Note
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La nuova Costituzione sovietica, Roma, Editori Riuniti, 1977, p. 35.
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La definizione è stata coniata credo nel 1956 da P. Naville, Dall’alienazione al godimento. Genesi della sociologia del lavoro in Marx ed Engels, Milano, Jaca Book, 1978, p. 490: «L’antitesi fondamentale del lavoro non è il lavoro migliorato o valorizzato ma il non-lavoro». Una variante spregiativa, di non-lavoro come tempo libero alienato è in A. Gorz, Il socialismo difficile, Bari, Laterza, 1968, p. 23.
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Cfr. il saggio di S. Bologna in AA.VV., Operai e stato,Milano, Feltrinelli, 1972, pp. 13 ss., e di AA.VV., Stato e capitalismo negli anni trenta, Roma, Editori Riuniti, 1979.
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La definizione classica di A. Touraine è appunto contenuta in La coscienza operaia, Milano, Franco Angeli, 1969, pp. 367-70 e 395-400. Cfr. Coscienza operaia oggi, a cura di G. Girardi, Bari, De Donato, 1980.
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Ma senza dimenticare Brecht: «Alcune persone che non hanno studiato bene i classici dicono che gli operai hanno una missione nei confronti dell’umanità. Queste sono chiacchiere dannose»: B. Brecht, Me-ti. Il libro delle svolte, Torino, Einaudi, 1970, p. 74.
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Si veda l’immagine del proprio ruolo nella classe operaia descritta da H. Popitz, e l’orgoglio operaio qual è verificato da P. Willmott e M. Young, e più in generale l’introduzione di M. Paci a questi e altri testi nella bella antologia Immagine della società e coscienza di classe, Padova, Marsilio, 1969, rispettivamente alle pp. 121, 27 e IX.
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«Datore di lavoro è veramente il capitalista. L’operaio è datore di capitale»: così M. Tronti, Operai e capitale, Torino, Einaudi, 1966, p. 237. Cfr. anche p. 238 passim, dove si capovolge il rapporto canonico di subordinazione e si spiega «la necessità dello sfruttamento» per i capitalisti.
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Cfr. di A. Asor Rosa la nota su «Un “Ordine Nuovo”», in Intellettuali e classe operaia, Firenze, La Nuova Italia, 1973, pp. 575 ss.
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N. Birnbaum, La crisi della società industriale, Padova, Marsilio, 1971, p. 51.
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S. Garavini, Crisi economica e crisi di valori, in Sindacato e questione giovanile, Bari, De Donato, 1977, p. 18.
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Cfr. gli interventi di A. Tortorella e B. Beccalli in AA.VV., Operaismo e centralità operaia, Roma, Editori Riuniti, 1978, pp. 211-24.
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Spero che non venga presa troppo di mira «l’opacità di categorie organiche e irrazionali» quali questa, come fa A. Negri nel suo saggio in Il caso Karl-Heinz Roth, Milano, Edizioni Aut-Aut, 1978, p. 52, anche se devo ammettere che è assai meno succosa della sua «coscienza dell’autovalorizzazione proletaria», ibidem, p. 80.
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P. Ceri, L’autonomia operaia tra organizzazione del lavoro e sistema politico, in «Quaderni di sociologia», n. 1, gennaio marzo 1977, pp. 28 ss.
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Il movimentò operaio rischia di essere «una forza che conosce male la società che dice di saper dirigere»: così C. Donolo, Alla ricerca di un lavoro e di un’identità, in Quaderni de «I Consigli», suppl. al n. 36, aprile 1977, p. 9. Cfr. anche G. E. Rusconi, «Soggettività operaia e scienza sociale», introduzione a O. Negt, Coscienza operaia nella società tecnologica, Bari, Laterza, 1973, in particolare le pp. XXVIII-XXXI.
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Si può anche parlare, come ha fatto recentemente R. Alquati, Università di ceto medio, Torino, Stampatori, 1978, pp. 75-95, di «intenzionalità antagonistica». Forse evita qualche scoglio. Come li evita dire egemonia invece che potere. Ma i problemi che riguardano la costituzione del soggetto — forza lavoro e/o classe operaia — quelli rimangono.
