Aris Accornero
Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c2
Benché la politica assistenziale sia sovente influenza
{p. 59}ta dalla rivendicazione operaia, le rispettive conseguenze sono divaricate. Ogni avanzamento nelle condizioni accordate agli operai, così come ogni peggioramento nella situazione degli strati semiproletari, eleva la soglia di emancipazione che si ottiene raggiungendo quelle condizioni; ogni progresso nel grado di sussidiamento della popolazione oppure nella situazione degli strati semiproletari, diminuisce la distanza rispetto a tale soglia e quindi l’incentivo a raggiungerla. Si potrebbe addirittura sostenere che la consistenza degli strati la cui identità verrebbe a «emanciparsi» attraverso il lavoro operaio, cala quando la dinamica reale dei trasferimenti alle famiglie tende a superare quella delle retribuzioni nell’industria, e viceversa. Naturalmente non è solo per l’alta paga che uno farebbe l’operaio, né per la bassa paga che lo rifiuterebbe: si voleva semplificare con un’immagine il senso dei valori relativi che entrano nella comparazione di chi sceglie, se può. E del resto comincia già a essere una constatazione documentabile che la politica del sussidio non incoraggia a presentarsi sul mercato del lavoro regolare, o quanto meno a offrirsi come operaio [24]
. Bisogna vedere quanto e cosa di questi effetti è risultato inatteso oppure voluto. Ma non c’è dubbio che in generale questa politica da Stato assistenziale — versione deforme ma cosmopolita dello Stato sociale — viene anch’essa riducendo il serbatoio cui l’industria attinge.
In conclusione, quel tipo di emancipazione che è attribuibile al lavoro e allo status operaio da parte di chi viene liberato da una condizione sfavorita, agisce oggi su un’area sociale minore e diversa dal passato. Ciò vale un po’ per tutti i paesi dell’Occidente sviluppato dove, nonostante la crescita di poco invidiabili occupazioni precarie, conquistare un posto di lavoro stabile in fabbrica risulta forse oggi meno liberatorio, anche se può essere diventato più desiderabile. A meno dunque di sostenerla con fortissimi elementi ideologici, che si ispirino a una morale austera del produttore, quella che era emancipazione deve pertanto diventare — come dicevamo — promozione vera e propria. Non è più {p. 60}sufficiente offrire la fabbrica come traguardo a chi vive alla giornata o pascola le pecore; oltretutto scarseggiano i posti, non solo i soggetti. Bisogna semmai che un’identità se non proprio una professione di tipo operaio sia sentita alla pari da chi si sentiva più su.
Questo è il punto e riguarda il modello sociale, non soltanto i livelli dei trattamenti economici e normativi, che pure sono probanti. Coloro che della richiesta di valorizzare il lavoro manuale fanno una questione di equità distributiva o di costume civile, non si rendono ben conto che tutto un quadro di valutazioni ed una gerarchia sociale dovrebbero venire rivoluzionati, e che queste non son cose indolori. Coloro invece che chiamano la classe operaia a questo o a quel compito, sia produttivo sia politico, e la elogiano perché li assolve, non sempre si chiedono: è la sua collocazione all’altezza dei suoi compiti? E se non lo è, può la fierezza compensare il divario? La fierezza stessa è un pegno, non un’obbligazione.
Il consenso degli operai al sistema sovietico è stato ottenuto e dura tuttora, grazie anche a forme di privilegio sociale che noi probabilmente considereremmo inammissibili, come quelle con le quali si seleziona l’accesso all’università di chi proviene da altri strati [25]
. Ma quelli che vogliono una classe operaia con forte senso della missione, un lavoro manuale effettivamente valorizzato, son tutti disposti, in loro favore, a far scendere qualcuno nella scala sociale: a mutare cioè non soltanto il metro di giudizio ma anche le collocazioni relative? Dunque bisogna evitare di imbrogliare se stessi e gli altri promettendo quel che non si può mantenere e, a maggior ragione, quel che non si sa neppure quanto costa: retorica proletaria e fervore fabiano van lasciati fuori da simili rivoluzionamenti sociali.
