Massimo Roccella
I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/p1
Prendendo le mosse da molto lontano, M.R. illustra come la richiesta di un intervento statale a garanzia di minimi salariali emergente in diversi paesi europei nel decennio finale del XIX secolo restasse stretta entro la tenaglia economico-giuridica costituita, da un lato, dalla legge di mercato della domanda e dell’offerta e, dall’altro, dalla rigida affermazione del principio della libertà contrattuale individuale. A suo parere, proprio la diffusa convinzione che per gli Stati quella della libera «determinazione del salario fosse una trincea dalla quale non bisognava arretrare» (p. 30) spiega, una volta constatata l’impossibilità di negare qualunque protezione a fronte delle aberrazioni dello sweating system pubblicamente denunciate, la scelta comune in quel periodo a più paesi di intervenire sulle condizioni salariali dei lavoratori impiegati negli appalti pubblici, in modo tale da fornire almeno una prima risposta «senza dover mettere in gioco principi consolidati» (p. 31) [12]
.
{p. 11}
La convenzione Oil del 1928 sui metodi di fissazione dei salari minimi, sollecitata dall’Inghilterra e con contenuti per l’a. inevitabilmente compromissori, è proiettata da M.R. nel contesto italiano per mettere in evidenza l’imbarazzo del governo fascista nel procedere alla sua ratifica e l’irrilevanza cui essa è condannata dalla retorica sulla pretesa superiorità del «salario minimo corporativo» assicurato dai contratti collettivi a stipulazione obbligatoria e a efficacia generale: anche se in realtà, come si spiega nel volume, al di là della propaganda tale salario costituiva «un tetto, sempre derogabile in peius da successivi contratti, dalle sentenze della Magistratura del lavoro e (in via di fatto) dalle violazioni padronali» (p. 61).
Arrivando all’era repubblicana, l’a. ricorda lo scontro avvenuto in seno all’Assemblea costituente sull’emendamento proposto dalle forze di sinistra per affidare alla legge la determinazione del salario minimo, respinto data la convinzione democristiana dell’opportunità di puntare sul contratto collettivo come strumento sostanzialmente esclusivo di fissazione delle condizioni salariali (in merito v. ora Faleri 2014), col risultato finale della «preferenza per una formula vaga» come quella condensata nell’art. 36 Cost. (p. 63): ove, com’è noto, non sono menzionate le fonti della retribuzione spettante al lavoratore e l’idea della soglia minima è espressa dal principio di sufficienza della stessa rispetto all’obiettivo della «esistenza libera e dignitosa». Della scelta di fondo compiuta dai costituenti a vantaggio della contrattazione collettiva nella garanzia del giusto salario (comunque non preclusiva di sviluppi legislativi in proposito, come viene evidenziato), M.R. sottolinea la continuità con l’ordinamento sindacale fascista, giudicandola «ancora più discutibile se si pensa che, una volta privato del suo carattere autoritario, il modello corporativo perdeva anche il pregio della sua compattezza giuridico-formale» (p. 64).
Quando l’affidamento pressoché assoluto riposto nei contratti collettivi deve fare i conti col mancato adempimento della promessa della loro efficacia generale scritta nell’art. 39 {p. 12}Cost., la questione della tutela del diritto al salario equo di ogni lavoratore si allarga e si complica ulteriormente, aprendosi la strada per «la “soluzione” che … riposa su un’imprevedibile applicazione giurisprudenziale dell’art. 36» (p. 64). Rispetto a questa pseudo-soluzione, pur riconoscendone l’indubbia utilità sul piano sociale, l’a. spende parole piuttosto affilate, considerandola «nulla più che un rimedio-tampone, come tale parziale e deviante» (p. 69) [13]
e denunciandone limiti non trascurabili – in primis il carattere individuale anziché collettivo, cui sono legati l’operatività ex post anziché ex ante e il soggettivismo giudiziario derivante dall’assunzione dei minimi tabellari come semplice parametro di riferimento – che il tempo trascorso da allora ha visto irrobustirsi e moltiplicarsi (come segnaleremo più avanti).
Nello stesso periodo in cui la via giudiziale al salario minimo riceve l’avallo della Cassazione, del resto, un tentativo di valorizzare il ruolo legale in proposito è messo in atto con la presentazione del d.d.l. del 1954 mirante a istituire un salario minimo ispirato al modello francese dello smig. Il progetto firmato dallo stato maggiore della Cgil, tuttavia, precipita rapidamente nell’oblio (da cui riemerge grazie all’accurato “scavo” di M.R.: un risultato per il quale manifestava soddisfazione ancora molti anni più tardi), data la tendenza dominante all’epoca – in fin dei conti anche in quella confederazione sindacale, come documenta l’a. – ad affrontare il problema della garanzia retributiva minima per i lavoratori non coperti da contratti collettivi «nell’ottica dell’erga omnes» (p. 76), attraverso un articolato dibattito destinato a trovare poi sbocco nella legge Vigorelli.
