Lavinia Bifulco, Maria Dodaro (a cura di)
Quale welfare dopo la pandemia?
DOI: 10.1401/9788815412003/c7
In secondo luogo è intervenuta anche una trasformazione più «qualitativa» dei profili dei potenziali beneficiari delle politiche di mantenimento del reddito, poiché a causa della pandemia alcuni nuclei familiari che solitamente erano più al sicuro, sono stati fortemente esposti al rischio di povertà. Per esempio le famiglie con minori, anche con due stipendi – aspetto che un tempo era considerato il miglior
{p. 133}antidoto contro la povertà [Saraceno 2014] – sono state la categoria che ha fatto registrare il più significativo peggioramento delle condizioni economiche durante la pandemia, tra i soggetti vulnerabili [Busilacchi e Luppi 2022]. Questo aspetto è legato a doppio filo a un fenomeno relativamente nuovo per l’Italia, quello della in-work poverty, che durante la fase pandemica è esploso a causa della interruzione di molte attività lavorative, specie nei periodi di lockdown. Più in generale, tutte le figure di lavoratori precari, a scarso reddito e con qualifiche basse hanno risentito più di altri e sono diventati un profilo di beneficiari che chiedeva una risposta delle politiche.
Infine, le condizioni di distanziamento imposte dal lockdown hanno aumentato la vulnerabilità di alcuni gruppi sociali che contavano sulla presenza di reti relazionali per poter far fronte ai propri bisogni: per esempio, al di là di ciò che ha comportato per la socialità dei minori la impossibilità di svolgere la didattica in presenza e dei rischi di aumento della disuguaglianza legata alla didattica online [Ballarino e Cantalini 2020], alcune categorie, in particolare gli anziani non del tutto autosufficienti, non hanno più potuto contare su servizi di cura domiciliare, anche a carattere informale, spesso decisivi per le proprie condizioni socioeconomiche. Da questo punto di vista si potrebbe sostenere che la povertà ha ulteriormente allargato la connessione con altre dimensioni di deprivazione, in seguito alla trasformazione della natura del rischio sociosanitario connessa alla pandemia [Busilacchi 2021].
Dopo aver brevemente riassunto le principali direttrici che hanno contribuito a mutare la domanda di policies sul piano della protezione del reddito, veniamo ora al secondo aspetto, vale a dire la modalità di risposta delle politiche contro la povertà nel periodo della pandemia.
Anche in questo caso possiamo distinguere due aspetti: l’impatto che la pandemia, in termini di vincolo, ha determinato sulle misure di contrasto alla povertà già esistenti e in secondo luogo la necessità di trovare risposte di policy di emergenza per far fronte alla situazione che si era creata.{p. 134}
Per quanto attiene al primo aspetto, va ricordato che quando è iniziata la pandemia nel nostro paese, nel marzo 2020, il RDC esisteva da poco meno di un anno. Ma, sebbene il d.l. 4/2019 del 28 gennaio prevedesse l’avvio della misura dall’1 aprile 2019, in realtà i primi mesi del RDC, come sovente avviene per le nuove misure di policy con una governance complessa, sono stati sostanzialmente mesi di rodaggio, in cui sia sul versante della presa in carico, sia soprattutto su quello dell’attivazione dei progetti individuali si sono registrati molti ritardi [Vittoria 2020; Busilacchi, Gallo e Luppi 2021].
A tale proposito va ricordato che il RDC, rispetto al precedente reddito d’inclusione (REI), ha previsto un significativo appesantimento della fase procedurale delle prese in carico dei beneficiari, sia per l’aumento degli enti coinvolti, come INPS e ANPAL, che per l’aumento di centralizzazione delle piattaforme gestionali delle domande (Gepi e MyAnpal). Ciò ha prodotto un significativo appesantimento delle procedure amministrative che, anche prima della pandemia, hanno richiesto una lunga fase di consolidamento.
