I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/p1
Sullo Scaffale, a ben vedere,
resta a nostra disposizione – ancora prima dei risultati e degli argomenti di
quell’analisi scientifica, che pur mantengono interesse – l’esempio di un approccio
metodologico che merita di essere parimenti portato all’attenzione del lettore di oggi.
Nella rubrica di rassegna della dottrina giuslavoristica pubblicata
annualmente sul già richiamato Giornale il fondatore di questa
rivista riconosce il «raro valore, sia teorico sia pratico», della monografia, in cui
l’a. dimostra la sua «capacità di dominare contemporaneamente gli aspetti di natura
tecnico-giuridica, di politica del diritto, di contrattualistica e di comparazione
giuridica» (Giugni 1987, p. 830); senza dimenticare il costante uso costruttivo dei
riferimenti storici – definito da M.R. nelle prime pagine del volume «un lavoro di scavo
nel passato» (p. 22) – che vengono esposti con precisione, tenendo altresì conto,
laddove necessario, dell’influenza esercitata dalle dottrine economiche
[4]
.
¶{p. 6}
Nell’affrontare l’articolata
problematica legata al salario, M.R. si cimenta, forte di quel metodo interdisciplinare,
con moduli interpretativi diversi da quelli prevalenti, da lui ritenuti parzialmente
insoddisfacenti e dunque da mettere in discussione: non soltanto nel già ricordato
capitolo primo, ma anche nel secondo, dedicato alla nozione e alla struttura della
retribuzione, e nel terzo, riguardante «la difforme realtà normativa (…) coperta sotto
il generico appellativo di automatismo salariale» (p. 210), guardata dall’a. in una
prospettiva di trasformazione della struttura del salario. Sulla valenza monografica
dell’opera così composta, ai dubbi avanzati da Giugni – secondo cui i tre capitoli in
questione presenterebbero un contenuto «non del tutto omogeneo, tanto da apparire come
saggi distinti» – si potrebbe in verità rispondere con le sue stesse parole, laddove
sottolinea come la tesi centrale di M.R. è quella che «difende la funzione della legge
nella determinazione retributiva» (Giugni 1987, p. 830), sotto i numerosi profili
esaminati, ravvisando in questo modo il filo conduttore del volume nella ricerca di
un’adeguata sinergia, per il governo di tale complessa e vasta materia, tra fonti
eteronome e autonome, come chiave di analisi del complesso rapporto tra legge e
contrattazione collettiva, in quegli anni oggetto di tensioni particolarmente forti
[5]
.
Alcuni esempi possono aiutare a
comprendere, senza alcuna pretesa di completezza, la persistente validità, pur nel
mutato contesto, delle riflessioni di M.R., nonché l’importanza e il pregio del metodo
adottato per arrivare a esprimerle.
La «necessità di un diverso
approccio metodologico» nell’analisi, realizzata nel secondo capitolo, dei criteri di
computo delle principali componenti della retribuzione indiretta – ancora nell’ambito
del «complicato gioco di interrelazioni tra legge, autonomia collettiva e opinioni
giurisprudenziali» (p. 118) – viene ad esempio rivendicata da M.R. quando, abbandonato
il piano meramente concettuale e assunta una puntuale prospettiva d’indagine
contrattualistica, prende a riferimento un «arco di tempo sufficientemente ampio (grosso
modo l’ultimo trentennio)» (ibidem) e uno spettro largo di
categorie ¶{p. 7}contrattuali, anche del pubblico impiego, ritenendo
limitata la consolidata tradizione dottrinale di tener conto del solo settore
metalmeccanico (da cui possono poi originare, come mette in guardia l’a., indebite
generalizzazioni). Proprio attraverso una ricostruzione attenta dei dati ricavabili nel
tempo dalla contrattualistica, M.R. analizza le espressioni sintetiche più utilizzate
dai contratti collettivi per la determinazione della retribuzione-parametro e il loro
differente, e talvolta ambiguo, significato nei diversi contratti, «con l’obiettivo di
individuare, anche attraverso l’analisi di singoli problemi, criteri generali di
determinazione della base di calcolo di ciascun istituto» (p. 196)
[6]
.