Consapevole di tutte le iniziative legislative in tema di salario minimo avanzate nel dopoguerra, in termini più o meno convinti e convincenti [14]
, e confidando nell’occasione offerta dalle vicende degli anni ’80 di agganciare un progetto in materia all’avvertita esigenza di ripensamento complessivo della {p. 13}politica economica, M.R. presta attenzione alle preoccupanti dimensioni assunte dal fenomeno del sotto-salario, a causa delle pratiche di decentramento produttivo (anche sommerso), della frammentazione del mercato del lavoro e della spiccata ineffettività della contrattazione collettiva a fronte dei cambiamenti intervenuti nella composizione della forza-lavoro, con l’accresciuto peso quantitativo di settori ove l’organizzazione sindacale è debole. Interrogato dalla piaga del lavoro povero, M.R. giudica difficilmente praticabile e comunque non risolutiva la prospettiva dell’erga omnes, dato che resterebbero privi di tutela economica i settori senza copertura sindacale o nei quali i sindacati son così fragili da non riuscire a garantire livelli minimi accettabili, e ritiene inadeguata, per le ragioni già richiamate, la risposta giurisprudenziale basata sull’art. 36 Cost.: da qui la sua proposta del salario minimo legale come «strumento integrativo delle carenze della contrattazione» (p. 95). Beneficiari dovrebbero infatti esserne, come ribadisce anni dopo difendendo la propria tesi di politica del diritto, i «lavoratori “marginali”: intendendosi per tali quelli, in possesso di ridottissime abilità professionali, attivi in aree del sistema economico sottratte, di diritto o di fatto, alla sfera di influenza dei contratti collettivi» (Roccella 1993a, p. 444 s.).
Il salario minimo legale cui pensa l’a. dovrebbe essere «determinato a livello nazionale, intercategoriale e presentare il maggior grado di uniformità possibile per l’insieme della forza lavoro» (p. 87), in linea con le tendenze riscontrabili nei paesi ove già allora era utilizzato come tassello della politica economica pubblica e con una scelta ormai largamente prevalsa nel panorama comparato, ma invece non scontata e oggetto di valutazioni divergenti nel dibattito interno (come vedremo fra breve). In particolare nel disegno dell’a., intenzionato a sollecitare il protagonismo sindacale nella definizione di una nuova politica dei redditi, la misura del salario minimo dovrebbe essere oggetto di concertazione fra le centrali confederali e il governo: chiara è quindi l’opzione di fondo – resa ora obbligatoria dalla direttiva n. 2022/2041, qualora s’intenda ricorrere alla fonte legale – del necessario coinvolgimento in proposito delle organizzazioni di rappresentanza collettiva.
Escluso che il salario minimo legale possa tener conto della situazione familiare del lavoratore, cui occorre provvedere {p. 14}con strumenti più appropriati (come gli assegni familiari), M.R. dimostra di veder lontano quando, dando per scontata la correlazione del nesso fra orario di lavoro e salario minimo, sostiene che quest’ultimo va quantificato con riferimento non solo alla giornata lavorativa standard ma anche alla singola ora, precisando che comunque la misura piena del salario «dovrà essere assicurata a quei lavoratori la cui prestazione part-time sia accompagnata da un obbligo di esclusività imposto dal datore di lavoro» (p. 90 s.): una puntualizzazione, com’è stato osservato (da Bellavista 2021, p. 123), «densa di applicazioni variegate» nell’era in cui proliferano ormai moduli contrattuali molto flessibili e spesso involontari per i lavoratori.
Essenziale per l’a. è poi che il corrispettivo salariale garantito dalla legge sia accompagnato da un meccanismo idoneo ad adeguarne l’importo all’aumento del costo della vita, così da risultare pienamente indicizzato all’andamento dell’inflazione, come impone ora con nettezza la già richiamata direttiva europea, e che sia presidiato da un apparato di controllo in grado di assicurare, in caso di inadempimento, l’effettiva applicazione di sanzioni pecuniarie realmente deterrenti, anche di carattere penale. Su quest’ultimo elemento, ovunque decisivo per «la credibilità delle legislazioni sui minimi» (p. 91), M.R. sviluppa qualche riflessione a partire dalle esperienze straniere, dedicandovi un’attenzione che ancor oggi vale la pena rimarcare, non potendosi ritenere acquisita dal complesso delle proposte legislative sul salario minimo messe in campo di recente (per le quali si rinvia infra).