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Testimonianza di Susi, I giovani dentro e fuori, Quaderni de «I Consigli», cit., p. 45.
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M. Tronti, op. cit., p. 238.
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P. Calza Bini, Economia periferica e classi sociali, Liguori, Napoli, 1976, pp. 85 ss., ha parlato di «socializzazione manifatturiera».
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Ho sviluppato questi temi in «Fabbrica diffusa» e nuova classe operaia, in «Inchiesta», n. 34, luglio-agosto 1978.
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C. Perrotta, La questione giovanile tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, in «La Città futura», n. 10, 13 luglio 1977.
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Vedila in un seguace a noi contemporaneo: C. Freynet, L’educazione del lavoro, Roma, Editori Riuniti, 1977, in particolare il cap. omonimo, p. 328.
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Neppur troppo lontano: si veda quanto disse Paolo VI su quel che «attraverso il peccato è divenuto lavoro austero e pena difficoltosa da portarsi, rude combattimento quotidiano umilmente accettato», che a sua volta «diviene redentore nell’imitazione del lavoro di Gesù di Nazareth», nel messaggio alla 51a settimana sociale dei cattolici di Francia, dedicata al tema «Il lavoro e i lavoratori nella società con temporanea», Lione 9-14 luglio 1964, in «Quaderni di Azione sociale», n. 3, luglio-settembre 1964, p. 565.
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E. Corrieri, Il trattamento del lavoro manuale in Italia e le sue conseguenze, Fondazione Agnelli, quad. 14, 1977; F. Alberoni, Alleanze di classe e transizione al socialismo, in «Mondoperaio», n. 4, agosto-settembre 1975.
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A. Zevi, Trasferimenti alle famiglie e offerta di lavoro,Quaderni de «La Rivista trimestrale», n. 55-56, luglio-ottobre 1978, pp. 128 ss.; ed anche Differenziali salariali e atteggiamento dei giovani verso il lavoro in «Politica ed economia» n. 4, luglio-agosto 1978, pp. 57 ss.
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Sulla gerarchia sociale nei paesi socialisti cfr. R. Di Leo, Il modello di Stalin, Milano, Feltrinelli, 1977, e anche: A. Giddens, La struttura di classe nelle società avanzate, Bologna, Il Mulino, 1975, pp. 335-58; e F. Parkin, Disuguaglianza di classe e ordinamento politico, Torino, Einaudi 1976, pp. 159 ss.
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Del lavoro, non del consumo come proponeva F. Rodano, Considerazioni sulla dialettica sociale dell’«opulenza» in «La rivista trimestrale», n. 28-30, novembre 1969, dove dell’autunno caldo si dava un’interpretazione economicista col ritenere che gli operai intendessero «collocarsi al centro, come già dello sviluppo produttivo, così della fruizione dei benefici che ne derivano, e di costituirsi così in misura fondamentale della distribuzione del reddito», p. 369.
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Così L. Ribolzi in I mestieri inventati, Torino, Edizioni della Fondazione Agnelli, 1978, p. 155, una ricerca su «lavoro manuale e lavoro intellettuale nei libri di testo della scuola dell’obbligo».
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V. D’Alessandro, L’immagine del lavoro in pre-adolescenti napoletani, Istituto universitario orientale, «Contributi di ricerca», n. 1, Napoli, 1978. Cfr. anche P. Donati, L’incidenza della famiglia rispetto alla scuola sulla socializzazione al lavoro in aree urbane differenziate, in «Studi di sociologia», n. 1, gennaio-marzo 1978, pp. 71-73.
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Cfr. la bella ricerca di G. Gennaro, L’operaio immaginario, La figura dell’operaio in una società non industrializzata, (Isvi papers, n. 4-5), Bologna, Il Mulino, 1978. Si veda la posizione degli operai nella scala di prestigio degli studenti, verificata da L. Bovone, Studenti, società civile e società politica, in «Studi di sociologia», n. 1, gennaio-marzo 1978, pp. 96-102.