In Italia qualcosa si è fatto dal 1968-69 in poi, e non è passato senza resistenze e traumi. Per fortuna, pochi erano gli inconsapevoli che pensavano di non dover pestare i piedi a nessuno, e non molti quegli altri che pur sapendolo non prevedevano gli strilli. La gerarchia sociale è stata messa in causa dall’ondata di lotte{p. 61} operaie dopo la prima contestazione studentesca. Partendo dalla scala delle retribuzioni e delle qualifiche, si è cercato di influire sulla valutazione sociale del lavoro [26]
. E ci si è riusciti con un bilancio imponente di conquiste. Cosicché si è introdotto nei comportamenti collettivi l’elemento coagulante di un modello sociale dove il lavoro operaio ha un posto diverso. Dunque, non una battaglia genericamente egualitaria o soltanto redistributiva, anche se vi sono state esasperazioni salariali e forzature livellatrici.
Su quale connotazione sociale del lavoro, su quale connotato dell’identità sociale — e dunque su quale immagine ed area della composizione di classe — si è incentrato il modello? Le definizioni di manuale e di produttivo sono quelle che più si sono rincorse, incrociate, qualche volta sovrapposte, rivelando le fondazioni morali ed economiche su cui poggiano approcci fra loro diversi come quello cattolico e quello marxista (con le rispettive diramazioni dal populismo all’operaismo), che di conseguenza hanno comportato scelte differenti, da giustizialiste a perequative, tutte misurabili sul modo di intendere la spinta egualitaria di questi anni.
Nonostante le ristrettezze generali del modello quale veniva prendendo forma, esso si è presentato a tratti con un suo fascino egemonico, sia conferendo dignità riconosciuta anche al lavoro precario, sia aggregando strati prima disorganizzati del lavoro dipendente. L’esplosione nel sociale, comune a tutte le società capitalistiche, ha così avuto nell’Italia di questi anni un punto di richiamo, oltre che di innesco, attorno ad una ipotesi che potrebbe dirsi di centralità operaia del lavoro socialmente produttivo. Ciò ha bilanciato gli effetti dirompenti ed ha contenuto le ripercussioni negative delle novità conseguite nella temperie sociale degli anni ’70.
È proprio lo svolgimento concreto di questa esperienza concreta che suggerisce al tempo stesso umiltà e fermezza su quella strada, se non altro perché è lunga e in salita: basta pensare allo storico steccato sociale che permane tra lavoro manuale e intellettuale. Si veda qual {p. 62}è tuttora la rappresentazione che del lavoro danno i testi scolastici, dove «si riafferma senza attenuanti la distinzione fra l’intellettuale colto, fornito di elevate doti morali e di capacità non comuni, e il lavoratore manuale rozzo e tutto muscoli, impegnato in attività ripetitive e insensate» [27]
. Si veda su quale stratificata immagine del ruolo lavorativo viene intuita dai bambini l’identità sociale dei propri genitori [28]
. Si veda la figura dell’operaio, stravolta ed esorcizzata perché minacciosa, qual è pensata oggi in un contesto di piccola borghesia urbana meridionale [29]
.
È chiaro che per far cambiare giudizi di valore come questi, occorre ben più di un’alta stagione contrattuale, che ha senz’altro avuto i suoi difetti. Forse quella centralità, ancor più che operaia, era infatti fabbrichista; più che produttiva, era industrialista. Quel modello sociale si è delineato infatti attraverso gli aumenti uguali per tutti, l’inquadramento professionale unico, l’unificazione del «punto» di contingenza, la perequazione dei trattamenti pensionistici, e così via [30]
. Se c’è oggi chi può incolpare gli operai di essere diventati una classe «tutelata», è perché prima non lo erano, a cominciare dalla sicurezza del posto. Se c’è oggi chi ne deduce che si sono integrati, è perché hanno conquistato un posto che non avevano mai avuto, e che dovranno stare ben attenti a non perdere [31]
.