Sebbene il dibattito dottrinale e i
contrasti giurisprudenziali intorno alla nozione di retribuzione, quanto mai accesi
negli anni in cui l’a. scrive, si siano certamente attenuati dopo il
revirement delle Sezioni Unite della Suprema Corte che nel 1984
ha condotto al superamento del principio di onnicomprensività, divergenze e incertezze
permangono tuttora. Con riferimento al controverso istituto della retribuzione feriale,
ad esempio, M.R. sottolinea già all’epoca la necessità che il cono d’ombra del dettato
costituzionale vada «correttamente inteso come proiettato non solo sulla retribuzione
corrente, ma anche su quella del riposo feriale» (p. 155), e aggiunge, richiamando sul
punto l’ordinamento francese, che dal godimento delle ferie, irrinunciabili, non deve
discendere per il singolo alcun nocumento economico (neanche marginale): sulla base di
queste e altre considerazioni, l’a. avanza in particolare la «preoccupazione politica in
senso stretto, più che di politica del diritto», che la sostanziale liberalizzazione
della nozione di retribuzione, conseguente alla scelta delle Sezioni Unite di reputare
sovrane le sole determinazioni della contrattazione collettiva in materia, assecondi in
verità «un’operazione ermeneutica essenzialmente funzionale all’obiettivo di
contenimento dei costi del lavoro delle imprese» (p. 203 ¶{p. 8}e, in
termini consimili, p. 284 ss.). Il richiamo fatto allora alla
ratio, di sostanziale conservazione del reddito, propria della
retribuzione durante il periodo di ferie è quanto mai rilevante ai giorni nostri, ai
fini dell’osservanza non soltanto del precetto costituzionale, ma anche del diritto
dell’Unione, che garantisce il diritto fondamentale a ferie annuali retribuite, ritenuto
dalla giurisprudenza di legittimità incompatibile con l’eliminazione negoziale di voci
economiche della retribuzione – intesa oggi nella sua nozione europea, ben chiarita
dalla Corte di giustizia – che possa dissuadere il lavoratore dall’esercitare quel
diritto in concreto
[7]
.
Altrettanto (o meglio, ancor più)
acceso, all’epoca in cui M.R. scrive, è il tema dei cd. automatismi salariali –
affrontato dall’a., con un’accurata analisi anche comparata, nel capitolo terzo – e in
particolare delle forme automatiche di adeguamento delle retribuzioni al costo della
vita (la nota indennità di contingenza legata al sistema della scala mobile), che a
partire dalla seconda metà degli anni ’70 il legislatore fa progressivamente oggetto di
pesanti misure restrittive, insuscettibili, per la prima volta nel nostro ordinamento,
di deroghe migliorative da parte della contrattazione. Viene massimamente in risalto in
quelle pagine l’abilità dell’a. di collocare nell’articolata realtà economico-sociale e
di relazioni industriali di quegli anni, e di quelli precedenti, l’analisi,
rigorosamente giuridica, degli interventi legislativi di contenimento della dinamica
delle indicizzazioni e della giurisprudenza (soprattutto costituzionale) relativa al
rapporto tra inflazione e salari. Al di là delle complesse questioni tecniche esaminate
e delle forti criticità puntualmente rilevate, l’a. vuole fare emergere dalla sua
ricerca i nessi tra strutture salariali, struttura della contrattazione collettiva e
azione del sindacato nel rapporto triangolare con le organizzazioni degli imprenditori e
il Governo
[8]
, auspicando in particolare una lettura delle pratiche concertative di allora
¶{p. 9}sulla politica dei redditi, centrali per la gestione delle
dinamiche retributive, «in un’ottica meno legata al contingente e più attenta al domani
delle relazioni industriali» (p. 311). Quest’aspetto viene poi approfondito dall’a. –
una volta ipotizzato l’abbandono della scala mobile e preso spunto da esperienze di
paesi stranieri (in primis dell’ordinamento spagnolo) – delineando
un sistema di protezione del valore reale delle retribuzioni affidato alla
contrattazione collettiva periodica (assistita da una clausola di garanzia da attivare
in caso di divergenza tra inflazione programmata e effettiva) e un più generale modello
di negoziazione dei salari che, con il sostegno della legge (anzitutto grazie a una
normativa sui minimi), permetta che l’autonomia e la libertà delle scelte sindacali in
materia «si esplichino ampiamente a tutti i livelli di contrattazione»,
dall’interconfederale all’aziendale, in coerenza con la propria caratterizzazione (p.
341).
