione autonoma di case da parte di nuovi aspiranti cittadini – le
Coree milanesi piene di «terroni» e veneti descritte da Alasia e Montaldi [2010] – che i
caseggiati prodotti da ampi programmi di edilizia popolare pubblica con standard edilizi
minimi erano territori destinati a ospitare in via transitoria i
newcomers in cerca di cittadinanza urbana e operaia: presto la
fabbrica avrebbe dato il necessario lavoro e l’accesso a case migliori. D’altra parte,
queste periferie erano anche il luogo della concentrazione della classe operaia, spazi
simbolo del progresso architettonico, dello Stato sociale e della lotta di classe, parte
di un progetto sociale destinato a un futuro migliore – si pensi alla lettura
pasoliniana – che guardava all’integrazione progressiva delle classi meno abbienti nella
società moderna [Petrillo 2018].
I cambiamenti economici, politici e
sociali della fine del Novecento hanno profondamente mutato lo sguardo su questi
territori, che hanno nel tempo perso ogni accezione progressiva per rimanere solo
l’indicatore spaziale di ¶{p. 105}un disagio fatto di distanza dal
centro, carenza di servizi e infrastrutture, ritardo nell’integrazione, tensione
sociale, senso di emarginazione. Persino la periferia che si era delineata sullo stile
dell’American way of life, riproponendo una variante del
sobborgo di villette a schiera ai margini della città, è ormai indicatore di un ceto
medio anch’esso in declino [ibidem].
La città contemporanea che emerge
dalle ceneri della crisi fordista sembra voler dimenticare, rinnegare e trasformare
tutto ciò che era stata in epoca industriale: non più grigia, produttiva, «noiosa», la
città oggi dev’essere «creativa, interessante, bella» [Zukin 2013, 248]. Esemplificativi
di questo cambiamento sono i progetti di rigenerazione fisica dei vuoti industriali che
sostituiscono il vecchio skyline fordista con nuovi musei, edifici di lusso, uffici
dirigenziali e architetture iconiche: sono gli hallmarks della
città postmoderna, dedita al consumo e al turismo, nella rinnovata centralità nella
terziarizzazione dell’economia.
Questa profonda trasformazione del
paesaggio urbano è l’effetto del processo di ri-urbanizzazione, grazie a politiche
locali imprenditoriali e competitive, dei flussi di capitale che avevano abbandonato le
città fordiste all’inizio della globalizzazione. Si innesca quindi una nuova modalità di
sviluppo urbano, che non procede più, come tradizionalmente, per dinamiche espansive con
produzione continua di periferie: il target dell’estrazione della rendita contemporanea,
coerente con la marketizzazione che ha permeato la gran parte dei settori di
policy (Bifulco e Dodaro, supra), è la
riconversione a usi più redditizi e prestigiosi degli spazi interni alla città esistente
[Tocci 2010]. La trasformazione dell’ex stabilimento Pirelli nel nuovo quartiere
universitario Bicocca, a opera dello stesso gruppo industriale evolutosi in Pirelli Real
Estate, è emblematica del cambio di paradigma della città postfordista e della
finanziarizzazione dell’economia urbana.
In questo contesto, le periferie
novecentesche si presentano come «un patchwork senz’arte» [Petrillo 2018, 27] di luoghi
complessi e diversificati tra loro. Il massiccio ritorno di capitali verso le zone
centrali ha inizialmente bypassato le periferie residenziali, oggetto di una «lenta
decomposizione» ¶{p. 106}[Wacquant 2016, 37] all’origine del racconto
mediatico in termini di povertà, degrado, inquietudine, pericolo. L’aspetto spaziale
intrinseco della periferia – il suo essere altro e
fuori dal centro – rimanda oggi a una marginalità sociale,
prima ancora che geografica. Se si è persa l’ambivalenza della periferia novecentesca,
ancora non si è giunti a una definizione condivisa su quella contemporanea. Anzi, la
retorica della «città a due velocità» rafforza la prospettiva peggiorativa e la visione
complementare della periferia come spazio sprecato, «materiale» non adeguatamente messo
a profitto nel vortice della città della rendita. Ancora una città a due
velocità: periferie in attesa, intitola recentemente un articolo del
«Foglio» su Milano [Villois 2023], esasperando l’idea di dover trasformare e, in un
certo senso, superare le periferie. Esse devono uniformarsi al paesaggio urbano
spettacolarizzato del nuovo centro: la città contemporanea accarezza il sogno della
scomparsa della periferia.
