Lavinia Bifulco, Maria Dodaro (a cura di)
Quale welfare dopo la pandemia?
DOI: 10.1401/9788815412003/c6
Sul piano delle politiche e del dibattito scientifico sono emerse diverse soluzioni finalizzate a rispondere alle nuove necessità. Si è intensificata la promozione di strutture urbane in grado di supportare il lavoro a distanza, la socialità all’aperto e il ripensamento degli spazi di prossimità. Questi ultimi in particolare hanno assunto rinnovata centralità in un discorso urbanistico post-Covid intrecciato a questioni sanitarie oltreché sociali: una città più green e sostenibile, votata alla mobilità dolce e agli spazi accessibili alla cittadinanza, costituirebbe un fattore positivo tanto per l’ambiente quanto per il benessere individuale e le relazioni sociali, così rarefatte dal Covid-19 e dalla privazione della prossimità
{p. 108}del lockdown. In questo senso è emersa l’importanza dei cosiddetti «luoghi terzi» – altri rispetto allo spazio domestico e all’ambiente lavorativo – che sarebbero fulcro della vita sociale di comunità e di quartiere, quali bar, osterie, parchi [Oldenburg 2001], ma anche i recentemente moltiplicati spazi di coworking.
Anche i luoghi lavorativi, dematerializzati nello smart working, hanno risentito della rarefazione delle relazioni sociali [Bertolini e Tosi 2022]. La perdita della pausa caffè e delle chiacchiere da corridoio hanno accentuato il senso di isolamento e insoddisfazione. Se dunque inizialmente l’home working era stato salutato come una rivoluzione positiva, ammiccando alla fine del real estate terziario, le successive linee delle politiche aziendali e, ancora più, quelle urbane hanno segnalato l’importanza di luoghi di lavoro che garantiscano un certo grado di interazione in compresenza. La geografia del lavoro post-Covid viene infatti più spesso declinata nelle modalità di coworking e near working, caratterizzate da una spazialità «sociale» altra rispetto al tradizionale ufficio o lo spazio domestico e da una migliore conciliazione dei tempi familiari e professionali, accorciando le distanze tra la casa e il lavoro.
L’idea di città che emerge dal Covid-19 pare essere dunque sempre più policentrica, ibrida e «prossima» [Tajani 2021]. Sia nel dibattito scientifico che in quello mediatico, si afferma il modello della «Città dei 15 minuti». Diffusosi a partire dal 2016, entra nelle politiche urbane nel 2019 tra le linee programmatiche della sindaca di Parigi Anne Hidalgo. Il modello prende le mosse da una rivisitazione «più umana» [Moreno 2020] dell’idea di smart city. Si propone di ripensare i grandi agglomerati urbani a partire dalla prospettiva del crono-urbanismo, che pone l’accento sul ritmo della vita quotidiana, e della pianificazione dal basso, attenta alla prossimità spaziale di servizi urbani. Ogni abitante dovrebbe poter raggiungere ciò di cui ha bisogno entro un arco di quindici minuti. Con il dibattito post-pandemico la Città dei 15 minuti diventa una soluzione imprescindibile. Il Summit del network C40 (Cities Climate Leadership Group) provvede nel 2022 all’incoronazione ufficiale del modello, {p. 109}assurto a miglior soluzione auspicabile per la pianificazione urbana anche dall’agenzia delle Nazioni Unite per l’abitare.
In effetti, la Città dei 15 minuti permette di consolidare in un modello urbano esportabile il trend di sviluppo dei quartieri periferici già in atto da tempo. La tendenza al policentrismo aveva già intrapreso il percorso di distribuzione delle infrastrutture urbane su aree decentrate della città. Università, centri culturali e Head quarters avevano ad esempio contribuito a trainare le rivalutazioni di aree precedentemente considerate periferiche e problematiche. A Milano, i quartieri Bicocca, Santa Giulia, City-Life raccontano di questo processo di «espansione del centro», in una dinamica policentrica, che avviene per processi di riqualificazione delle aree periferiche, nuove costruzioni ai margini delle città, o densificazione del già costruito. Si tratta a ogni modo di un movimento profondamente connesso al ciclo di espansione del mercato immobiliare, sia in ambito residenziale che terziario, e ai processi di finanziarizzazione e globalizzazione della città.