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Per una riflessione d’insieme, cfr. A. Becchi Collida, Egualitarismo e politica salariale (1968-1977), in «Proposte», n. 59-60, Roma, Editrice sindacale italiana, 1978, e G. P. Cella, Uguaglianza e rivendicazione, Roma, Edizioni Lavoro, 1978.
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Credo sia un errore sostenere che durante questi anni c’è stato un «congelamento del posto della classe operaia dentro un assetto dato della gerarchia sociale», come afferma M. Colafato, Modi e luoghi, Milano, Feltrinelli, 1978, p. 51. È una sottovalutazione ingiusta. Il problema è un altro: non tornare indietro. Infatti non ritengo irreversibile il potere acquisito, né può essere intoccabile la «forza strutturale dell’operaio collettivo», come la chiama L. Fiocco, Classi e pratiche di classe, Padova, Marsilio, 1975, p. 138.
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Citerei a questo proposito le espressioni, generiche quanto elevate, che usa il Pei nella Proposta di progetto a medio termine, Roma, Editori Riuniti, 1978, a proposito del lavoro (pp. 26-7). Valga per tutte il presupposto di partenza, «Una nuova scala di valori deve fondarsi in primo luogo su una rivalutazione del lavoro produttivo e socialmente utile», che pure parrebbe derivare da analisi approfondite.
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Un «sentimento della determinatezza», direbbe K. Mannheim, Ideologia e utopia, Bologna, Il Mulino, 1957, p. 245.
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Cfr. di A. Illuminati, Sociologia e classi sociali, Torino, Einaudi, 1967, molto più persuasivo del suo recente Classi sociali e crisi capitalistica, Milano, Mazzotta, 1977.
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Vedi il capitolo «Note sulla crisi del marxismo e sull’emergenza di una sociologia accademica in Unione Sovietica», abbastanza illuminante, di A. W. Gouldner, La crisi della sociologia, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 649 ss.
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L’autore più attento, scrivendo nel 1921 un vero «Manuale popolare di sociologia marxista», non vi fece il minimo cenno: cfr. N.I. Bucharin, Teoria del materialismo storico, Firenze, La Nuova Italia, 1977. Né aveva adombrato la questione in quella opera di ingegneria sociale che è l’Economia del periodo di trasformazione (in realtà: di transizione), Milano, Jaca Book, 1971, dove pure c’è un’acuta tipologia sulla composizione della classe operaia: p. 156.
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Avrei scritto «proletario salariato» in omaggio ai classici, ma tengo presenti le osservazioni di S. Ossowski, Struttura di classe e coscienza sociale, Torino, Einaudi, 1966, p. 160.
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Si veda il paragrafo «Ruoli sociali e loro detentori» di R. Darhendorf, Classi e conflitto di classe nella società industriale,Bari, Laterza, 19702, pp. 235 ss. e in particolare la p. 243: «L’interrogativo: “In che modo l’individuo diventa un membro della classe operaia?” può essere semplificato nella domanda: “In che modo l’individuo diventa un operaio?”».
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«Il modo più naturale per sfuggire l’esistenza proletaria è di entrare al servizio del movimento operaio come funzionario»: così H. De Man, La gioia nel lavoro, Bari, Laterza, 1931, p. 396. Ovvio il rinvio a R. Michels, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, Bologna, Il Mulino, 1966, che ha dedicato un capitolo alla leadership di origine proletaria, p. 401 ss. Utile anche la descrizione di G. Roth, I socialdemocratici nella Germania imperiale, Bologna, Il Mulino, 1971, capp. X e XI.
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Sono caratteristiche di questa fissità proletaria le considerazioni svolte da G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe, Milano, Sugar, 1967, nell’esporre «il punto di vista del proletariato» sul processo di reificazione: cfr. pp. 226-7. K. Kautsky, Il programma di Erfurt, Roma, Samonà e Savelli, 1971, p. 166, parlava dell’elevazione operaia tramite la scuola popolare come di un «un mezzo importante il cui significato non deve essere sottovalutato».