In sostanza, la pandemia è scoppiata proprio nel momento in cui la governance del RDC doveva entrare a regime. Il lockdown però interrompe bruscamente questo percorso, sia sul piano sostanziale, poiché in gran parte durante questa fase la pubblica amministrazione limita fortemente il numero di incontri e riunioni non necessarie, che avrebbero potuto facilitare la costruzione delle cabine di regia tra soggetti del territorio per l’avvio dei percorsi di attivazione dei beneficiari, ma anche sul piano formale. Il d.l. 18/2020 sull’emergenza epidemiologica (cosiddetto «Cura Italia») infatti sospende la condizionalità del RDC, sospensione poi estesa dal decreto «Rilancio» (d.l. 34/2020): di fatto i beneficiari non sono più tenuti a rispettare gli obblighi richiesti come condizione per ricevere l’erogazione del trasferimento monetario, vale a dire gli impegni derivanti dal Patto per il lavoro, o alternativamente dal Patto per l’inclusione.
La pandemia rallenta dunque notevolmente la governance del RDC agendo da vincolo, sia per la piena entrata a regime dei complessi meccanismi di gestione delle prese in carico, {p. 135}sia soprattutto per le parti di attivazione del beneficiario, che non sarebbero comunque state possibili stante le condizioni del mercato del lavoro durante i mesi del lockdown.
L’aumento della digitalizzazione in tutta la fase di erogazione del trasferimento monetario, che è ulteriormente incrementata durante il lockdown per l’impossibilità di fissare incontri in presenza con i beneficiari ma anche a causa dello smart working in tutti gli uffici della pubblica amministrazione, si è scontrato con i ritardi tecnologici dell’amministrazione pubblica italiana, la bassa cultura informatica media della popolazione italiana e con il digital divide interno al paese tra diverse regioni [Vesan, Gambardella e Morlicchio 2021].
Al contempo la pandemia funziona anche da opportunità per il RDC, che in questo periodo certamente acquista maggiore centralità e consenso all’interno dell’agenda politica, tanto che nessuna forza politica ne contesta mai l’esistenza né il necessario finanziamento durante il biennio 2020-2021 (queste critiche arriveranno successivamente). È infatti evidente che il rischio di forte diminuzione dei redditi delle famiglie italiane, specie durante i mesi di sospensione delle attività lavorative legate al distanziamento, necessita di adeguate politiche che vengano incontro all’incremento delle condizioni di vulnerabilità.
L’aumento della povertà a causa della pandemia ha infatti portato una crescita molto significativa dei beneficiari, cresciuti del 43% nel 2020 rispetto al 2019 secondo i dati dell’INPS. In generale, come ben segnalato dal Rapporto Caritas (2021), durante la pandemia sono esplose in generale le richieste di aiuti pubblici per evitare condizioni di povertà, specie da parte di utenti (44%) prima non conosciuti dai servizi; allo stesso modo, in questi anni, anche presso i Centri di ascolto Caritas si sono rivolti per la prima volta e in misura maggiore profili di utenti che fino a quel momento si presentavano poco a questi servizi, come le famiglie a doppio (basso) reddito con figli minori [Busilacchi e Luppi 2022].
Anche per questa ragione, unitamente al già esistente RDC, sono state introdotte alcune politiche emergenziali, con lo scopo di proteggere il reddito dei lavoratori e delle {p. 136}famiglie italiane maggiormente colpite dagli effetti socioeconomici del Covid.
In realtà si è trattato di interventi che per gran parte non potremmo includere in senso stretto tra le misure di assistenza sociale, poiché in moltissimi casi non hanno richiesto una prova dei mezzi, ma sono stati genericamente rivolti a tutti coloro che hanno viste sospese le proprie attività lavorative. Si è trattato ad esempio di ammortizzatori sociali e cassa integrazione in deroga, di indennità una tantum di 600 euro per professionisti, lavoratori autonomi, lavoratori agricoli e del turismo costretti a non lavorare, oltre a misure come i buoni spesa per le famiglie in difficoltà, gestiti dai Comuni.