Emerge dunque l’immagine di una città in cui le periferie perderebbero ancora di più il loro carattere novecentesco, connesso alla marginalità geografica e sociale e definito in contrapposizione al centro. Anche nella Città dei 15 minuti l’annullamento della dicotomia centro-periferia diventa evidente, lasciando spazio a una definizione di città come insieme di quartieri idealmente autosufficienti.

4. Politiche urbane e (mal)trattamento delle periferie

Nell’ampio dibattito sulla città contemporanea, rinvigorito dalla lunga parentesi pandemica, le periferie rappresentano vestigia di un paesaggio urbano inattuale. Le politiche urbane degli ultimi decenni hanno in effetti trattato le periferie come contesti problematici da rigenerare. La rigenerazione urbana è stata il principio ispiratore delle trasformazioni del tessuto urbano periferico, e in particolare delle aree più vulnerabili, contraddistinte da situazioni di degrado fisico e sociale. Gli interventi di rigenerazione urbana sono stati {p. 110}sostanzialmente improntati ai meccanismi della rigenerazione fisica, economica e culturale [Vicari Haddock 2009].
Inizialmente, gli anni Ottanta e Novanta hanno visto soprattutto interventi di ristrutturazione fisica dei vuoti industriali. Queste trasformazioni erano finalizzate anche all’attrazione di investimenti in grado di favorire la ripresa economica, soprattutto attraverso il mercato immobiliare. Una rigenerazione urbana quindi connessa alla ristrutturazione economica resasi necessaria in seguito alla crisi del modello fordista [Stone 1993]. I quartieri di edilizia residenziale pubblica (ERP) hanno più spesso visto l’attuazione di interventi orientati al cambiamento di un’immagine negativa e stigmatizzante. La sostituzione dei vecchi – e spesso trascurati da decenni di mancati interventi da parte degli enti gestori – caseggiati popolari (vedi: Vele di Scampia) con nuove strutture residenziali erano accompagnati dalla logica della mixité sociale, onde evitare fenomeni di segregazione spaziale dei soggetti vulnerabili.
L’azione pubblica che emerge appare orientata a una normalizzazione della periferia [Bellanger et al. 2018]. I luoghi della città – sia quelli legati all’edilizia residenziale che agli spazi pubblici – sono stati ripensati e trasformati in modo da decomporre e sciogliere i grumi identitari dei loro abitanti, considerati portatori di «problemi sociali», in ossequio a una dilagante idea di decoro urbano assai specifica ed essenzialmente borghese [Pitch 2013]. Ma questa normalizzazione o banalizzazione del paesaggio urbano conduce alla cancellazione fisica della periferia, in quanto panorama, senza tuttavia risolvere – ma semplicemente spostando altrove – i problemi sociali di fondo accumulati in questi territori.
Un ruolo inedito della pianificazione urbana accompagna queste politiche di rigenerazione. L’urbanistica keynesiana era caratterizzata da una pianificazione di ampio respiro, attraverso strumenti come il piano regolatore generale pensati per controllare gli effetti sociospaziali dello sviluppo economico. Oggi invece le politiche urbane e urbanistiche hanno l’obiettivo di promuovere lo sviluppo economico in un contesto globale di crescita ridotta e competizione {p. 111}interurbana [Pinson 2009]. La progettazione della città e le sue linee strategiche diventano strumenti di marketing territoriale funzionali all’attrazione di investimenti economici, di abitanti (ricchi), turisti e ogni altro genere di city users. La pianificazione urbana dunque diventa, da un lato, uno strumento attraverso cui la governance urbana «promuove la crescita o ne contrasta il declino» [Stone 1993, 18], e, dall’altro, rappresenta la convinzione di poter trattare la questione sociale attraverso quella spaziale [Epstein 2013].