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C. De Francesco e P. Trivellato, La laurea e il posto,Bologna, Il Mulino, 1978, in particolare il capitolo «La selezione nell’università di massa», pp. 95 ss.
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Sul tema Il rapporto dei giovani con la società: il lavoro lo scrivente ha svolto una comunicazione al convegno dell’istituto Gramsci del 7-8 ottobre 1977, «La crisi della società italiana e gli orientamenti delle nuove generazioni»: vedi I giovani e il lavoro, in «Il Mulino», n. 253, settembre-ottobre 1977, p. 647 (oltreché il volume degli Atti, Roma, Editori Riuniti, 1978).
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S. Garavini, op. cit., pp. 20-21.
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«Il lavoro in sé, il lavoro tout-court, sia intellettuale che manuale, è sparito come punto di riferimento dell’elaborazione culturale, morale ed ideale trasmessa all’interno della scuola»: così F. De Anna in Sindacato e questione giovanile, cit., p. 117. Vedi anche quanto afferma S. Garavini, ibidem, p. 21 sulla scuola che «nella sua attuale dimensione di massa dà ai giovani una visione negativa del lavoro, semina odio per il lavoro».
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Il riferimento è alla nota tesi di A. Gerschenkron sul rapporto fra arretratezza economica e ideologie per il decollo: cfr. Il problema storico dell’arretratezza economica, Torino, Einaudi, 1965.
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D. Lane, The Socialist Industriai State. Towards a Politicai Sociology of State Socialism, London, Alien & Unwin, 1976; W. D. Connor, Socialism, Politics, and Equality, New York, Columbia University Press, 1979; e anche M. Yanowitch, W. Fisher, Social Stratification and Mobility in thè USSR, New York, International Arts and Sciences Press, 1973. Ma potrebbe bastare, come epigrafe, la seguente esclamazione di A. Zinoviev, Cime abissali, vol. I, Milano, Adelphi, 1977, p. 398: «Che colpa ha nostro figlio se tu non sei un operaio o un contadino?».
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In ogni caso apprezzabili sono pertanto le suggestioni su un «terzo sistema» venute dalla Commissione CEE presieduta da G. Ruffolo, «Un projet pour l’Europe». Nouvelles caractéristiques du developpement socio-économique, Bruxelles 1978.
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Non è dunque l’emulazione del vicino di casa, che giustamente R. Dahrendorf ricorda non essere «peculiare della società americana» — cfr. Homo sociologicus, Roma, A. Armando, 1966, p. 61 — bensì la caratteristica che notava W. Sombart già all’inizio del secolo, la «fuga dell’operaio dallo stretto circolo del lavoro salariato»: cfr. Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo?, Milano, Etas Libri, 1975, p. 117. Ma ancor prima Marx aveva segnalato «questa indifferenza completa per il contenuto particolare del lavoro, questo passaggio da un ramo d’industria a un altro»: Il Capitale: Libro I capitolo VI inedito, Firenze, La Nuova Italia, 1969, p. 68. Lo stesso concetto veniva espresso nella «Introduzione» del 1857 a Per la critica dell’economia politica,Roma, Editori Riuniti, 1957, p. 191. Cfr. le osservazioni di M. Paci nell’introduzione a S. M. Lipset, R. Bendix, La mobilità sociale nelle società industriali, Milano, Etas Libri, 1975, pp. 5-6.
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É. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, Milano, Comunità, 1962, p. 394.
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Un bilancio di questi anni in F. Butera, Crisi, dibattito e trasformazione nell’organizzazione del lavoro, in «Politica ed economia», n. 6, novembre-dicembre 1978, pp. 49 ss. Cfr. anche F. Chiaromonte, Sindacato, ristrutturazione, organizzazione del lavoro, Roma, Editrice sindacale italiana, 1978
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Non va neppure sottovalutata la questione dell’integrità sessuale, minacciata soprattutto per lavori di fabbrica: cfr. G. Berlinguer, Chi lavora non fa l’amore?, in «Rinascita», n. 43, 3 novembre 1978, sunto della relazione all’ultimo Congresso mondiale di sessuologia medica.