Ma la misura più nota e più significativa per contrastare l’incremento del rischio di povertà durante la pandemia è stata senza dubbio il «reddito di emergenza» (REM), istituito dal decreto Rilancio. Tale misura, finanziata con circa un miliardo di euro, è stata pensata per i nuclei familiari (oltre 2 milioni di persone) che a causa dell’emergenza Covid hanno visto peggiorare le proprie condizioni reddituali e che erano esclusi da tutte le misure già in atto di sostegno al reddito e di contrasto della povertà. Si è trattato di un trasferimento monetario a quota fissa – da 400 euro al mese per persona singola fino a un massimo di 800 euro per i nuclei più numerosi –, della durata inizialmente prevista di due mesi (ma poi prorogata fino a 5), senza la richiesta di alcuna controprestazione e sottoposta a prova dei mezzi (Isee inferiore ai 15.000 euro e patrimonio mobiliare fino a 10.000 euro). Partito piuttosto male, con un basso take-up (41%) a causa della complessità della domanda e della confusione con il RDC nella campagna informativa, nella seconda fase la misura ha raggiunto quasi tutte le famiglie di potenziali beneficiari (626.000 rispetto alle circa 700.000 previste).
Ma quale è stata l’efficacia di tutte queste misure, sia quella già esistente (RDC), sia quelle emergenziali, nel contrastare la significativa perdita di reddito legata alla pandemia e al lockdown?
In generale possiamo affermare che l’impatto delle politiche di contrasto alla povertà è stato molto significativo.
I trasferimenti monetari nel loro insieme hanno infatti coperto in media il 32,8% della perdita da reddito di lavoro {p. 137}e questo effetto è stato molto progressivo rispetto al reddito: la copertura del reddito è andata infatti dal 36,8 allo 0,8% tra il primo e l’ultimo decile di distribuzione del reddito [Gallo e Raitano 2023]. L’effetto dei trasferimenti monetari ha coperto in particolare proprio le famiglie in in-work poverty che, come visto in precedenza, sono state quelle che hanno visto peggiorare in modo più significativo la propria condizione, che dunque sarebbe stata anche peggiore senza questi trasferimenti.
Se guardiamo all’effetto complessivo delle politiche di mantenimento del reddito sul rischio di povertà, l’indice AROP («at risk of poverty») che durante la pandemia è aumentato dal 23,3 al 25,1%, sarebbe aumentato fino al 27,8% in assenza delle misure di contrasto [ibidem]. Mentre sul lato della disuguaglianza l’indice di Gini è rimasto sostanzialmente inalterato, proprio grazie al valore fortemente perequativo di queste politiche [Baldini e Scarchilli 2021].

5. Osservazioni conclusive

Con la sua portata di drammaticità, l’emergenza pandemica ha rappresentato un incredibile stress-test per le politiche pubbliche in generale e per il sistema di welfare in particolare.
In una situazione in cui moltissimi cittadini si sono trovati in condizioni di assenza di reti di supporto, di carenza di reddito e di grande difficoltà a svolgere le più naturali azioni di vita quotidiana, sono emersi con grande chiarezza pregi, difetti e lacune delle politiche sociali e sanitarie italiane, specie per i più vulnerabili. Nello specifico è emersa la grande frammentazione e debolezza delle politiche di contrasto alla povertà, che storicamente in Italia sono caratterizzate da categorialità, discrezionalità e inefficienza tali da non assicurare la garanzia di un diritto al reddito per tutti i poveri, a differenza di quanto avviene nella maggioranza dei paesi europei. Oltre alle gravi conseguenze per la salute, infatti, la pandemia da Covid-19, specialmente in seguito al lockdown di molte attività economiche, ha generato un
{p. 138}significativo aumento della povertà in tutto il paese, rendendo vulnerabili anche categorie che non avevano mai sperimentato tale rischio sociale.
Note