Questo slittamento è segnato anche dal cambiamento lessicale della politica, che si rende accattivante per allinearsi ai linguaggi del marketing. L’urban planning, evocativo di centralismo e controllo statale, diventa urban design [Harvey 1993]. La visione di un progetto cittadino di ampio respiro, in una prospettiva unitaria e complessiva, cede il passo a più flessibili progetti localizzati e puntuali. Placemaking, agopuntura urbana, tactical urbanism diventano i nuovi strumenti cui vengono affidate le sorti della città [Lydon, Garcia e Duany 2015].
Tale processo di trasformazione della logica urbanistica, che trae le sue origini dalla crisi delle finanze pubbliche, è oggi promosso anche dagli Stati centrali e dalle loro politiche territoriali. I fondi nazionali e sovranazionali (UE) vengono distribuiti su base competitiva e non più distributiva: le amministrazioni locali partecipano ai bandi per l’erogazione di fondi pubblici presentando progetti urbani, incentrati spesso su determinati quartieri o tematiche [Epstein 2013]. In questo contesto, collegato alla necessità di co-finanziamento delle politiche attraverso il ricorso a fondi di attori privati, nuovi strumenti di urbanistica contrattata permettono l’azione sulla città anche in deroga al piano regolatore. Ciò avviene in Italia dagli anni Duemila con i programmi ministeriali di riqualificazione quali i piani di recupero urbano (PRU), piani integrati d’intervento (PII) o i contratti di quartiere.
Il nuovo approccio imprenditoriale che caratterizza la pianificazione urbana vede anche, sul lato degli attori, il coinvolgimento di attori privati nelle scelte di politica locale. Le città non riescono più a provvedere al proprio {p. 112}finanziamento attraverso i trasferimenti dallo Stato centrale e le politiche urbane si legano sempre più alla disponibilità di investimenti privati. La nuova governance urbana, ora popolata di grandi e piccoli decisori privati che affiancano – e talvolta sostituiscono – le istituzioni municipali, diventa inevitabilmente vincolata al ritorno economico degli investimenti sostenuti.
In questa cornice, le periferie risultano spazi ottimali da cui partire per operazioni di trasformazione urbana in grado di generare alti rendimenti per gli operatori coinvolti. I bassi valori immobiliari della periferia garantiscono a operatori immobiliari e players urbani costi di accesso contenuti a fronte di rendite potenziali ingenti ad avvenuta riqualificazione [Smith 1996].
Se guardiamo alla città di Milano, il quadro appena descritto risulta piuttosto evidente. Gli interventi sulle periferie hanno privilegiato alcuni quartieri che hanno catalizzato gran parte delle risorse a disposizione, conducendo a trasformazioni nette di territori prescelti. Il Piano periferie varato all’inizio della prima giunta Sala, il quale si era dichiarato «ossessionato» dalle periferie, era nato precisamente per coordinare fondi e progetti. Nel 2018 il Piano periferie diventa Piano quartieri: scompare il termine «periferia» e i fondi pubblici subiscono una diluizione verso tutti i quartieri della città, anche quelli non periferici. Tale cambio di paradigma perde l’attenzione specifica sulle fragilità marginali e pare indicare piuttosto una «cruda politica di redistribuzione verso l’alto» [Tozzi 2023, 142], in un contesto in cui gli interventi politici di tipo culturale e sociale sono risultati poco incisivi – se non addirittura elusivi – rispetto ai problemi strutturali della periferia e a un mercato immobiliare sempre più predatorio ed escludente [Faccini e Ranzini 2021].
Ciò che infatti confluisce ininterrottamente verso le periferie milanesi sono gli investimenti immobiliari che, lungo la rotta che va dall’Expo alle prossime Olimpiadi Invernali, continuano a trasformare la città. Soltanto gli scali ferroviari e i siti di Reinventing Cities – oggi tra i progetti pubblico-privati più emblematici – raccontano di circa 1.638.400 mq
{p. 113}che cambieranno il volto del paesaggio periferico milanese, riproponendo, in stile più iconico, la formula residenza-parco-centro commerciale tipica degli interventi privatistici milanesi [Bricocoli e Savoldi 2010].