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Ed è comunque meglio intendersi su cosa sia. Per una definizione non vaga: L. Gallino, A. Baldissera e P. Ceri, Per una valutazione analitica della qualità del lavoro, in «Quaderni di sociologia», n. 2-3, aprile-settembre 1976, p. 297. Cfr. anche la voce Sociologia del lavoro, in L. Gallino, Dizionario di sociologia,Torino, UTET, 1978, dove alle pp. 411-14 il concetto viene sintetizzato con rigore
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Cfr. OCDE, L’insertion des jeunes dans la vie active. Rapport général, Paris, 1977. (Vedilo ora tradotto con varie imprecisioni, in appendice a S. Garavini e G. Bolaffi, I giovani e il lavoro, Roma, Editrice sindacale italiana, 1978).
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Per J. K. Galbraith, Il nuovo Stato industriale, Torino, Einaudi, 1968, questa è addirittura la prova di una tendenza opposta: vedi il capitolo «Della fatica e del lavoro». A. Hegedüs e M. Markus, Sviluppo sociale e organizzazione del lavoro in Ungheria, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 3642, forniscono pezze d’appoggio per i paesi socialisti.
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S. Di Giacomo, Dalla fatica al lavoro: gli studi e le prospettive sul lavoro manuale ed intellettuale, I, in «Impresa e società», n. 13, 15 luglio 1978. C. Wright Mills, Colletti bianchi,Torino, Einaudi, 1966, p. 304, parlava della «sensazione fatalistica che il lavoro in quanto tale è una cosa poco piacevole».
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D. Marie, L’aménagement du temps de travail, Genève, BIT, 1977, in particolare il cap. IX, «Vers un réaménagement de la vie active», pp. 65 ss.
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Sull’atteggiamento ambivalente dei giovani verso il lavoro, cfr. l’intervento di R. Alquati in AA.VV., Il mondo giovanile,Torino, Stampatori, 1979, pp. 94-100.
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A. Minucci, Sul rapporto classe operaia-società, «Critica marxista», n. 1, gennaio-febbraio 1965, p. 38.
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B. Trentin, Da sfruttati a produttori, Bari, De Donato, 1977, p. XXVII.
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Vedi una serrata critica all’ascendente più diretto di questa via nel saggio di M. Cacciari in G. Lukàcs, Kommunismus, 1920-1921, cit., pp. 11-28.
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Cfr. K. Korsch, Consigli di fabbrica e socializzazione, Bari, Laterza, 1970, p. 209, dove si parlava in proposito di «rivendicazione necessaria della classe operaia in marcia verso la sua autoliberazione».
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Una via che, mentre Korsch scriveva, si era già chiusa: cfr. le osservazioni di G.E. Rusconi, Karl Korsch e la strategia consiliare-sindacale, in «Problemi del socialismo», n. 41, luglio-agosto 1969, p. 769, riprese in Lo Stato come eredità giacobina nella critica di Karl Korsch, ibidem, n. 16-17, luglio-ottobre 1973, pp. 501-2, e anche M. Cacciari, opera testè citata.
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Trentin, op. cit.
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Così A. Pannekoek, in Organizzazione rivoluzionaria e Consigli operai, Milano, Feltrinelli, 1970, p. 63, sebbene non lo si possa ritenere l’unico responsabile di queste ispirate idiozie, ma solamente di averle riproposte da buon ultimo, senza le attenuanti che si potevano addurre quasi 30 anni prima, per la madornale inconsistenza dell’ABC di Bucharin, e oltre mezzo secolo prima, per l’ignavia festosa dell’affresco di Bebel: cfr. le note 48-54 del capitolo precedente.
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Cfr. due recenti lavori: D. Salerni, Tecnologia e forza di lavoro. Note in margine al determinismo tecnologico, in «Rassegna italiana di sociologia», n. 4, ottobre-dicembre 1977; G. Gasparini, La tecnologia produttiva, in Tecnologia, ambiente e struttura, Milano, Franco Angeli, 1976, in particolare le pp. 178-88.