Nel travagliato “domani delle
relazioni industriali” verso cui si proietta M.R. – il nostro ieri e il nostro oggi – si
sono succedute le varie stagioni di intese che ben conosciamo: partendo dall’accordo
tripartito di cessazione del sistema di indicizzazione del 1992 e dal fondamentale
Protocollo Ciampi-Giugni del 1993, che negli anni ‘90 daranno al metodo concertativo il
rilievo auspicato dall’a., per arrivare agli ultimi accordi interconfederali, conclusi
bilateralmente in un contesto molto diverso, ma ancora alla ricerca non tanto di «un
inesistente optimum delle politiche retributive» (p. 341) quanto
piuttosto della soluzione migliore nelle circostanze date, dinamiche inflattive incluse
[9]
. Si tratta di un percorso accidentato, che, avendo origine nel decennio
raccontato da M.R., non può ancora oggi prescindere dall’analisi degli avvenimenti di
quegli anni per poter essere pienamente compreso e proseguito. Altrettanto
imprescindibile pare il ritorno al passato e alla ricerca svolta in questo libro, del
resto, quando si ragiona di un tema, come il salario minimo legale, che l’a. ha
esplorato in modo senza dubbio pioneristico, e sul quale concentreremo ora
l’attenzione.¶{p. 10}
3. La pioneristica proposta d’introduzione del salario minimo legale
Consapevole che occuparsi della
dimensione minima del salario nel contesto di allora avrebbe esposto al «rischio … di
suscitare moti di insofferenza o, fra i più benevoli, sorrisi di compatimento» (p. 19),
M.R. comincia il capitolo interamente dedicato a tale questione esplicitando le ragioni
della scelta controcorrente e ponendo alla radice del «robusto sforzo progettuale»
compiuto per formulare la sua articolata proposta di salario minimo legale un’accurata e
«colta ricostruzione storica transdisciplinare»
[10]
. Il metodo seguito, arricchito da un serio approccio comparatistico, non può
passare inosservato, come abbiamo già evidenziato, tanto meno in giorni come quelli
attuali «caratterizzati da un eccesso di lettura orizzontale e sincronica»
[11]
; il pregio metodologico, che pur accompagna l’itinerario complessivo della
ricerca di M.R., pare comunque assumere particolare rilievo quando è applicato, come
avviene qui, per sostenere una tesi del tutto isolata nel panorama nazionale dell’epoca.
Prendendo le mosse da molto
lontano, M.R. illustra come la richiesta di un intervento statale a garanzia di minimi
salariali emergente in diversi paesi europei nel decennio finale del XIX secolo restasse
stretta entro la tenaglia economico-giuridica costituita, da un lato, dalla legge di
mercato della domanda e dell’offerta e, dall’altro, dalla rigida affermazione del
principio della libertà contrattuale individuale. A suo parere, proprio la diffusa
convinzione che per gli Stati quella della libera «determinazione del salario fosse una
trincea dalla quale non bisognava arretrare» (p. 30) spiega, una volta constatata
l’impossibilità di negare qualunque protezione a fronte delle aberrazioni dello
sweating system pubblicamente denunciate, la scelta comune in
quel periodo a più paesi di intervenire sulle condizioni salariali dei lavoratori
impiegati negli appalti pubblici, in modo tale da fornire almeno una prima risposta
«senza dover mettere in gioco principi consolidati» (p. 31)
[12]
.
¶{p. 11}
Note
[4] Cfr. sul punto le osservazioni di Maresca (1988, p. 383), che elogia la completezza del campo d’indagine.
[5] V., negli anni subito precedenti, la relazione di Treu (1981, p. 9 ss.) alle Giornate di studio Aidlass a Riva del Garda del 19 e 20 aprile 1980.
[6] Già nell’Introduzione M.R. anticipa che nella maggior parte dei casi la contrattualistica individua «parametri di calcolo delle competenze indirette ampiamente “comprensivi”» (p. 11), per poi precisare che dai contratti collettivi esaminati emerge per lo più il «riferimento alla retribuzione individuale concreta, da cui deriva la computabilità nelle competenze indirette di una molteplicità di elementi» (p. 146 ss.).
[7] Come ci ricorda la recente Cass. 11 luglio 2023, n. 19663, in Dejure, che, in funzione selettiva degli elementi da computare, utilizza il criterio della continuità, già eletto da M.R. come il più corretto, dopo aver verificato che ad esso ricorrono gli stessi contratti collettivi (p. 162). V. i numerosi rilievi adesivi alle argomentazioni di M.R. formulati da Corti (2012), spec. p. 494 ss. e 515.
[8] Su tali nessi M.R. tornerà anche negli anni successivi: v. ad es. Roccella (1993a) e Roccella (1993b).
[9] I legami tra passato e presente emergono anche in De Martino (2023).
[10] Entrambe le espressioni sono di Barbieri (2021, p. 78 s.).
[11] In senso analogo Ballestrero, De Simone (2021, p. 21), da cui è tratta la citazione.
[12] Sulle discipline che impongono l’applicazione degli standard contrattual-collettivi nelle attività svolte in esecuzione di appalti pubblici come «versione “debole” della politica del salario minimo legale» (p. 80) l’a. torna poi più avanti, denunciando le eccessive attese riposte su una norma ineffettiva come l’art. 36 St. lav., prototipo di quelle clausole sociali di equo trattamento ancor oggi di problematica attuazione.