Ma il limite maggiore di quel modello è stato un altro. Non di essersi svolto per genesi e in ambito sindacale — questo non è un difetto: è semplicemente un fatto — ma di non essere pervenuto per tempo ad autocoscienza politica. Autocoscienza politica del modello sociale. Il movimento operaio, la sinistra, si sono accorti in ritardo che con le lotte e le conquiste prendeva corpo e si affermava nella gerarchia sociale una nuova centralità del lavoro e del lavoratore socialmente produttivo. Era questo un obiettivo di lungo periodo, da sempre auspicato. Ma quando improvvisamente il traguardo si avvicinò (e fu col giudizio da darsi sui primi aumenti uguali per tutti, nel fatidico 1969) ciò che stava avvenendo non fu colto come transizione a {p. 63}quell’obiettivo. Questo, non soltanto per la fattispecie contrattuale sotto cui si presentava il nuovo, ma principalmente per la disarmante approssimazione con la quale la sinistra tende in genere ad affrontare le questioni riguardanti la struttura sociale, e in particolare il rapporto lavoro-identità, nelle sedi politiche [32]
.
Elettivamente, per statuto, il movimento operaio fonda davvero sul lavoro l’identità sociale degli individui, allo stesso modo come deriva la collocazione di classe dai rapporti di produzione. L’avere nel proprio bagaglio una teoria del valore-lavoro può conferire un presupposto di scientificità [33]
, ma non credo che determini le fondamenta sociologiche dell’organizzazione operaia di tipo socialista.
Lo sviluppo nella divisione capitalistica del lavoro ha però introdotto due novità che son diventate questioni sempre più pressanti. Da una parte — come abbiamo già visto — ha sottratto l’identità sociale a una fondazione pura, e dall’altra ha complicato le definizioni puramente dicotomiche dell’identità stessa. Cosicché, nella valutazione sociale che anche il movimento operaio occidentale è chiamato a dare, si sono venuti affacciando in modo prepotente quanto inusitato i problemi della promozione e della mobilità, riferiti al binomio lavoro-identità.
Problemi molecolari anche se non proprio individuali, e perciò abissalmente lontani da quelli delle classi e dei ceti, delle loro gerarchie e dei loro conflitti, che i grandi del movimento operaio padroneggiavano così bene, a cominciare dall’acume sociologico — immaginazione + conoscenza — del Marx «storico» [34]
. Problemi che vanno affrontati senza frustrazioni perché non sono alternativi a quelli della lotta di classe, e per affrontare i quali gli strumenti di ieri appaiono oggi così rudimentali che, in mancanza di meglio, si è quasi tentati di usare quelli degli altri  [35]
.
Il fatto decisivo è che non si dispone di una teoria operaia della promozione e della mobilità sociale. O, per meglio dire, essa non può che far perno sul mecca
{p. 64}nismo di ingresso/fuoriuscita rispetto alla classe operaia [36]
.
Note
[24] A. Zevi, Trasferimenti alle famiglie e offerta di lavoro, Quaderni de «La Rivista trimestrale», n. 55-56, luglio-ottobre 1978, pp. 128 ss.; ed anche Differenziali salariali e atteggiamento dei giovani verso il lavoro in «Politica ed economia» n. 4, luglio-agosto 1978, pp. 57 ss.
[25] Sulla gerarchia sociale nei paesi socialisti cfr. R. Di Leo, Il modello di Stalin, Milano, Feltrinelli, 1977, e anche: A. Giddens, La struttura di classe nelle società avanzate, Bologna, Il Mulino, 1975, pp. 335-58; e F. Parkin, Disuguaglianza di classe e ordinamento politico, Torino, Einaudi 1976, pp. 159 ss.