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Ciò vale anche per quella «rivalutazione intellettuale del lavoro», consistente in un allargamento e arricchimento delle mansioni, che veniva caldeggiata per tempo da G. Friedmann, Il lavoro in frantumi, Milano, Comunità, 1960, pp. 191-6.
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«Mettendo al centro dell’organismo di diretta rappresentanza operaia la struttura della produzione, si fa del lavoro il metro di misura fondamentale di tutte le cose»: così A. Asor Rosa, in Intellettuali e classe operaia, cit. p. 585.
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V. I. Lenin, Opere, Roma, Editori Riuniti, 1967, vol. XXV, p. 445: «L’intera società sarà un grande ufficio e una grande fabbrica con uguaglianza di lavoro e uguaglianza di salario».
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In Leninismo e rivoluzione socialista, Bari, De Donato, 1970, pp. 150-51, una notazione condivisibile è la critica contro la «riduzione dell’esperienza sovietica a strategia del controllo operaio di fabbrica nei Consigli».
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Nell’importante articolo del 13 settembre 1919 (non firmato), «Lo sviluppo della rivoluzione», in A. Gramsci, L’Ordine nuovo 1919-1920, Torino, Einaudi, 1954, pp. 27-31, si parla della conquista e dell’esercizio di un «potere sociale» da basare sulla comunità di lavoro e sul sistema dei Consigli, giacché «la sovranità deve essere una funzione della produzione» (corsivo nostro). Secondo G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe, cit., p. 105, «il Consiglio operaio è il superamento politico-economico della reificazione capitalistica».
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Cfr. la relazione dello scrivente sul tema «Operaismo e sindacato», in Operaismo e centralità operaia, cit., pp. 27 ss.
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M. Tronti, ibidem, p. 24.
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L’espressione ricorre nelle pagine satiriche di A. Zinoviev, Cime abissali, Milano, Adelphi, 1978, vol. II, a indicare lo stereotipo dell’operaio professionalmente e politicamente d’avanguardia.
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A modo suo, inoltrandosi per il terziario e scoprendo un «quaternario», queste cose ce le ha ripetutamente ricordate uno studioso al quale dobbiamo credere: R. Alquati, Sindacato e Partito, Torino, Stampatori, 1974, pp. 161-226; e anche L’incorporamento del sapere sociale nel lavoro vivo, in «Aut Aut», n. 154, luglio-agosto 1976, pp. 51 ss.
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E che fra l’organizzazione del lavoro e la composizione di classe manchi una corrispondenza meccanica, l’ha ricordato proprio Cacciari in Operaismo, cit., pp. 45-54.
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Nella società, «dove vive necessariamente a spese degli altri, [l’uomo] deve loro in lavoro il prezzo del suo mantenimento»: così J. J. Rousseau, Emilio, Bari, Laterza, 1953, p. 165. Col lavoro obbligatorio, «spariranno i parassiti e rimarranno soltanto quelli che col loro lavoro arrecheranno un utile alla società»: N. I. Bucharin, Il programma comunista, Milano, Tindalo, 1970, p. 137.
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«Se il lavoro di cui la tecnica è ormai l’anima deve avere ancora un senso — visto che il bisognò di dargli un senso è qualcosa di incomprimibile — dobbiamo rappresentarcelo come avente il suo fine non più nel prodotto singolo ma nell’utilità sociale»: H. De Man, op. cit., pp. 315-6. In precedenza aveva tuttavia ammonito: l’utilità sodale «è un fattore intellettualmente accessorio di gioia nel lavoro ma mai un movente essenziale di questa gioia», p. 218.
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Il che sarebbe «pessimistico-regressivo», come ha scritto M. Cacciari, Dopo l’autunno caldo: ristrutturazione e analisi di classe, Padova, Marsilio, 1973, p. 66.
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Oltre la sfera produttiva, vi è tuttora nelle statistiche sovietiche — rispettose delle definizioni marxiane più ortodosse — quella «improduttiva» dov’era collocato nel 1976 un quarto dell’occupazione totale: ZSY SSSR, Narodnoe Chozaistvo SSSR sa 60 let, Moskva, Statistika, 1977, p. 460. Vedi ora: R. di Leo, Occupazione e salari nell’URSS 1950-1977, Milano, Etas Libri, 1980, pp. 48-53.