Rigenerare la città. Le
periferie al centro è il titolo di una delle strategie dell’attuale piano
regolatore di Milano esemplificativo del «pregiudizio metafisico di tipo centralista ed
emanatista, […] illuministico» [Petrillo 2013, 19-20] che impregna il discorso
contemporaneo sul tema della periferia. La logica della città policentrica mette
totalmente in discussione la forma urbana funzionale e gerarchica del Novecento: nella
più ampia ristrutturazione della città che ancora chiamiamo post-qualcosa che
era stata, la questione della «post-periferia» resta accesa. Addentrarsi
nel tema delle politiche e della periferia implica dunque guardare ai margini urbani
all’interno della prospettiva più ampia della città postfordista. Infatti ci si rende
presto conto che «dietro il problema della definizione [di periferia] si cela
un’incertezza generalizzata su cosa sia città oggi» [ibidem, 9].
3. Ripensare la città post-pandemica
Un dibattito sulla città
contemporanea è esploso a partire dai lockdown pandemici del 2020 che hanno costretto
milioni di persone alla stanzialità nella propria casa e nel
¶{p. 107}proprio isolato. Questa situazione straordinaria ha diffuso «in
città» uno sguardo che forse come mai prima ha scrutato con tale attenzione gli spazi
urbani, nutrendo una riflessione generale sui modelli abitativi, i luoghi di lavoro, le
relazioni sociali e la loro traduzione spaziale, al di là dell’ascesa della mediazione
di tecnologie e piattaforme digitali.
Il dibattito extrascientifico ha
mobilitato argomenti vari. Da una parte è stato enfatizzato lo svuotamento dei centri
urbani. I luoghi della folla turistica sono tornati alla loro purezza: Venezia e Firenze
come non le si era mai viste! Dall’altra vecchi borghi che attendevano solo di essere
definitivamente abbandonati hanno visto nuove ondate di abitanti grazie all’inedita
geografia dello smart working. E i quartieri di uffici della città
terziaria sono risultati improvvisamente sovradimensionati e parzialmente svuotati.
In questo dibattito anche le
periferie hanno avuto alcune specifiche attenzioni. I loro abitanti sono emersi come
soggetti profondamente penalizzati, bloccati dalle restrizioni pandemiche in spazi
domestici rivelatisi piccoli e spesso insufficienti: mura di solitudine che hanno
tuttavia permesso di riscoprire gli spazi condominiali e gli spazi pubblici, troppo
spesso carenti, poco curati e scarsamente accessibili. Si è dunque affermata l’idea di
una riterritorializzazione della vita quotidiana al livello del quartiere, scandita da
minori spostamenti, maggiori servizi locali e più capillari spazi pubblici, rinnovando
l’interesse per modelli di città fortemente orientati alla centralità dei quartieri e al
policentrismo.
Sul piano delle politiche e del
dibattito scientifico sono emerse diverse soluzioni finalizzate a rispondere alle nuove
necessità. Si è intensificata la promozione di strutture urbane in grado di supportare
il lavoro a distanza, la socialità all’aperto e il ripensamento degli spazi di
prossimità. Questi ultimi in particolare hanno assunto rinnovata centralità in un
discorso urbanistico post-Covid intrecciato a questioni sanitarie oltreché sociali: una
città più green e sostenibile, votata alla mobilità dolce e agli
spazi accessibili alla cittadinanza, costituirebbe un fattore positivo tanto per
l’ambiente quanto per il benessere individuale e le relazioni sociali, così rarefatte
dal Covid-19 e dalla privazione della prossimità
¶{p. 108}del lockdown.
In questo senso è emersa l’importanza dei cosiddetti «luoghi terzi» – altri rispetto
allo spazio domestico e all’ambiente lavorativo – che sarebbero fulcro della vita
sociale di comunità e di quartiere, quali bar, osterie, parchi [Oldenburg 2001], ma
anche i recentemente moltiplicati spazi di coworking.