[26] Del lavoro, non del consumo come proponeva F. Rodano, Considerazioni sulla dialettica sociale dell’«opulenza» in «La rivista trimestrale», n. 28-30, novembre 1969, dove dell’autunno caldo si dava un’interpretazione economicista col ritenere che gli operai intendessero «collocarsi al centro, come già dello sviluppo produttivo, così della fruizione dei benefici che ne derivano, e di costituirsi così in misura fondamentale della distribuzione del reddito», p. 369.
[27] Così L. Ribolzi in I mestieri inventati, Torino, Edizioni della Fondazione Agnelli, 1978, p. 155, una ricerca su «lavoro manuale e lavoro intellettuale nei libri di testo della scuola dell’obbligo».
[28] V. D’Alessandro, L’immagine del lavoro in pre-adolescenti napoletani, Istituto universitario orientale, «Contributi di ricerca», n. 1, Napoli, 1978. Cfr. anche P. Donati, L’incidenza della famiglia rispetto alla scuola sulla socializzazione al lavoro in aree urbane differenziate, in «Studi di sociologia», n. 1, gennaio-marzo 1978, pp. 71-73.
[29]Cfr. la bella ricerca di G. Gennaro, L’operaio immaginario, La figura dell’operaio in una società non industrializzata, (Isvi papers, n. 4-5), Bologna, Il Mulino, 1978. Si veda la posizione degli operai nella scala di prestigio degli studenti, verificata da L. Bovone, Studenti, società civile e società politica, in «Studi di sociologia», n. 1, gennaio-marzo 1978, pp. 96-102.
[30] Per una riflessione d’insieme, cfr. A. Becchi Collida, Egualitarismo e politica salariale (1968-1977), in «Proposte», n. 59-60, Roma, Editrice sindacale italiana, 1978, e G. P. Cella, Uguaglianza e rivendicazione, Roma, Edizioni Lavoro, 1978.
[31] Credo sia un errore sostenere che durante questi anni c’è stato un «congelamento del posto della classe operaia dentro un assetto dato della gerarchia sociale», come afferma M. Colafato, Modi e luoghi, Milano, Feltrinelli, 1978, p. 51. È una sottovalutazione ingiusta. Il problema è un altro: non tornare indietro. Infatti non ritengo irreversibile il potere acquisito, né può essere intoccabile la «forza strutturale dell’operaio collettivo», come la chiama L. Fiocco, Classi e pratiche di classe, Padova, Marsilio, 1975, p. 138.
[32] Citerei a questo proposito le espressioni, generiche quanto elevate, che usa il Pei nella Proposta di progetto a medio termine, Roma, Editori Riuniti, 1978, a proposito del lavoro (pp. 26-7). Valga per tutte il presupposto di partenza, «Una nuova scala di valori deve fondarsi in primo luogo su una rivalutazione del lavoro produttivo e socialmente utile», che pure parrebbe derivare da analisi approfondite.
[33] Un «sentimento della determinatezza», direbbe K. Mannheim, Ideologia e utopia, Bologna, Il Mulino, 1957, p. 245.
[34] Cfr. di A. Illuminati, Sociologia e classi sociali, Torino, Einaudi, 1967, molto più persuasivo del suo recente Classi sociali e crisi capitalistica, Milano, Mazzotta, 1977.
[35] Vedi il capitolo «Note sulla crisi del marxismo e sull’emergenza di una sociologia accademica in Unione Sovietica», abbastanza illuminante, di A. W. Gouldner, La crisi della sociologia, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 649 ss.
[36] L’autore più attento, scrivendo nel 1921 un vero «Manuale popolare di sociologia marxista», non vi fece il minimo cenno: cfr. N.I. Bucharin, Teoria del materialismo storico, Firenze, La Nuova Italia, 1977. Né aveva adombrato la questione in quella opera di ingegneria sociale che è l’Economia del periodo di trasformazione (in realtà: di transizione), Milano, Jaca Book, 1971, dove pure c’è un’acuta tipologia sulla composizione della classe operaia: p. 156.