Il progetto delineato con cura dall’a. quasi quarant’anni fa rappresenta quindi tuttora un’utile bussola, sia per i termini in cui è strutturato, sia per i ragionamenti che lo accompagnano rispetto alle obiezioni avanzabili nei confronti del salario minimo legale, invero con argomenti allora non molto diversi da ora [15]
, e pure circa il contesto nel quale tale istituto dovrebbe inserirsi (senza risultare incompatibile con l’eventuale realizzazione del risultato dell’erga omnes), come chiariremo fra breve proiettandoci sui nostri giorni.{p. 15}

4. Un intervento legislativo a garanzia di salari minimi adeguati: se non ora, quando?

Sebbene il problema dei bassi salari e il fenomeno dell’in-work poverty siano risalenti e affondino le proprie radici, per buona parte, in situazioni già denunciate nel libro di M.R., la rilevanza quantitativa che hanno assunto negli ultimi anni [16]
– con l’acutizzazione della competizione economica su scala globale, delle dinamiche di outsourcing e della segmentazione del mercato del lavoro – spiega come mai di recente il diritto a un salario dignitoso e giusto sia finito al centro della discussione sia accademica che politico-istituzionale [17]
, nel nostro paese ma non solo.
Il contrasto alla povertà lavorativa – povertà pur derivante da un insieme di cause tra cui la bassa intensità occupazionale pare essere ben più determinante dello scarso livello retributivo – è infatti un obiettivo qualificante della direttiva sui «salari minimi adeguati nell’Unione europea» adottata alla fine del 2022, che lascia gli Stati membri liberi di fronte all’alternativa tra la via contrattual-collettiva e quella legale, imponendo interventi di rafforzamento della prima o di verifica e innalzamento degli standard fissati dalla seconda (generalmente più modesti e non di rado insufficienti a condurre i lavoratori interessati al di sopra della soglia del rischio di povertà) [18]
. La scelta del salario minimo legale maturata ormai in un numero molto consistente di paesi – 22 su 27 all’interno dell’Unione e 30 su 38 nell’ambito dell’OCSE – può del resto anche essere letta
{p. 16}come indicativa delle profonde difficoltà che minano il ruolo di autorità salariale tradizionalmente svolto, in autonomia, dalla contrattazione collettiva.
Note
[12] Sulle discipline che impongono l’applicazione degli standard contrattual-collettivi nelle attività svolte in esecuzione di appalti pubblici come «versione “debole” della politica del salario minimo legale» (p. 80) l’a. torna poi più avanti, denunciando le eccessive attese riposte su una norma ineffettiva come l’art. 36 St. lav., prototipo di quelle clausole sociali di equo trattamento ancor oggi di problematica attuazione.
[13] Una valutazione tanto ingenerosa, secondo Maresca (1988, p. 387), poteva spiegarsi solo perché funzionale rispetto alla tesi del necessario intervento legislativo sostenuta dall’a.
[14] L’a. ricorda infatti anche le proposte di origine sindacale maturate all’indomani della l. Vigorelli (v. p. 78 s.) e quelle della metà degli anni ’80 sollecitate dall’esigenza di evitare l’imminente referendum abrogativo della legge sulla predeterminazione dei punti di contingenza (p. 327 ss.).
[15] Come rileva Treu (2021, p. 313): ci torneremo più avanti.
[16] Dai dati Eurostat, In-work poverty risk at rate, 2022, emerge che la povertà lavorativa colpisce in Italia l’11,5% delle persone in attività; nell’Unione – ove la media è dell’8,5% – percentuali maggiori si registrano solo in Romania (14,3%), Lussemburgo (12,9%) e Spagna (11,8%).
[17] Sul primo fronte basti ricordare, limitandoci alle opere monografiche, Menegatti (2017), Pascucci (2018), Delfino (2019), Martone (2019), alle quali cui può aggiungersi – per i termini particolarmente aggiornati del dibattito, come riflessione a più voci – Salario minimo e salario giusto (2023). Circa le iniziative legislative, invece, basti richiamare gli oltre dieci d.d.l. depositati in Parlamento tra la scorsa e l’attuale legislatura, rinviando infra per il resto e per maggiori indicazioni.
[18] In merito alla direttiva n. 2022/2041, anche sul nesso con l’in-work poverty e dopo le miriadi di commenti ricevuti dal testo ancora in itinere, v. Ratti (2023).