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L’inventore del «fatelo da soli» — le do itself activities — è un noto profeta della libertà, e dell’essere contro l’avere: E. Fromm, Fuga dalla libertà, Milano, Comunità, 1963.
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Sui limiti di questo operaismo, cfr. M. Cacciari, Trasformazione dello Stato e progetto politico, in «Critica marxista», n. 5, settembre-ottobre 1978, in particolare pp. 47-54.
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A. Casiccia, Sulla cultura operaia e l’identità di classe,in «La Critica sociologica», n. 39-40, autunno 1976 - inverno 1976-1977, pp. 277-8. Cfr. il classico R. Hoggart, Proletariato e industria culturale (traduzione che l’industria culturale ha dato del titolo originale The Uses of Literacy), Roma, Officina edizioni, 1970.
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Si veda il paragrafo 34, «Le forze produttive come punto di partenza per l’analisi sociologica», del manuale di Bucharin, Teoria del materialismo, cit., pp. 125 ss. Di questa «concezione ultra-materialistica», come la chiama giustamente V. Gerratana nella Presentazione, p. XXII, sono nefasta applicazione odierna quelle ricerche sociologiche che si rivolgono agli operai soltanto per sapere che cosa c’è nel loro reparto, senza riguardo a quanto c’è nelle loro teste.
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Cfr. le osservazioni di K. Korsch, Karl Marx, Bari, Laterza, 1969, pp. 138-41
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Mi accontenterei quindi di una soluzione quale quella di privilegiare l’elemento qualitativo nella teoria del valore come fa P. M. Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico, Torino, Boringhieri, 1970, pp. 27-47, che pure C. Napoleoni critica nella sua Introduzione al volume. Per il recente dibattito italiano, cfr. M. Lippi, Marx. Il valore come costo sociale reale, Milano, Etas Libri, 1976, con essenziale bibliografia alle pp. 158-62, e i contributi di C. Napoleoni, P. Garegnani, M. Lippi, L. Colletti, E. Altvater, J. Hoffmann e W. Semmler in «Rinascita», nn. 8, 9, 12, 13, 17 18 e 21, 1978, e n. 18, 1979.
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C. Schmitt, Legalità e legittimità, in Le categorie del ’politico’, Bologna, Il Mulino, 1972, p. 239.
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Un’esposizione accessibile del problema e dei luoghi marxiani caratteristici, con particolare riguardo alle aperture contenute in taluni paragrafi delle Teorie sul plusvalore è in F. Anderlini, Lavoro produttivo e improduttivo, Bari, De Donato, 1977. Cfr. inoltre C. Napoleoni, Lezioni sul cap. VI inedito,Torino, Boringhieri, 1971.
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«Forzate e incongrue» sono quelle letture che, nelle definizioni marxiane di lavoro produttivo e improduttivo, «pretendono di trovare indicazioni utili per un’analisi delle classi sociali»: così M. Salvati, Sul programma di ricerca sottostante alla teoria del valore marxiano (e in particolare sul lavoro produttivo e improduttivo), in «Quaderni piacentini», n. 62-63, aprile 1977, p. 153. Vedi anche l’invito a usare in senso politico-ideale le categorie «cariche di storia» di lavoro produttivo/improduttivo, p. 154.
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Qui la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo si trasforma, da quello «strumento di critica sociale» di cui parla P. A. Baran (Il «surplus» economico e la teoria marxiana dello sviluppo, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 43), in uno strumento di legittimazione sociale... Ha perfettamente ragione B. Beccalli a ironizzare su queste scappatoie semantiche: cfr. la sua Prefazione a L. Annunziata, R. Moscati, Lavorare stanca, Roma, Savelli, 1978, p. XIV: «Una volta che li abbiamo messi dentro al “lavoro produttivo” non c’è barba di profeta che ci aiuti a dare un segno alla loro azione e a metterci tranquilli». Marx stigmatizzava con feroci sarcasmi questa concezione apologetica della produttività di tutte le occupazioni: cfr. Teorie sul plusvalore, cit., vol. I, pp. 582-4.
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Più corretta la linea interpretativa di H. Braverman, che pure non risolve bene questo punto ma, con la nozione di «massa continua di lavoro» produttivo e improduttivo, riesce a unire politicamente ciò che tiene a distinguere marxianamente: cfr. Lavoro e capitale monopolistico, Torino, Einaudi, 1978, p. 425
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Così M.G. Meriggi, Introduzione a J. Habermas, Lavoro e integrazione, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 15.
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Meglio la coerenza con la quale P. Naville, Dall’alienazione al godimento, cit., pp. 459-72, resistendo imperturbabile alla ressa di nuovi lavori e di nuovi soggetti, ripropone i termini più stagionati e meno problematici della lezione marxista. Vedi altresì la persistenza della dicotomia in N. Poulantzas, Classi sociali e capitalismo oggi, Milano, Etas Libri, 1975, e le osservazioni di A. Baldissera, Modelli dicotomici di dominio di classe e lavoratori non manuali, in «Quaderni di sociologia», n. 2-3-4, aprile-dicembre 1978, pp. 109 ss. Al polo opposto vi è R. Richta, La via cecoslovacca, Milano, Franco Angeli, 1968, che si mette il cuore in pace dando alla scienza la medaglia di «forza produttiva centrale dell’umanità», p. 28, e promuove tutti a ingegneri: potenza dell’automazione pianificata! Cfr. il giudizio di D. Neri, Variazioni ideologiche del socialismo realizzato: 1’“umanismo” scientifico-tecnologico, in «Aut Aut», n. 145-146, gennaio-aprile 1975, pp. 57-66.
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Non mi pare ne esca indenne neanche Altvater, che pure stigmatizza i moralismi alla Baran, Sweezy, Gillman, Marcuse e Dutschke, quando ricorre a una contorsione per dimostrare che molti lavoratori sono sì improduttivi (nel senso marxiano) ma attivano lavoro produttivo altrui: E. Altvater, F. Huisken, Lavoro produttivo e lavoro improduttivo, Milano, Feltrinelli, 1975.
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A. Casiccia, Sulla cultura operaia e l’identità di classe, cit. p. 279, parla di «tradizione paleoproletaria» fatta di «subalternità parca e laboriosa» e di «valorizzazione puritana del lavoro manuale».
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Cfr. L’economia del periodo della trasformazione, cit. È proprio nel cap. VI di quest’opera che la nozione marxiana viene a mio avviso stravolta: cfr. le pp. 98-100, e le osservazioni assai pertinenti di Lenin: Annotazioni di Lenin al libro di Bucharin sull’economia del periodo di transizione, in «Critica marxista», n. 4-5, luglio-ottobre 1967, pp. 295-7. Voglio sperare che non appaia di cattivo gusto, dati i tempi, citare il giudizio dell’ultimo Stalin, che accusava in via postuma Bucharin «di sopravvalutare in modo eccessivo la funzione delle forze produttive»: Problemi economici del socialismo nell’URSS, Bari, De Donato, 1976, p. 120.
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Cfr. R. di Leo, Introduzione a L. Szamuely, Primi modelli di un’economia socialista, Napoli, Liguori, 1979, pp. 34-7.
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Bucharin, L’economia del periodo della trasformazione, cit., pp. 142-3.
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In una lettera a Engels, Marx considera l’utilità soggettiva del lavoro congiuntamente utilizzazione obiettiva del prodotto comprendendole ambedue entro il valore d’uso, come semplice «premessa materiale» del valore tout-court, ancora completamente estranea alla sua determinazione economica: K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Roma, Editori Riuniti, 1957, p. 212. A. Bebel descrive invece il socialismo come un sistema che soppianta il valore economico con l’utilità sociale: cfr. La donna e il socialismo, Milano, Max Kantorowicz ed., 1892, p. 360.
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Può darsi che questo richieda un «punto di vista posto intellettualmente fuori dell’ordinamento sociale esistente», come scrisse Baran, Il «surplus» economico, cit. p. 38. E sia.